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Mitologia Esoterismo Psicanalisi

 

Storia delle religioni, tradizione,esoterismo, psicanalisi 

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PRESENTAZIONE DEL VOLUME I° DELLA SCIENZA DEI MAGI

 

(San Paolo – Libreria Martins Fontes Paulista – 6-3-2015)

 

 

Buona sera a tutti,

è mia intenzione dividere la presentazione del libro di Giuliano Kremmerz La Scienza dei Magi in due parti:

  • Nella prima parte desidero parlarvi dell’autore, di Giuliano Kremmerz.

  • Nella seconda parte del suo libro pubblicato in Brasile dall’editore Devir.

A dire il vero una biografia di Giuliano Kremmerz potete leggerla nel libro, ma io ho intenzione di raccontarvi alcuni fatti della sua vita che considero molto importanti e che daranno a voi la possibilità di conoscere meglio un uomo così misterioso e quindi desidero chiamare la vostra attenzione su questi fatti della vita di Kremmerz dai quali dipendono alcuni degli avvenimenti futuri.

Kremmerz nacque a Napoli nel 1861 in una delle città più magiche dell’Italia. Il suo nome di battesimo era Ciro Formisano e nacque in una famiglia di classe media la quale possedeva nel centro di Napoli una casa. La sua famiglia affittò una stanza ad un farmacista di nome Pasquale De Servis. Il De Servis che era un affiliato dell’Ordine Egizio, Ordine di cui vi parlerò tra poco, vide nel giovane Formisano un uomo predestinato e dotato di speciali doni spirituali. Decise quindi di iniziare il Formisano all’Ordine dandogli il nome iniziatico Kremm-erz, nome che ha origine in un geroglifico egizio e che nella nostra lingua latina ha il significato di Leone Solare.

In realtà il compito cui era destinato il Formisano richiedeva un essere con la forza e la volontà di un leone e una spiritualità di carattere solare.

Vi parlerò adesso di questo misterioso Ordine Egizio che tanta curiosità ed interesse ha suscitato e continua a suscitare in Europa e a cui perciò dedicheremo un poco del nostro tempo.

L’origine di quest’Ordine è molto antica. Si ha testimonianza di un tempio consacrato alla dea Iside nelle vicinanze di Napoli gestito da una classe di sacerdoti isiaci. Erano queste, persone abituate a trasmettere i loro insegnamenti. Dal mondo antico quindi e per vie misteriose, la sapienza isiaca giunse nei palazzi dei nobili napoletani e nelle Accademie dei filosofi rinascimentali. Da queste scuole uscirono filosofi come Giordano Bruno e Giovambattista della Porta e lo stesso Cornelio Agrippa quando si recò a Napoli per scrivere la sua celebre Filosofia Occulta attinse alle conoscenze di queste scuole.

Questa sapienza di carattere ermetico-pitagorico fu utilizzata anche da Tommaso Campanella che abitò a Napoli sia da uomo libero che da prigioniero della Santa Inquisizione per sospetto di eresia e finalmente entrò nei palazzi dei nobili principi Raimondo di Sangro e Luigi d’Aquino che iniziò il conte di Cagliostro alla magia egizia.

Fu proprio nel grande palazzo del principe Raimondo di Sangro, alchimista e massone, che nacque il più antico ordine ermetico. L’Ordine, di cui ci sono rimaste sicure notizie storiche, fu fondato con copertura massonica e subì numerose persecuzioni ad opera della Santa Inquisizione, giunse a fine ottocento nelle logge dirette da Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano, insigne cabalista e maestro di Kremmerz, Pasquale de Servis ed altri. L’Ordine era estremamente chiuso e non permetteva la divulgazione all’esterno della sua dottrina di carattere ermetico-pitagorico-cabalistico.

Da quest’Ordine nacquero tante cose, oltre alla Massoneria Egiziana di Cagliostro, anche il più antico rito di Memphis di cui successivamente si commisero molti abusi e profanazioni in diverse parti dell’Europa.

Ho raccontato questi fatti primo perché conosco l’interesse che si ha in Brasile da parte di molti studiosi per la tradizione esoterica napoletana, e poi perché si abbia una idea precisa della serietà e della purezza della tradizione egizia, egizia di nome ma italiana di fatto.

A fine ottocento si verifica l’episodio più sconcertante nella vita di Giuliano Kremmerz: un viaggio in Sudamerica. Su questo viaggio si possono fare solo alcune supposizioni, perché le ragioni vere rimangono tuttora avvolte nel mistero. Ma nonostante la scarsezza di notizie ne parlo per l’interesse che riveste in un pubblico sudamericano.

Giuliano Kremmerz era già un maestro di ermetismo e di terapeutica, dotato di un alto livello culturale (conosceva le lingue antiche molto bene ed era un eccellente scrittore) ma crediamo che a spingerlo verso l’America Latina fosse il bisogno di conoscere le tradizioni di altri paesi ed in particolare le tradizioni botaniche e sciamaniche.

Sbarcò a Montevideo in Uruguay e di là si trasferì in Argentina, a Buenos Aires. Fu accolto molto bene nella numerosa comunità italiana. Collaborò ad alcuni giornali argentini e trovò anche lavoro. Subito dopo decise di viaggiare per il Brasile. Visitò il Mato Grosso. Possiamo immaginare cosa fosse il Mato Grosso a fine ‘800: una terra inesplorata e pericolosa per qualunque viaggiatore. Si trasferì in Bolivia e probabilmente visitò il Perù. Fu durante il soggiorno sudamericano che Kremmerz studiò medicina e si specializzò in omeopatia. Con molti soldi in tasca guadagnati dopo aver giocato in Borsa Kremmerz fece ritorno a Napoli.

Ed a Napoli con l’autorizzazione dei Dodici Supremi Vecchi Maestri del Collegio Operante fonda la Fratellanza Terapeutica Magica di Myriam. Era il 1909.

Perché il nome Myriam, cosa voleva dire Kremmerz con questa parola? Myriam è una parola arcana e cabalistica che non ha niente in comune con il misticismo cristiano o giudaico. “La Scienza dei Magi” è ricca di definizioni sulla Myriam ed io cercherò di fare una sintesi e di dare a voi questa sera una visione il più possibile precisa.

 “Myriam è l'anima umana vergine e priva di imperfezioni e impurità umane e quindi di operare attraverso l'amore fraterno che dà la possibilità al principio divino che è in noi di compiere qualsiasi miracolo.”

Perchè la parola Myriam si trova associata alla parola Terapeutica e alla Magia? Kremmerz risponde così:

 Ovunque tu guardi, vi è un dolore. Chi soffre? - E 'la materia. Lo spirito umano che è divino, non sente il dolore se non a causa della sua involuzione nella materia. Se la materia lo sopporta, soffre insieme a lei; se la domina, la cura.

E’ chiaro perciò che la Myriam è una fratellanza di uomini e donne che si occupano della sofferenza umana. In che forma? Perché?

La risposta ci viene da un importante discepolo di Kremmerz:

La Myriam, allenando il discepolo nel benefico e pietoso esercizio della terapeutica, intesa come medicina a distanza, lo conduce, con la sua potente e luminosa teurgia, ad un grado di purezza e di trasparenza spirituale.

La magia è la scienza che si occupa della forza e dell'unità della materia che mette l'uomo in contatto con le forze della natura e in comunicazione con il mondo invisibile e il mondo spirituale.
Ha origine nell'antica parola “mag”, che significa potere di trance attivo che mette in comunicazione il corpo lunare dell'uomo con la corrente astrale dell’universo.

Questa pratica di medicina occulta era eseguita con la formula latina pro salute populi che è la più potente legge di amore che si conosce sulla terra.

E’ necessario dire due parole su questa legge di amore che troviamo nell’attività terapeutica della Myriam. Non si tratta di quell’amore profano che incontriamo nel mondo volgare dello spettacolo, neanche di quello mistico e passivo delle religioni monoteiste che attendono passivamente dal cielo la grazia divina, ma di quello sacro che leggiamo nel Simposio di Platone e che nella visione della dottrina ermetica è una forza magica sottile capace di fare cose straordinarie, soprattutto di aiutare a guarire una persona che soffre. Kremmerz, per far intendere la legge dell’amore, ripeteva ai suoi discepoli questo aforisma: immaginate che il vostro più grande nemico vi faccia sapere di avere un problema di salute: sareste capace di aiutarlo amandolo di quell’amore che sente la madre per il figlio e che Kremmerz giudicava come l’amore più sublime esistente sulla terra?

Dopo la fondazione Kremmerz organizzò la fratellanza di Myriam in Accademie le quali riunivano nelle maggiori città italiane i candidati che aspiravano ad entrare nella Myriam. Tutti i soci delle Accademie col nome di fratelli e sorelle praticavano i riti di magia cerimoniale della Scuola ed uniti secondo la legge numerica e pitagorica dei numeri utilizzavano la forza collettiva a favore di colore che avevano chiesto un aiuto. Tutto ciò avveniva in forma totalmente disinteressata e senza alcun compenso né in denaro né di carattere materiale. Secondo la legge di Hermes dare senza attendersi nulla in cambio è uno dei principali segreti del successo della Scuola.

La situazione politica e sociale in Italia cominciò a peggiorare con lo scoppio della prima guerra mondiale. Molti fratelli furono obbligati ad andare in guerra e Kremmerz in persona che aveva previsto un peggioramento generale sia in Italia sia in Europa decise di trasferirsi nel Principato di Monaco, a Montecarlo, quasi al confine con l’Italia dove continuava a ricevere i suoi discepoli e da dove non gli fu difficile continuare a dirigere la Myriam.

Ma il peggio doveva ancora venire. E il peggio arrivò con la vittoria politica del fascismo in Italia. A dire il vero il fascismo non avrebbe nuociuto alle società esoteriche italiane anche perché i maggiori esponenti del fascismo erano massoni con gli alti gradi di Rito Scozzese. Ma quando Mussolini firmò con la Chiesa Cattolica i Patti Lateranensi, l’antico odio della chiesa contro la massoneria e contro le società esoteriche si rifece vivo e il papa costrinse Mussolini a firmare le leggi che mettevano fuori legge la massoneria e qualunque società considerata segreta.

La Myriam non sfuggì a questa nuova persecuzione e alcune Accademie (quella di Roma principalmente) furono saccheggiate dalla polizia. I fratelli dovettero mettersi in silenzio o scegliere la via dell’esilio.

Kremmerz morì a Montecarlo nel 1930 e le Accademie restarono praticamente inattive fino alla fine della seconda guerra mondiale. I discepoli più fedeli continuarono a praticare i Riti della Scuola in forma riservata e segreta.

Subito dopo la fine della seconda guerra, negli anni ’50 i discepoli più fedeli si riunirono a Roma e decisero di riattivare le Accademie e di raccogliere tutti gli scritti di Kremmerz. Kremmerz aveva collaborato ad alcun riviste importanti come il “Mondo Secreto” il “Commentarium” la “Medicina ermetica” ed altre riviste minori. Decisero perciò di riunire tutti gli scritti in una unica opera. Nacque così l’Opera Omnia di Giuliano Kremmerz che fu pubblicata per la prima volta nel 1954 dalla CEUR di Roma e a cui successivamente fu dato il titolo “La Scienza dei Magi”. L’opera era e continua ad essere pubblicata in 4 volumi: i primi tre contengono gli scritti del Maestro, mentre l’ultimo volume è un Dizionario di termini ermetici, magici, alchemici.

La decisione nacque da una serie di circostanze: la prima fu quella di dotare le Accademie di uno strumento di studio e di conoscenza basato sulla parola e sugli scritti dello stesso Maestro della Myriam, il secondo sul fatto che era evidente in Italia e anche fuori dell’Italia l’influenza nella cultura, nelle letteratura, nella poesia, nella musica della scienza magica e dell’esoterismo in genere. Opere come quelle di Guenon, di Evola, di Reghini erano presenti in tutte le biblioteche pubbliche e private degli uomini di cultura e facevano la loro bella figura accanto ai libri degli antichi e dei moderni alchimisti ed ermetisti come Paracelso, Agrippa, Papus, Tritemio, Eliphas Levy, Cagliostro. Ricordo che un maestro come Nino Rota, autore di celebri musiche per film, oltre ad essere un miriamico, possedeva una delle maggiori biblioteche alchemico-ermetiche.

Fuori dall’Italia, la Francia ha avuto grandi studiosi e ad Amsterdam, in Olanda, esiste la  Bibliotheca Philosofica Hermetica che raccoglie numerosi manoscritti e opere di ermetismo.

Le leggi contro le società segrete e la guerra costrinsero, come accennato prima, a un vero e proprio esodo dei maggiori esoteristi italiani verso paesi esteri. Lasciarono l’Italia oltre a Kremmerz, il maestro Amedeo Armentano che nel 1924 raggiunse San Paolo, il principe Leone Caetani (membro dell’Ordine Egizio) che se ne andò in Canada e l’ing. Manlio Magnani che lasciò l’Italia nel 1928.

Desidero adesso chiamare la vostra attenzione sulla persona e sulle attività di Manlio Magnani. Perché è vero che Kremmerz lasciò tracce importanti della sua presenza in America Latina e probabilmente Manlio Magnani fu attratto dalla città di Buenos Aires dalle notizie di questa antica presenza del Maestro in Argentina.

Ma in realtà il vero fondatore della Fratellanza Hermetica in America Latina fu Manlio Magnani. Come ho detto Magnani arrivò a Buenos Aires nel 1928 e fu accolto calorosamente dalla numerosa comunità italiana che in quegli anni esercitava una forte influenza nella massoneria e nelle maggiori organizzazioni esoteriche. Magnani attraversava l’Atlantico con il grado di Maestro di Myriam, essendo stato iniziato direttamente da Kremmerz in Italia, con il grado di 33 del Rito Scozzese, con la qualifica di Superiore Incognito del Martinismo e di Grande Ispettore del Rito di Memphis. Infine Magnani aveva delle conoscenze elevatissime di cabala ed alchimia ed era un discepolo pitagorico del Maestro Armentano. Era quindi una personalità di grande valore e di grande levatura morale e spirituale.

A Buenos Aires Magnani fondò la prima Accademia latino-americana della Fratellanza Hermetica, tradusse i rituali in spagnolo ed ebbe i suoi primi importanti discepoli.

Verso il 1930 a causa di problemi di lavoro entrò in contatto con il Maestro Armentano in Brasile, il quale lo invitò a trasferirsi a San Paolo dove avrebbe incontrato un lavoro.

Da San Paolo Magnani continuò a dirigere l’Accademia che aveva fondato a Buenos Aires e creò unitamente ad Armentano e ad altri italiani residenti in questa città un piccolo cenacolo di italiani che praticava studi di carattere pitagorico-cabalistico-ermetico.

 

Era un gruppo molto chiuso e riservato. Ma tutti mantenevano rapporti molto cordiali e amichevoli con la comunità italiana che in quegli anni a San Paolo esercitava un’influenza molto forte nella cultura paulista. Basti pensare ai giornali di lingua italiana che si pubblicavano a San Paolo, alla presenza di un Nino Daniele che in Italia era stato segretario di D’Annunzio e che collaborava con i maggiori quotidiani della città.

E’ pertanto di Magnani il merito di aver portato la scienza ermetica in America Latina. E non è significativo che il primo sodalizio ermetico in Brasile sia nato proprio a San Paolo? Egli morì a San Paolo nel 1946 ed è sepolto in questa città. I suoi scritti sulla cabala e sull’ermetismo sono ancora inediti: qualche scritto è stato tradotto in portoghese e pubblicato nel sito della Fratellanza Hermetica. Comincerò adesso a parlarvi del primo volume dell’opera “La Scienza dei Magi”.

Per prima cosa è mio dovere illustrarvi il significato del disegno pubblicato sulla copertina che è in realtà il simbolo della Fratellanza Hermetica in America Latina.

Vediamo un doppio circolo che avvolge la scritta S.P.H.C.I. Il doppio circolo nella sua essenza magica rappresenta l’unione dei fratelli che appartengono a questa Scuola, ma nello stesso è magneticamente costruito come cerchio magico di difesa da tutti i pericoli che possono venire dal mondo profano. Le lettere sono le iniziali della frase SCHOLA PHILOSOFICA HERMETICA CLASSICA ITALICA che fin dalla prima fondazione di Giuliano Kremmerz nel 1909 ha rappresentato la Fraternità con le caratteristiche di Scuola. E’ inutile dire che “filosofia” qui va inteso nella sua etimologia classica di “amore per la sapienza”. La stella a 5 punte simbolizza l’uomo integrato nei suoi poteri magico-spirituali e richiama alla memoria in primo luogo il pentalfa pitagorico e la grande importanza che Pitagora dava al numero 5. In epoca rinascimentale la stella a 5 punte è stata disegnata da Leonardo da Vinci nell’uomo con le braccia allungate e le gambe aperte. Intorno alla stella troviamo la scritta in greco “IUGHIEIA” che in latino si traduce come “salus” ed in portoghese come “saude”/“salute”. E’ un’ulteriore conferma della finalità primaria della Scuola. Al centro infine della stella v’è un sole con 12 raggi e qui il simbolismo cosmico-astrologico è evidente e rappresenta l’aspirazione massima del discepolo ermetico che è quella di integrarsi nella forza di Osiride, dopo aver superata la prova isiaca.

Il libro che sto per presentarvi è diviso in cinque parti e alcune introduzioni:

Prima di entrare in dettagli desidero dire due parole sullo stile letterario di Giuliano Kremmerz. Il suo non era uno stile facile alla lettura, in primo luogo per la materia trattata e poi per il modo di scrivere usato a fine ‘800 che comporta molte difficoltà di interpretazione sia per un lettore italiano che per un traduttore in una lingua straniera. A parte ciò Kremmerz per la sua natura di napoletano colto amava essere molto ironico e scherzoso e usava molto le metafore e talvolta egli, senza volere, finiva per mettere in difficoltà il lettore non abituato ad una lettura di quel genere. Kremmerz stesso disse le seguenti parole che vi cito:

 “Non desidero essere collocato tra i retorici e i traditori del bello scrivere quando io, forse per primo, voglio presentare un insieme di dottrine che sono esatte e immutabili e che appartengono alle origini della scienza segreta e sacra che nessuno ha presentato al pubblico non preparato e che nessuno può svelare in tutta la sua interezza. Perciò il buon discepolo non deve preoccuparsi molto con la forma grammaticale di alcune frasi e deve cercare di assimilare il significato occulto, che è essenzialmente scientifico”

"Studiare la magia e applicare la Teurgia, non significa studiare i fenomeni che raggiungono i sensi fisici, ma studiare le leggi occulte e produrre fenomeni manifesti: e come tutte le scienze la Magia deve essere studiata con attenzione prima di tutto nella sua parte dottrinaria e in un secondo momento nella sua applicazione; ma prima di tutto, per qualunque cosa che appartiene alla scienza, è necessario intendere il significato delle parole che vengono utilizzate. "

Questa era anche una regola degli alchimisti rinascimentali ed è evidente che Kremmerz non poteva distanziarsi dai suoi più celebri maestri nell’esporre una dottrina come quella ermetica.

E quando scrive, nelle Introduzioni, troviamo una biografia di Kremmerz, un indice della sua produzione letteraria ed alcuni scritti dedicati al Maestro ed alla sua Scuola. L’interpretazione, è chiaro, dipende anche dal grado di preparazione del lettore.

La prima parte è dedicata all’Introduzione alla Scienza Occulta.

 

Qui troviamo il proposito dell’Autore di introdurre (come la parola stessa dice) il lettore alla conoscenza di un argomento che negli anni in cui Kremmerz scriveva era già abbastanza conosciuto. E’ importante sapere che, nel mentre egli descrive altre forme di occultismo come la teosofia, lo spiritismo, il mesmerismo, la medianità, l’ipnosi ecc. egli è sempre molto educato e corretto, perché il suo scopo principale era quello di far conoscere ai suoi lettori i metodi degli altri, dimostrarne gli errori in maniera pratica e metterli a confronto con la scienza magica. Riconosceva comunque il valore della medianità e del magnetismo umano e ne riconosceva la grande utilità quando venisse utilizzata in maniera positiva e non per fare viaggi nei mondi della fantasia e dell’inesistente.

Importanti in questa parte, sono i capitoli dedicati allo spiritismo e alle apparizioni delle anime dei morti e alle citazioni di alcuni scritti di eminenti scienziati della sua epoca che avevano pubblicato il risultato delle loro esperienze con medium e occultisti delle diverse associazioni cosiddette spiritiste.

 

La seconda parte è dedicata agli Elementi di magia naturale e divina.

 

Qui entriamo nel vivo della scuola ermetica ed è richiesta una grande attenzione da parte di quel lettore che, dopo questa lettura, potrebbe aver qualche interesse diretto nelle attività della scuola.

Infatti in questo parte del libro Kremmerz descrive il ruolo e l’importanza del Maestro nella Fraternità e la maniera in cui il Discepolo si deve porre nei confronti del Maestro.

Il Maestro viene rappresentato come un sole e il discepolo come una luna, perché il discepolo assorbe e riflette i raggi di un sole, proprio come fa la luna satellite nei confronti del sole pianeta.

Il simbolismo è evidente: il discepolo deve solo tacere e apprendere, ossia assorbire il più possibile gli insegnamenti preziosi che gli vengono dal Maestro.

Questo silenzio nelle antiche scuole pitagoriche durava 5 anni, oggi siamo in democrazia e il periodo di silenzio è stato ridotto, ma non è stato ridotto l’apprendistato che può durare a tempo indeterminato se il discepolo non dà prova di essere maturo.

E’ necessario che vi parli della differenza tra magia naturale e divina che rappresenta il tema dominante di questa parte del libro.

Per non sbagliare, cito le stesse parole di Giuliano:

Divido la MAGIA, o Sapienza Arcana, in due grandi parti: la Naturale e la Divina. La prima studia tutti i fenomeni legati alle qualità occulte del corpo umano e il modo di ottenerle e riprodurle entro i limiti del corpo utilizzato come mezzo. La seconda è dedicata alla preparazione dell’ascensione spirituale dello studioso, in modo che renda possibili le relazioni dell'uomo con le nature superiori invisibili all'occhio volgare.

 

La terza parte è dedicata alle Istruzioni per la preparazione del discepolo.

Qui bastano poche parole in quanto Kremmerz dà alcuni consigli pratici agli aspiranti studiosi di magia. Li esorta soprattutto a praticare perché già in altre parti del libro aveva detto ripetute volte: non credete alle mie parole, ma sperimentate ciò che vi dico, perché io potrei anche ingannarvi fin quando non avrete la conferma su ciò che insegno. La sapienza deve diventare carne e sangue della vostra carne, perché dia i frutti desiderati. Verbum caro factum est.

 

La quarta parte è dedicata ai misteri della taumaturgia.

 

Direi che è la parte più importante e più difficile del libro. Tenterò in poche frasi di darne una idea.

In questa parte il linguaggio dell’Autore diventa più enigmatico perché deve commentare ed esporre la legge divina dell’Uomo come Unità assoluta. Entriamo quindi nei misteri più reconditi della cabala e del pitagorismo magico ed è richiesta da parte del lettore una concentrazione molto grande. A parte tutto, parlare di taumaturgia, ossia dell’arte di far miracoli, che è l’arte della piromagia o magia del fuoco, non è sempre facile e permesso.

Tutti sappiamo che scientificamente il miracolo non esiste: quanti fenomeni che nel passato erano considerati miracolosi col tempo sono stati spiegati dall’intelligenza e dalla ricerca scientifica. Lo stesso potere intuitivo dell’uomo può essere visto come una qualità taumaturgica, quando in effetti è la fonte delle più grandi scoperte dell’uomo.

Ma Kremmerz con i misteri della taumaturgia mirava più in alto e più lontano. Dove?  

Questa è la parte del libro in cui Kremmerz fornisce le chiavi per togliere i veli di alcuni arcani della magia, relativi al discepolo reintegrato nella sua unità divina e naturale che ha la potestà di restituire la salute a chi ne è privo o di trasformarsi in un dio.

 

Siamo arrivati così all’ultima parte del libro: alle finalità della medicina ermetica.

 

Per non ripetere le cose già dette dirò semplicemente con le parole di Kremmerz che una malattia quando si manifesta è di per sé un segno di squilibrio interiore nell'uomo, perciò il desiderio di Kremmerz con tutta la sua fraternità è quello di integrare la medicina dell'uomo con la medicina spirituale ermetica. Ciò significa che la Fratellanza Hermetica non vuole sostituirsi alla medicina ufficiale, al contrario vuole operare laddove la medicina ufficiale dimostra i suoi limiti e i suoi vuoti e in alcuni casi aiutarla a superare questi limiti e a colmare questi vuoti.

Desidero adesso concludere con un messaggio di fede e di speranza. Il Brasile è l'unico paese fuori d'Italia che ha tradotto l'Opera Omnia di Kremmerz. E questo gli permetterà di preparare una élite spirituale e iniziatica che giustifica le affermazioni di Manlio Magnani nel suo scritto su "il futuro del Brasile." Magnani era sicuro che il Brasile avrebbe avuto un futuro, ma fondava la sua certezza nella possibile comparsa di saggi e di uomini spiritualizzati capaci di illuminare come fari il futuro di un popolo.

La mente bicamerale: l’altra faccia della realtà?

 

A metà Gennaio sono tornato da una delle mie solite peregrinazioni per il mondo che, stavolta, ha avuto per oggetto il Messico. A portarmici è stata la mia curiosità per una delle grandi civiltà del mondo, collocata dall’altro capo dell’Oceano, oltre le fatidiche Colonne d’Ercole, praticamente agli antipodi materiali e spirituali di quel mediterraneo bacino Egizio, Ellenico, Etrusco, Romano e via discorrendo. Di quel bacino la cui intersecazione di culture, religioni, sentimenti, ha creato un vero e proprio “unicum”, un qualcosa che sembrerebbe irripetibile…ed invece, proiettando il proprio sguardo su quella  parte di mondo a noi sconosciuta, ci si presenta un altro immenso bacino, un Golfo trasudante di storia, civiltà, arte, che nulla ha da invidiare al nostro vecchio, caro,Mediterraneo. Ed eccomi lì, proiettato in un posto in cui, ad ogni batter d’occhio, ad ogni angolo, è un tripudio di chiese barocche, case coloniche, ma anche vestigia senza fine di antiche civiltà. Olmechi, Miztechi, Aztechi, Zapotechi e Maya hanno disseminato, da Nord a Sud, da Est ad Ovest, il Messico delle eloquenti testimonianze, di una più che millenaria civilizzazione. Piramidi per tutti i gusti e le dimensioni, templi, edifici dalle più svariate funzioni, sono disseminati per ogni dove sul territorio messicano. Particolarmente impressionante, la produzione artistica riguardante la sfera religiosa. Una sterminata cornucopia di  statue e statuette, dipinti murali e vascolari, fregi e quant’altro, al pari di quanto si può vedere in Grecia, Egitto, Roma, ma anche tra Sumeri, Assiri e Babilonesi, aventi per oggetto Dei, Dee, Demoni ed altri personaggi dell’immenso pantheon mesoamericano, affiancate da simboli solari, simbologie di morte, rinascita e potenza sembrano circondare, parlare, imporre la propria potente presenza all’incauto osservatore occidentale e, nel richiamare alla mente una meticolosa ritualità, ci rendono l’immagine dell’ onnipresenza delle potenze numinose, nella vita dell’uomo dell’antichità. Ogni immagine dovrebbe richiamare alla mente una presenza sovrannaturale, una pratica cultuale, una storia, un mito, un archetipo, su cui poter concentrare la propria pratica devozionale…eppure, a ben vedere, in tutto questo c’è un qualcosa che non ritorna. Un tassello che sembra mancare e fare capolino qua e là, con un interrogativo che potrebbe far sprofondare qualsiasi illuministica certezza, nel baratro della più oscura, e mai sopita, superstizione. Come facevano gli antichi? Che senso poteva avere una simile profusione di ritratti? E poi. Come si fa a perseguire un’esistenza all’insegna della più rigida, meticolosa osservanza delle prescrizioni religiose, come è possibile “orare”, pregare, conversare, con la sostanza inanimata? Che follia è mai questa? Erano gli antichi, per caso, dei folli invasati rispetto a noi ed alla nostra rarefatta ed astratta pratica religiosa? A questo pressante interrogativo sembra voler dare una risposta “Il crollo della mente bicamerale e le origini della coscienza”, scritto dall’americano Julian Jaynes, per lungo tempo docente di psicologia all’università di Princeton, e frutto di una serie di conferenze svolte nel  ’67 ed edito un decennio più tardi. La tesi portata avanti da Jaynes, a sentirla, ha tutta l’aria di una follia, eppure possiede una sua intima e pregnante coerenza. Partendo (un po’ come Jung a suo tempo, sic!) dall’osservazione di patologie psichiatriche come la schizofrenia e da alcune conclusioni riguardanti la struttura fisiologica del cervello umano. E’ cosa risaputa che, oggidì, noi usiamo prevalentemente un solo emisfero cerebrale, quello sinistro, quello destro essendo deputato a poche e più ridotte funzioni. L’attenzione di Jaynes si concentra poi sugli interscambi tra le due zone degli emisferi, deputate a determinate funzioni quali canto, linguaggio, memoria e quant’altro, la zona di Wernicke e quella di Broca. Con una serie di osservazioni, Jaynes ci illustra come l’emisfero destro si attivi per quanto riguarda funzioni poco ortodosse come canto, poesia e simili, sino ad arrivare a formulare quella che rappresenta l’ipotesi “principe” del suo libro. A suo dire gli antichi non pensavano con i nostri stessi parametri; la stessa coscienza sarebbe una modalità recente del nostro pensiero e non un qualcosa di ultramillenario, frutto di infinite sedimentazioni e motivi, così come vorrebbero i più famosi studiosi di psicanalisi (da Jung a Neumann ed a tanti altri ancora). A sostegno di questa tesi, sin dall’inizio del libro, Jaynes ci presenta l’esempio di tutta una serie di comportamenti ed operazioni di pensiero, la cui matrice è inconscia. La coscienza si rivela essere un linguaggio metaforico, con il quale comprendiamo la realtà delle cose. Dopo di che, Jaynes rivolge la propria attenzione all’antichità, partendo proprio da quella grecità arcaica che, a suo dire, nell’Iliade trova la propria massima espressione letteraria, e viene pertanto portata ad esempio, quale tipico poema “bicamerale”. L’uomo qui, agisce in modo impersonale, istintivo, seguendo pedissequamente, ordini, inviti e suggerimenti degli Dei, cosa che, invece, nell’ “Odissea” non si verificherà, quest’ultima essendo un poema in cui, dall’immagine di un progressivo nascondimento degli Dei, si preavverte chiaramente il graduale perder colpi di questa modalità di pensiero. Una modalità le cui manifestazioni non escludevano allucinazioni uditive e visive e che, per questo, interagiva in perfetta osmosi con l’uomo dell’antichità. A tale proposito, l’autore svolge un’accurata analisi di ampio respiro, coinvolgendo aspetti che vanno dalla storia alla psicologia, sino ad una vera ed approfondita analisi filologica. Ad esser passati al setaccio sono i termini “psyché”, “thumos”, “phrenes” e “noos” , atti generalmente a descrivere diverse parti fisiche connesse con vari stati dell’anima e della mente, interpretati secondo un’ottica che punta a connetterli a “mermera”, termine che sta ad indicare «in due parti», da cui “mermerizo/sono diviso in due parti riguardo a qualcosa”. Gli antichi pertanto, non pensavano con le nostre stesse modalità, potendo fruire dell’uso dell’emisfero cerebrale destro, che avrebbe attivato quelle “voci degli dei” con cui l’uomo dell’antichità si trovava in un osmotico rapporto di comunicazione. La “bicameralità” della mente degli antichi, rappresenterebbe quindi una forma di schizofrenia non patologica, che avrebbe permesso a costoro di sviluppare la civiltà. Gli Dei ispiravano, suggerivano, coordinavano la vita degli uomini. Intervenivano nelle principali questioni afferenti la vita umana. Dalle contese guerresche all’ispirazione artistica, passando attraverso le questioni più pratiche della vita umana, dalla coltivazione dei campi, all’arte di edificare, sino alla sfera sentimentale, non c’era ambito in cui le potenze numinose non facessero sentire la propria voce che, in questo modo, assumeva una vera e propria funzione di equilibratore e stabilizzatore sociale. A dire dell’autore, il primo gradino di questa complessa relazione, era rappresentato dal culto dei morti le cui voci, facendosi sentire nel tempo, andavano via via assumendo una valenza divina. A tal proposito, Jaynes ci porta alcuni esempi di architettura sacra, il cui significato avrebbe proprio riportato a quanto abbiamo detto. Parlando della “mastaba” egiziana e delle prime basse e tozze piramidi del mondo antico in genere (con particolare riferimento all’area mesopotamica), l’autore ci fa notare come lo scopo di queste costruzioni fosse, probabilmente, quello di onorare dei re le cui figure avrebbero, in seguito, assurto una valenza sovrannaturale, grazie alle voci di cui abbiamo parlato. Stessa cosa vale per quei casi di divinità le cui statue, specialmente nel mondo egizio e mesopotamico, venivano vestite, lavate, portate in processione ed a cui venivano fatte offerte di cibo, proprio perché di queste ultime, a detta dell’autore, se ne preavvertivano voci, comandi e desideri. La “bicameralità” della mente, questo varco aperto verso l’oscura dimensione del mistero e dell’irrazionale, subì però, a detta dell’autore, un duro colpo a partire dal II millennio A.C. quando, a seguito di una serie di ragioni concomitanti (catastrofi naturali, migrazioni, la scoperta della scrittura e via dicendo), le voci divine cessarono gradualmente di condizionare la vita degli umani. E nacque quel senso di ribellione all’autorità divina che, a partire dalla Mesopotamia, generò la visione di un cosmo suddiviso tra forze del Bene e forze del Male, tra Angeli e Demoni. Nel suo costante affievolirsi, la coscienza bicamerale lascerà le proprie vestigia nelle figure oracolari dell’antichità. A Delfi, come in altri centri, la coscienza bicamerale parlerà per interposta persona, a seguito di procedure di vero e proprio invasamento ed inebriamento mentale, attraverso le quali attivare quel lato della mente sempre più, oramai, lontano. Con l’andar del tempo, a riattivare la mente bicamerale saranno sempre più personaggi ai limiti della società e delle umane possibilità, quali medium ed indemoniati. I suoi residui attuali sopravvivono nella musica, nella poesia, ma anche nella pratica ipnotica e nella schizofrenia che, contrariamente alla sua natura di patologia, della mente bicamerale, forse, rappresenta la sopravvivenza più pregnante. L’ipotesi di Jaynes è affascinante, ma potrebbe presentare un indubbio lato debole: al pari di molte brillanti intuizioni scientifiche degli ultimi tre-quattro secoli, essa sembra finire nello sconfinare in una narrazione materialista. Immaginare i protagonisti dell’Iliade come degli automi senza coscienza, guidati da una forma di schizofrenia, ci sembra riduttivo. Come ci sembra altrettanto riduttivo, collocare l’origine della pratica religiosa e dell’idea del divino, in un’altra forma di schizofrenia che in una forma di successione, partendo dall’adorazione dei re e degli eroi morti, arriva alla scoperta ed alla definizione del divino. Diciamo che, la brillante intuizione di Jaynes ci deve portare più lontano. L’uso del lobo destro del cervello, attiva qualcosa che travalica la dimensione prettamente umana, psicologica. Ad esser attivata è quella forma di osmosi con la sostanza universale delle cose, con quel parmenideo Essere che tutto avvolge e con il quale, a detta dei vari filosofi esistenzialisti alla Heidegger o alla Jaspers, avremmo perduto il contatto, diventando via via sordi, attratti dal richiamo della civiltà dell’apparenza e della vacuità, sino a fare del mondo delle Idee una inutile e dannosa sovrastruttura, privante noi stessi della visione della realtà “autentica”. Ed ecco allora che la vicenda dell’uomo, del suo pensiero, il senso del suo agire nel mondo, si fa più chiaro. Ad esser coerenti con il pensiero heideggeriano, dovremmo arrivare alla conclusione che l’umana civiltà, sia frutto di una mostruosa limitazione. L’idea che la scrittura, sinanco l’organizzazione del pensiero in concetti stabili, possano rappresentare una limitazione rispetto al primigenio immediato ed istintivo contatto con l’Essere, rendendo l’uomo un essere assolutamente legato alla “pragmatica dell’apparenza”, potrebbe rendere giustizia alla narrazione del Jaynes, riconnettendola a quei tanti motivi che, a partire dagli innumerevoli  studi di antropologia filosofica, portano alla conclusione che l’uomo altri non sia che un essere rimasto allo stadio di immaturità, rispetto agli altri rappresentanti del regno animale. Capofila di questa impostazione, studiosi del calibro di un Arnold Gehlen, Helmuth Plessner, Max Scheler e Peter Sloterdjik. I meccanismi “antropogenici”, di cui ci parla uno Sloterdjik, a proposito delle sue “Sfere” (quali “case dell’essere”, nel ruolo di vere e proprie incubatrici di ominazione), al pari dei vari meccanismi descritti dagli altri autori, sembrano portare tutti a questa conclusione. Ma anche qui bisogna fare attenzione. La tentazione di radicalizzare certe coordinate di pensiero, per arrivare a determinate conclusioni, può portare a sottovalutare e banalizzare l’uomo e le sue realizzazioni materiali e spirituali. Lo stesso processo di regressione della bicameralità, descritto dal Jaynes, sebbene ricco di affascinanti spunti, non può esser sottoposto ad una così rigida datazione, quale quella che l’autore ci presenta. Oracoli, medium ed altri strani personaggi, sono già presenti in culture e manifestazioni contemporanee o antecedenti alla fatidica data del II millennio A.C. Basterebbe solo pensare alla pratica sciamanica, di cui si possono agevolmente rinvenire tracce in tutte le culture occidentali e non, sia contemporaneamente che anteriormente alla data di cui sopra, come si può evincere dalla lettura dei molti testi sul tema, tra cui, in primis, l’ottimo “Lo sciamanesimo” di Mircea Eliade. Diciamo allora che, quella della bicameralità, intesa come completa percezione dell’Essere,  è una proprietà che è andata perdendosi nei secoli e nei millenni, lasciando dietro a sé uno strascico di vestigia non del tutto sopite. Il “Daimon” socratico, al pari di tante altre manifestazioni di caduta in estasi, estraniazione o mistica ispirazione, non hanno mai completamente cessato di esser presenti e, nonostante l’onnipervadenza della tecnologia, interagiscono tuttora con la vita umana. Ma, a ben vedere, quella della natura bicamerale della mente, potrebbe essere una vicenda da non potersi facilmente esaurire nelle interpretazioni del pensiero esistenzialista. Essa può farsi metafora di uno schema di pensiero, che riguarda altri ambiti. In Marx, il lavoratore è vittima di “alienazione”, una forma di estraniamento dal proprio sé, prodotta dall’alienante modello di produzione capitalista. Non solo. In un recente dibattito sull’evoluzione delle forme di comunicazione e produzione culturale, nel sottolineare che nei momenti di crisi economica, questa forma di  produzione avanza attraverso forme inconsuete e non secondo la continuità di linee evolutive progressive. A tal proposito, il paleontologo Stephen J.Gould ci parla di “evoluzione punteggiata” che, teorizzata per i viventi, andrebbe applicata al progresso culturale. Dopo alcuni secoli di pensiero lineare, oggi è il momento del pensiero discontinuo, del movimento “random”, tutti epifenomeni caratterizzati da una continua e progressiva dispersione. Esaurita la spinta alla produzione concettuale,si passa ad una fase di distribuzione, come da Michel Serres previsto verso la metà degli Anni Settanta. La tendenza all'integrazione, alla confusione ed al diluimento delle varie forme di  specificità e peculiarità culturali, trova la sua principale spinta nella Globalizzazione, di cui lo strumento informatico rappresenta uno dei veicoli principe. Non è azzardato supporre che, dopo secoli dominati dall’idea di coscienza, così come tratteggiata da Cartesio, si potrebbe tornare a palesare una mente bicamerale, non più abitata dalle voci degli Dei dell’Olimpo, bensì da quelle rappresentate dalla forma simultanea e onnipervadente di Internet. Le forme del primitivo potrebbero riproporsi in una inedita veste Tecno Economica. Ma anche qui, potrebbe riaffacciarsi,(come in tutto il lungo e travagliato cammino dell’Occidente, sic!) la realtà di un’eterogenesi dei fini che, delle alienanti voci sintetiche della Rete, potrebbe fare un’heideggeriano “Ereignis/Evento-Eventuante”, in grado di trasformare la tecnologia in un ponte teso tra l’oscura dimensione dell’inconscio e le potenze numinose. Pertanto, quella della mente bicamerale, è una vicenda che non può non riportarci a quanto a suo tempo descritto con dovizia di particolari, da C.G.Jung, riguardo ad una mente individuale cosciente, affiancata dall’oscuro mare dell’inconscio collettivo e dai suoi residui archetipali, lì posti a rammemorare l’uomo dell’esistenza di un’ “altra” realtà, dai contorni incerti ed ai più  sconosciuti. Certo la perdita della bicameralità, non può non essere un dato acquisito, fermo che, a fronte di questo fatto, l’uomo è riuscito a realizzare, nel bene e nel male, cose che ad altri esseri viventi non sono mai riuscite. Dunque se, da una parte qualcosa l’ha perduta, dall’altra l’uomo l’ha guadagnata. Sicuramente, guardando gli sfasci prodotti dall’attuale civiltà, c’è da chiedersi se non era migliore una mente guidata da una saggia e numinosa ispirazione, piuttosto che una mente unicamente ispirata dal Dio denaro.                                                                                                                                                                        

 

Il contesto culturale del Mitraismo

 

Al fortunato visitatore che vada aggirandosi per le vestigia dell’antica Roma, può talvolta capitare che, tra templi, anfiteatri e catacombe,incontri sulla propria strada la scritta “mitreo”, indicante quel tipo di tempio sotterraneo in cui si praticava una strana religione di origine iranica e dunque, per così dire, d’ “importazione”. Il toro sacrificato da una figura di giovane dio, ricoperto da un caratteristico copricapo (la mitria), accenderebbe la curiosità del nostro eventuale osservatore che, se dotato della giusta curiosità intellettuale, farebbe bene a non accontentarsi di quanto mai sbrigative e rabberciate spiegazioni, che solitamente vengono impartite al visitatore del momento. Ernest Renan ebbe a dire che, se la religione cristiana fosse entrata in crisi durante il tardo impero, il mitraismo sarebbe sicuramente divenuto la religione dell’ ”ecumene” romana. Capire il mitraismo significa penetrare anche il contesto culturale che fece da sfondo allo sviluppo di questo particolare culto. Quello della religione mitraica a Roma rappresenta il capitolo finale della storia di una religione, quella romana, che unica fra tutte le religioni politeiste seppe assorbire le altre religioni sin quasi a snaturarsi nei propri contenuti originali. Qualcuno imputa tutto ciò ad una pretesa assenza di quel substrato mitologico in grado di dare un assetto ordinato e coerente, e quindi non permeabile, all’intero corpus religioso romano, arrivando ad azzardare paragoni con le religioni di popoli come quello polinesiano, animate da mille divinità particolari, adattate ad ogni momento della vita quotidiana, al pari degli “indigitamenta” romani, così come pensato dai vari Usener, Spieth e Cassirer. Nessuno ha invece mai pensato che, essendo i romani altri se non il risultato dell’unione dei tre principali popoli del Lazio di allora, e cioè Latini, Etruschi e Sabini, dava probabilmente per scontata ed implicita la mitologia di questi ultimi. A sua volta, la vicenda della religione romana non può esser compresa se non la si inquadra nel più ampio contesto dell’Ellenismo.Con le conquiste di Alessandro il Grande, la cultura greca conosce la propria fase di massima espansione. Alla sua morte, il Macedone lascerà un impero che si estenderà dalla Grecia alle soglie dell’India e dell’Afganistan, includendo Egitto, Vicino Oriente e Persiache verrà suddiviso tra i suoi generali o diadochi. I Tolomei (o Lagidi) in Egitto,i Seleucidi nei domini che vanno tra la Siria e la Persia e l’Asia centrale, gli Antigonidi in Macedonia,gli Attalidi a Pergamo ed altri ancora, daranno luogo a delle monarchie a carattere universalizzante, frutto dell’incontro tra la cultura ellenica e le culture locali. E’ la fine delle città-stato e di quei regni nazionali che comunque garantivano quella sicurezza spirituale che solo il cemento dell’idea comunitaria può garantire, grazie anche a quei meccanismi partecipativi che le poleis greche assicuravano. L’instaurazione di monarchie assolute a carattere multirazziale, tolgono all’uomo ellenistico le sue certezze, lasciandolo solo di fronte ad un potere politico sempre più alieno e distante. La cultura ellenistica nasce quindi all’insegna di una ricerca volta alla dimensione dell’interiorità, in grado quindi garantire quelle risposte alle paure, alle ansie ed alle incertezze di cui l’uomo ellenistico si sente pervaso. Il pensiero filosofico, da una parte, cercherà una risposta in quel concettiodi “atarassìa” o “apateìa” o distacco che dir si voglia di cui via via si faranno fautori ed apologeti i rappresentanti delle varie scuole di pensiero del tempo dagli stoici agli epicurei, dai cinici sino agli scettici, tutti accomunati dalla ricerca di quella pace interiore che solo il distacco dalle cose o l’assenza di giudizio sugli eventi può garantire, talora accompagnata da un sentimento di universale fratellanza che, come nel caso degli stoici, farà da battistrada alle idee del cristianesimo. Sotto il profilo religioso le cose non andranno differentemente. Venendo a contatto con altre culture, quella greca darà luogo a delle vere e proprie “contaminazioni”, tutte egualmente caratterizzate da quella ricerca di pace interiore che, della cultura filosofica ellenistica rappresenta il leit motiv, ed in termini religiosi si fa ricerca della salvezza dell’anima. Il farsi partecipi della dolorosa vicenda di nascita, morte e risurrezione di un dio, fa del miste un individuo “renatus”, cioè rinato, salvato, poiché tramite l’azione cultuale avrà effettuato interiormente lo stesso percorso salvifico del dio oggetto del proprio culto, arrivando a redimere sé stesso sino a conseguire quell’immortalità dell’anima in grado di esorcizzare, in tal modo, la paura dell’aldilà. Le nuove forme di religiosità acquisiscono quindi un carattere soteriologico e misteriosofico, poiché la vicenda della morte e risurrezione della divinità è manifestazione di un “magnum misterium”. Chiariamoci bene. Il mistero è parte costitutiva della psiche umana; ogni cultura religiosa possiede un aspetto misterico. La stessa età arcaica e classica della civiltà ellenica conobbe i misteri Eleusini, quelli Orfici ed il dionisismo, fenomeni tutti legati a cerchie ristrette di individui, mentre la religiosità ellenistica si caratterizza per una generale diffusione di questo rapporto con il sacro. Il secondo aspetto del problema riguarda il fenomeno del sincretismo. La cultura greca si incontrerà con quelle egizia, siriaca, anatolica, iranica ed ebraica, (nonché di passata con la cultura indo buddista, sic!) dando luogo a vere e proprie forme di sincretismo religioso. In Egitto i Tolomei importeranno il dionisismo nella sua versioni più “salvifiche”, purgata cioè da quegli aspetti più turbatori dell’ordine costituito, quali si erano già manifestati in Grecia nell’età classica ed a cui si aveva cercato di porre in qualche modo un freno, inquadrandoli nell’ufficialità della religione della polis. Ma la novità sicuramente più interessante riguarderà le locali divintà egizie, rielaborate secondo i canoni della cultura ellenica. In primis Iside, la dea protagonista della risurrezione del di lei marito e fratello Osiride, verrà assimilata ad Era, Afrodite, Semele, Io e Tyche (Fortuna), mentre la dea Neith di Sais sarà invece comparata con Atena. Osiride sarà affiancato a Zeus, Plutone ed Helios,allo stesso modo in cui il dio della morte Toth troverà il proprio corrispondente nell’Hermes-Mercurio della tradizione greco romana, dalla cui figura prenderà a sua volta le mosse quell’insieme di conoscenze misteriche che andranno sotto il nome di “Ermetismo”. Il monarca Tolomeo Sotere sarà inoltre sostenitore e caldeggiatore dello sviluppo del culto di Serapide, divinità probabilmente frutto della tarda elaborazione sincretica tra il toro sacro Api ed Osiride (Osor Api, per l’appunto). In Siria i Baal (dei sommi) delle varie città, vengono assimilati al romano Jupiter, assieme al dio della folgore Haddad,in una sintesi che vede alternarsi agli aspetti pertinenti al sommo tra gli dei (Jupiter Damascenus, Jupiter Heliopolitanus, Jupiter Dolichenus,etc.), quelli più specificamente appartenenti ad una divinità meteorologica (Jupiter fulgurator). Non solo. Il fenomeno sincretico non si rivolge unicamente all’ambito della koinè ellenistica, bensì anche a quello mesopotamico ed egiziaco che interagendo con quello siriano, vedranno il dio babilonese Bel adorato a Palmira, mentre nelle proprie confutazioni teologiche, Filone di Biblo prenderà a prestito molti elementi della religiosità mesopotamica. Lo stesso dio siriano Hadad verrà adorato ad Eliopoli con modalità egiziane, mentre a Ierapoli ed Eliopoli Hadad, la sua paredra Atagartis e Simios verranno paragonati a Giove, Venere e Mercurio. Dall’Asia minore, invece proverrà il culto della Grande Madre Ma\Enyo, inizalmente importata in Grecia come Cibele, poi sbarcata a Roma nel 204 AC sotto gli auspici delle sibille a guardia degli omonimi libri sacri. Cibele si accompagna al figlio-amante Attis\Adone, oggetto annualmente di un rito tutto incentrato sulla morte e la rinascita del dio, simboleggiato da un pino reciso. Stessa musica per la Grande Dea delle due Comane assimilata all’italica Bellona sotto Silla, o del caso del traco-frigio Sabazio, dio della resurrezione e degli inferi, assimilato a Giove, Dioniso ed in parte a Jahvè (Jahvè Sabaoth). La stessa religiosità ebraica darà luogo ad esperienze sincretistiche in varie comunità dell’Asia Minore. La Siria darà, poi, il ”la” al fenomeno della progressiva solarizzazione dei culti religiosi nell’area ellenistica e romana, in particolare. Inizialmente relegato all’adorazione delle pietre sacre o betili di Pafo (dedicate ad Astarte) e di Emesa (piccola città-stato siriana, sede di un importante culto solare, governata da una dinastia di re-sacerdoti, che sotto l’impero romano mantenne una formale autonomia, dando anzi i natali ad Eliogabalo, lo sfortunato e folle imperatore-ragazzino, epigono della dinastia severa), questa forma di religiosità verrà importata ufficialmente a Roma dall’imperatore Aureliano che, del Sol Invictus farà un vero e proprio culto di stato. Un culto intellettualizzato ed astrattizzato, sempre più pervaso dalla logica del neoplatonismo che faceva delle varie deità dei semplici aspetti dell’Uno. Quelle stesse divinità che, nel tempo, avrebbero subito un processo di elevazione a quelle dimensioni astrali verso cui la incalzante disciplina astrologica tendeva a collocarle ed in cui, sino a quel momento, avevano risieduto in veste di puri fenomeni meteorologici. Ora, invece, vi si collocavano a titolo di divinità unica, assumendo così nel tempo quel carattere astratto a cui le filosofie stoica, epicurea e scettica ci avevano abituato. Avremo così un Baal-Jupiter coelestis, una dea Siria omnipotens assimilata a Pace,Virtù, Cerere, Cibele ed al segno della Vergine; avremo una divinità come Coelus affiancato a BaalShamin’, Baal Mar’olam. Mentre l’anatolico Men, divinità uranica ed infera nello stesso tempo, verrà adorato con il nome di Altissimus o Hypsistos, lo stesso Attis assumerà la connotazione di Sole, Pan, Osiride, Bacco, Adone e Mitra. L’ulteriore evoluzione religiosa dell’Ellenismo, porterà gli astri ad avere una posizione di rilievo assoluto tale da connotare in maniera significativa la stessa religione mitraica, rientrante nell’ambito di una religiosità peculiare, quale quella iranica che, anche se fortemente marcata dal dualismo zoroastriano, rientrerà in questa logica sincretistica. Inizialmente il pantheon iranico era quasi identico a quello indù; una molteplicità di divinità vi si trova accomunata nel nome e nelle funzioni come nel caso della coppia Varuna Mitra il primo ricopre la funzione di “dio che lega”, connotando il secondo come divinità posta a rispetto dei patti. Nell’asse Varuna-Mitra, il primo detiene l’aspetto sanzionatorio, mentre il secondo quello meramente positivo, etico. Mitra viene citato accanto a deità come Indra ed i gemelli NasatyaAssieme ad Aryaman e Bhaga, cioè ospitalità, matrimonio, ricchezza e distribuzione il dio è accomunato dall’essere un Aditya o figlio della dea Aditi. In Iran, dunque, Mitra assumerà la valenza di dio dei patti, della luce e della guerra, quasi sempre raffigurato nell’atto di compiere il sacrificio cosmico da cui si rigenera la vita, all’interno di una caverna. La riforma zoroastriana sembra metterlo da parte, forse proprio a causa del cruento sacrificio tauroctono, ma nella fase tarda dello zoroastrismo, rappresentata dal mazdeismo che altri non è che il ritorno delle vecchie divinità nel contesto zoroastriano (che le aveva declassate al rango di arcangeli), Mitra ricompare arricchitodi elementi misterisofici mutuati dall’Ellenismo. Come abbiamo detto, la religione iranica era riuscita a lasciare il proprio “imprinting” culturale sull’oriente anatolico, nel Ponto, nella Lidia ed in tutti quei regni che erano stati assoggettati al dominio persiano. Mitra è qui citato accanto agli Ahmaraspand quali Vohu Manu\Buon Pensiero ed Ahmaratat o Immortalità, accanto agli Yazatas o geni della natura tra i quali Anahitis o “acque limpide e feconde”, Atar/Fuoco, Mah/Luna, Vayu/Vento, Hvara Khsaeta-Sole ed infine, Mitra. Non solo. Anche qui il processo sincretistico non riguarda esclusivamente l’asse culturale greco-iranico, ma anche quello tra Iran e Mesopotamia, facilitato dall’iniziale uso della lingua aramaica, in quelle regioni portato avanti da quei sacerdoti persiani, chiamati “magi”, “magusei” o “pireti”/ “accenditori di fuochi”. Qui Ahura Mazdah viene assimilato a Bel, Anahita ad Ishtar e Mitra a Shamash. La progressiva avanzata dell’influenza greca porterà Ahura Mazda\ “spirito della luce”, ad esser equiparato a Zeus, grecizzandosi in “Orosmasdes”, Mitra ad Apollo ed Helios, Eracle ad Artagnes, a loro volta astrologicamente accostati a Mercurio, Giove, Marte,come si può vedere nel santuario di Nemruth Dag fatto edificare da Antioco 2° di Commagene. Il mitraismo si presenta, quindi, come l’ennesimo risultato di quel saldamento tra varie culture e religioni, guidato dall’espansione globale della cultura ellenica, stavolta però incentrata sul tema della salvezza dell’anima dell’uomo, mai come in quel momento attraversata da timori sovrannaturali. Attraverso il sacrificio tauroctono,Mitra Mitra si fa messaggero di un universale messaggio di salvezza, condizionato dall’appartenenza ad una comunità religiosa organizzata attraverso una rigida gerarchia iniziatica. Mitra è Dio dei patti, a lui si rivolgono militari, uomini d’affari, nobili e tutti coloro che credono nel valore della parola data, che del patto costituisce l’essenza. Il pasto sacro, i riti svolti all’interno di uno spazio sacro sotterraneo,volti a perpetuare l’essenza di un sacrificio cosmogonico, ci portano in direzione di una diversa concezione di religiosità, non più praticata in templi svettanti alla luce del sole, ma in una caverinforme dimensione sotterranea che riflette, appunto, una nuova idea di cosmo inteso come spazio oscuro e chiuso, espresso dall’uso in architettura della cupola,di provenienza centro-asiatica. Un “culto della malinconia”, dunque, quello di Mitra, difeso dai Simmaco, dai Pretestato e dai tanti silenziosi personaggi in buona fede che mai avrebbero potuto contrapporre un culto elitario ed ingenuo ad una religiosità, come quella cristiana che aveva invece fatto di un frenetico proselitismo di massa, il proprio principale caposaldo. Permane però il fascino della figura mitraica, quasi posta lì a simbleggiarci la fase estrema della parabola di una civiltà e delle fasi della sua spiritualità, passate da una libera espressione a cielo aperto, ad un crepuscolare rinchiudersi nei bui spazi degli antri sotterranei romani, un po’ come certi ambienti di nostra conoscenza, tutti proiettati in una chiusura all’insegna di un malinconico nostalgismo.

 

Una diversa visione della religione egizia

 

Assistiamo oggi ad un ritorno di fiamma dell’Egitto, quell’Egitto pieno dfi fascino , di mistero e, naturalmente, di luoghi comuni sia sugli ordinamenti che, in ispecial modo, sulla religione; quest’ultima viene a sua volta vista come un’insieme di riti terrifici e sanguinari: le mummie, i canopi contenenti le viscere del Faraone defunto, le Piramidi dal fascino sinistro e via discorrendo, quella Egizia, grazie anche ad una accorta campagna distorsiva, viene ai più mostrata come una civiltà, a capo della quale, vi erano sanguinari monarchi animati da un’insana passione per l’aldilà, al limite della necrofilia, adoratori di mostruose divinità, dalle figure chimeriche, assetate di sangue; ma così non è stato, anzi. Cominciamo col dire che, la società egizia, viveva immersa in una profonda religiosità, che ne permeava ogni aspetto. Tale religiosità si manifestava nell’attaccamento ad una ritualità che ne scandiva ogni momento e fase vitale, tanto da farci dire che, in Egitto, la Scienza era una branca della Religione, che finiva così, coll’avviluppare qualsiasi porzione dello scibile umano.Principio base della religione egizia, è che il mondo non è passato attraverso l’universale creazione, bensì sussiste come un’isola in mezzo al caos, all’increato, rappresentato in tal caso dal serpente Apophis , che circonda minacciosamente la Terra e che, solo il quotidiano perpetuarsi dei riti riesce a tener lontano, ma certo non a debellare, nè a sopprimere.Una religione, dominata quindi, dall’angoscia del Caos e dalla perenne necessità di cercare un patto di collaborazione tra l’uomo e gli Dei. Questi sono l’espressione vivente delle forze della natura, e non posseggono il carattere di divinità rivelate, questo sempre secondo i più avanzati criteri della moderna egittologia. Altra peculiare caratteristica, è la capacità di questi ultimi di assumere una forma visibile o “Ba”, concetto questo ,che, è stato in passato inutilmente tradotto con il concetto occidentale di “anima”, che mal rende l’idea, visto che tale proprietà può solamente essere applicata agli Dei od ai defunti; tale facoltà negli dei egiziani si traduce nella molteplicità delle proprie manifestazioni, per cui vedremo il medesimo dio assumere forme differenti: dal dio Thoth, che dalla forma di uomo con la testa di ibis, può passare a quella di cinocefalo, sino addirittura ad assumere quella di un ibis; o quella di Hathor-Tefnut, che da fanciulla passa alla forma di leone, sino a trasformarsi in un solco di fuoco posto in difesa di Ra, suprema divinità del pantheon egizio. Viceversa, però, lo stesso Sole potrà incarnarsi in tre differenti divinità, corrispondenti alle tre più importanti fasi della giornata, e cioè il sole di mattino, a mezzoggiorno ed alla sera, aspetti questi che ci faranno parlare di Ra-Athun-Khepri; il sole di notte corrisponde invece alla figura di Osiride.La completa rappresentazione del Sole consterà dunque di una mummia (simbolo di Osiride) dalla testa di ariete di Ra; del pari lo stesso Khepri, divinità dall’aspetto di scarabeo, potrà assumere la testa di ariete, dimostrando di essere anch’egli Ra.Col tempo, inoltre, altre divinità diverranno dèi-Sole: Amon-Ra, Chnum-Ra, Sebek-Ra, dimostrando così la centralità della potenza solare presso molte divinità. Tale atteggiamento sincretico nasce dalla necessità pratica di unire le varie manifestazioni locali di divinità dallo stesso nome, visto il frazionamento tribale che preesisteva alla nascita del Regno Egizio e che si rifletteva anche sul piano religioso. Facciamo però attenzione al fatto che, il sincretismo a cui abbiamo accennato poc’anzi vuole altresì mostrarci la variabilità e l’intercambiabilità degli aspetti del divino e, ancor più, tende ad escludere qualsiasi tendenza al monoteismo, proprio in quanto, secondo gli egizi, l’ordine cosmico era rappresentato dalla differenziazione di elementi originarii e quindi dal molteplicizzarsi delle divinità; un unico dio, al contrario sarebbe stato simbolo di Caos. Ma ciò che rende ancor più particolare tale concezione religiosa, sta nel particolarissimo rapporto che lega l’uomo agli Dei; questi ultimi, non ostante la propria condizione divina, sono anche caratterizzati da un forte antropomorfismo, che fa sì che prendano parte a tutti quei sentimenti che dei comuni mortali sono caratteristica (si rappresenteranno addirittura drammi divini!), venendo così a stabilire così una forte interdipendenza tra uomini e Dei; questi ultimi delegati all’eterna lotta contro l’Oceano del Caos ed il serpente Apophis, da soli non possono nulla: necessitano della continua azione dell’uomo, che deve saperne alimentare le forze; ed ecco qui l’importanza del tempio, come luogo deputato ad ospitare la sacra immagine del Dio, che deve essere continuamente onorata con libagioni , vesti , profumi e quant’altro possa servire allo scopo; il tempio come fortezza al riparo dalle sempre presenti forze del Caos, ma anche, come rappresentazione del Cosmo e dei suoi cicli. L’esempio più classico ci viene dall’Osireion di Abido, il cui cortile centrale ospita una pedana che rappresenta la Collina primordiale, emersa dall’oceano del Caos; tale rappresentazione si veniva a creare tramite l’allagamento, durante le piene del Nilo,del cortiletto da parte delle acque d’infiltrazione, appositamente canalizzate. Il tempio ,dunque, come luogo deputato a contenere ed incanalare le energie possedute dagli dei, grazie alla conoscenza del piano universale conosciuto dagli officianti , cioè i sacerdoti ed i faraoni, finisce così con l’assumere la valenza di una vera e propria centrale di energia cosmica.Basterà offrire un po’ di acqua al Dio delle cateratte ed avremo la benefica piena, basterà offrire una scheggie di malachite al dio custode del deserto ed il faraone sarà guidato sino alle miniere di questo minerale, basterà offrire due specchi, a tempi alterni, alla Dea ed ecco che avremo il succedersi della notte e del giorno. Con il progressivo intellettualizzarsi della religione egizia, si asssisterà ad una progressiva molteplicizzazione dei riti, che porterà anche ad un loro svolgimento simbolico: così sarà per il sacrificio di animali considerati negativi, quali il coccodrillo, la tartaruga o l’antilope o quello di un certo numero di prigionieri di guerra, che viene sostituito da offerte di statuine in marzapane, accompagnato da un rituale semplificato. La religione egizia riflette dunque, pienamente, l’impostazione che allora regolava i rapporti tra l’uomo ed il divino: un’ impostazione che vedeva l’uomo in stretto collegamento ed armonia con quelle energie cosmiche, concreta espressione del potere degli Dei; mediatore tra tali forze e l’uomo comune è il Faraone, dall’egizio “Pharaon”, ovvero responsabile del buon andamento, dell’ordine e dell’armonia tra gli uomini ed il soprannaturale. Anche se di natura mortale, il Faraone prescelto, incarna Horus, figlio di Ra, ed assume quindi un rango di parità tra gli Dei, finendo così con lo spersonalizzarsi, in nome di una funzione di soprannaturale responsabilità . Tale funzione giustificherà il rito dell’imbalsamazione delle spoglie regali, per poter garantire la sopravvivenza nell’Aldilà del Monarca defunto, che, in tal modo, potrà continuare a perorare la causa del proprio popolo di fronte agli Dei. Altro che tiranni sanguinari e prepotenti, altro che orridi rituali! La società egizia era il frutto di una perfetta intesa tra il popolo ed il Sovrano, responsabile ed intermediario tra gli uomini ed il divino. I rari casi di soprusi regali si risolvevano in rivolte popolari, a seguito delle quali ad assumere il potere erano sempre figure che, edotte dai precedenti avvenimenti, ristabilivano con sollecitudine quell’armonia precedentemente violata. Questa visione aveva la sua base nel concetto di Maat, ovvero rappresentazione del concetto di Ordine-Verità-Giustizia, che gli Dei avevano il compito di mantenere con l’aiuto degli uomini e del Faraone, senza i quali sarebbero rimasti alla mercè delle forze del Caos. Dèi ,dunque, limitati perchè non dotati di onniscienza; l’unica entità divina dotata di tale facoltà è Atum, il Demiurgo; secondo il “Libro della distruzione di Apophis” e la antichissima “Stele di Shabaka”, tratta dal “Testo di Teologia Menfita”, questi diviene il dio artigiano Ptah, pensando se stesso.Dopochè Ptah, penserà altri esseri che verranno all’esistenza.Quindi la creazione è qui vista come un atto di presa di coscienza da parte di quell’Atum che significa contemporaneamente, “essere tutto” e “non essere”, quindi come una differenziazione dello stesso caos .Tale concetto sarà espresso nel sistema ermopolitano, tramite l’immagine di quattro coppie originarie di serpenti : “Abisso”, “Tenebre”, “Invisibile” ed ”Acque Primeve”, che altro non sono che, la rappresentazione della presa di coscienza del caos delle proprie componenti. Secondo tale versione della creazione , prima cura del Demiurgo, sarà la creazione di una coppia originaria , Shu e Tefnut, dalla quale la vita si propagherà ovunque. Secondo un testo della fine del Regno Antico, si accenna ad un mondo precedente alla creazione popolato da nani, immagine questa retaggio di un sistema di pensiero più primitivo, perchè non capace di concepire l’increato, oppure di una cosmogonia più legata ad una concezione ciclica dell’universo. Altra peculiarità e caratteristica della religione egizia sarà il trinitarismo che la caratterizzerà in certe combinazioni divine; l’esempio che meglio rappresenterà tale concetto, sarà rappresentato dall’immagine di Amon, “il toro della propria madre”, volendo così indicare la ininterrotta continuità delle generazioni, che comporta la rinascita del padre nel figlio, il quale diviene così il proprio padre, in una successione senza fine.Per tale ragione avremo in Egitto un gran numero di santuari triadici, composti cioè da un dio-padre, da una dea-madre e da un dio-figlio. A parte l’immagine mitica del Demiurgo da cui procedono Shu e Tefnut, la più classica rappresentazione di ciò, sarà il dio Osiride, simbolo di tutto quello che rinasce, accompagnato da Iside e da Horus, arrivandosi così ad ipostatizzare legittimità monarchica e famiglia patrilineare. Nel “libro dei Morti”, abbiamo un interessante dialogo tra Atum, il Demiurgo, ed Osiride, durante il quale a questi viene promessa vita eterna, anche dopo il ritorno del mondo allo stato di caos puro.C’è da chiedersi se Osiride non rappresenti anche la rinascita del cosmo stesso, nell’ambito di una visione ciclica di quest’ultimo.Dalla creazione della prima coppia, al trinitarismo, dalla resurrezione di Osiride, sino alle fortune di età ellenistiche di Iside (che diverrà la Signora del Destino), la religione egizia da sola, o come componente delle misteriosofie ellenistiche, offrirà un gran numero di spunti sia all’Ebraismo che al Cristianesimo che, ciò non ostante, le renderanno i dovuti onori distorcendone la natura effettiva. La Religione egizia può entrare, a buon diritto, nel novero di quelle Religioni Tradizionali appartenenti alla fase primordiale dell’umanità, in cui la figura del Monarca coincide con quella del sommo Sacerdote, in quanto ”Pharaon”, ovvero “responsabile” dei rapporti tra uomini e Dei, in grado di chiedere ed ottenere importanti favori da questi ultimi, grazie alla rigorosa osservanza di una ritualità, che colloca l’uomo egizio in una posizione estremamente attiva dinanzi al sovrannaturale, lasciando il fattore puramente devozionale al popolino. Imperniata quindi su valori come Ordine ( Maat ) e Giustizia, questa religione darà vita a divinità straordinariamente benigne verso il popolo, ma resterà al al tempo stesso rivolta ad una concezione intrisa di primordiale terrore verso il Caos che, come un mare in tempesta, circonda l’intera creazione, minacciandone continuamente l’esistenza, sino ad arrivare a risommergerla.Questa concezione di terrore primordiale, sembra essere propria anche di civiltà come quelle amerinde, che, per placare le varie forze sovrannaturali ricorrevano a cruente forme di sacrificio umano, e deriva dall’angoscia che l’uomo di quelle civiltà, da poco uscite da uno stadio proto o preistorico, provavano per le sconosciute forze della natura.Grazie a questa visione, gli Egizi conosceranno una sensibilità tragica, che si espleterà nei drammi divini, che vedranno gli stessi Dei coinvolti nell’ineluttabilità del Fato, dietro cui si cela l’inarrestabilità del ciclo cosmico. Non solo, anche se non indoeuropea, questa si rivelerà una religiosità a forte carattere solare, grazie alle figure di Ra e Osiride, esaltanti una società imperniata sulla famiglia patriarcale. La stessa scrittura ideogrammatica, complessa combinazione di diversi elementi, è testimonianza di una religiosità perfettamente imperniata su una complessa molteplicità dell’elemento divino riconducibile ad una visione unitaria di base, che costituirà poi la premessa per la trasformazione dell’Egitto in una terra caratterizzata da un cristianesimo particolarmente virulento nelle sue manifestazioni ascetiche.Tutto questo alla faccia dei piagnistei storico-religiosi, mossi da un’animosa faziosità, o, ancor peggio, di quelle frettolose visioni che delimitano all’ambito indoeuropeo i “buoni”, collocando nel limbo dell’indifferenza i non indoeuropei, considerati “cattivi” o quanto meno, non degni.

Babilonia cuore del mondo

 

Il nome di Babilonia è tradizionalmente associato ad un’immagine di corruzione e di prevaricazione, grazie alla descrizioni in questo senso forniteci da alcuni testi biblici, più esattamente dal Salmo 137 che descrive la condizione degli Ebrei deportati in quel di Babilonia dal sovrano Nabucodonosor, maledicendo la città ed il suo popolo, e dagli oracoli del profeta Isaia che ironizzano sul grande re, augurando la peggior fine possibile per questo regno. Ma, a ben vedere, quella babilonese, è stata una civiltà raffinata e tollerante, frutto di un millenario processo storico, che avrà come protagonista una regione, quella mesopotamica, e sarà frutto dell’incontro e della sintesi iniziale tra due diverse etnie: quella sumera (sulle cui origini si fanno molte congetture) e le varie tribù semitiche ivi insediatesi, a partire dal 2500 A.C., a varie ondate. La civiltà sumera, inizialmente formata da un coacervo di città stato in perenne lotta tra loro, troverà in Lugalzagesi di Uruk (2350 A.C.) il primo unificatore della regione e nel successivo monarca Sargon di Accad, colui che darà slancio universale alla civiltà sumera portandone i confini ben oltre gli ambiti mesopotamici, annettendosi addirittura l’Elam, le regioni riverasche del Golfo Persico, la regione siro libanese ed una parte dell’Anatolia. L’Impero sumero avrà una durata esigua, perché lacerato da contrasti interni e dalla continua spinta di popolazioni provenienti sia dalle regioni montuose a cavallo tra la Siria e la Mesopotamia, quali i barbari Gutei e gli Amorrei, che dal confine Sud Est, come gli Elamiti, che rialzeranno la testa ad ogni buona occasione. Ciò che, invece, permarrà nel tempo dei Sumeri sarà una profonda impronta, sia nella religiosità (di cui abbiamo abbondantemente trattato in un precedente articolo), di cui saranno permeate le posteriori civiltà Assiro Babilonesi, che nella scrittura cuneiforme e nella lingua (che sopravviverà come lingua dotta, così come accaduto per il Greco ed il Latino), che nello stile architettonico, di cui le famose Ziqqurat non sono che uno dei tanti esempi. La caduta della civiltà sumera ad opera dell’invasione degli Elamiti ed il posteriore avvento della dinastia semita di Ibbisin, determinerà lo spostamento dell’asse decisionale della politica mesopotamica dal fertile Sud, culla della civiltà sumera, al Nord, eterno punto di passaggio delle tribù semitiche nella loro marcia d’ingresso verso la Mesopotamia, comportando, di fatto, la nascita di un marcato dualismo tra il Nord ed il Sud della regione mesopotamica. Il Nord assisterà alla nascita ed all’espansione della civiltà Assira, dalla precisa caratterizzazione etnica semita, principalmente imperniata su valori guerrieri, che porterà alla creazione di un Impero universale, esteso sino all’Egitto; il Sud, grazie allo spostamento di potere della dinastia di Ibbisin a Babilonia, assisterà alla nascita di una civiltà meno compatta sotto il profilo etnico, meno portata a grandi conquiste territoriali, ma molto più raffinata e prestigiosa dal punto di vista religioso ed intellettuale della prima, la civiltà babilonese, per l’appunto. Il nome di Babilonia deriva dal termine “ bab-ili ”, che significa letteralmente “ porta del dio “, da intendersi nel senso lato di  “quartiere del dio”, cioè luogo deputato per la propria belleza, ad esser residenza del dio; questo perché i babilonesi avevano perfettamente coscienza del ruolo della propria città, da collocarla al centro dell’universo, come riportato sul famoso mappamondo, ricostruito da Hunger. Babilonia, contrariamente ad altre città mesopotamiche, che affondano le radici della propria autorità morale dalla prima età sumera, ha un’origine recente, si può dire che parte da zero. La prima testimonianza su di essa, è data da un’incisione datata al 2250 A.C., del periodo della dinastia accadica, in cui si parla di “ka dingir ra”o “porta del dio”. Non ostante questa attestazione, per i primi tre secoli di vita questa città non conterà nulla, posta in ombra dalle potenti città di Isin e Larsa. Solamente l’arrivo dei barbari Amorrei, che vi fonderanno una dinastia, segnerà l’inizio dell’ascesa di questa città. Oltre agli Amorrei, nel corso dei secoli, Babilonia verrà via via invasa da Cassiti, Aramei e Caldei, divenendo così un regno cosmopolita, compattato intorno alla propria mitica capitale. Un regno che potrà sì affrontare scontri militari di elevata potenza, senza mai però arrivare a raggiungere i risultati dei propri vicini Assiri. I risultati raggiunti da Hammurabi, da Nabucodonosor 1°, o dal proprio successore Nabucodonosor 2°, saranno comunque limitati nel tempo, perlomeno sotto il profilo geo strategico. Ciò, invece, di cui permarranno gli effetti nei secoli, sarà il lavoro intellettuale degli scribi babilonesi, un lavoro che partirà da quella sottile opera di riforma religiosa, che porterà Marduk, nume tutelare di Babilonia e divinità minore del Pantheon sumerico, a capo di tutti gli antichi dei, per l’occasione ribattezzati con nuovi nomi. Il poema frutto di questa riforma religiosa è l’Enuma Elish, che si pensa composto intorno al 1100 A.C., proprio durante il regno di Nabucodonosor 2°, grande riformatore politico e religioso di Babilonia. Non solo, Babilonia raggiungerà il primato nell’astrologia, retaggio della secolare presenza delle tribù caldee, che daranno a questo regno dei leader politici, oltrechè degli esperti nelle arti divinatorie. Ma veniamo agli eventi storici che possono maggiormente interessarci. Dal 9°all’8° sec. A.C., protagonista indiscussa della scena politica mesopotamica sarà l’Assiria, i cui sovrani, a partire da Assurnasirpal 2°e da suo figlio, Salmanassar 3°, inizieranno quell’opera di espansione che porterà alla costituzione dell’impero assiro. Sarà sotto Tiglat Pileser 3°che si arriverà al consolidamento definitivo dell’Impero assiro, e si cercherà di trovare una soluzione definitiva al contrasto con i cugini babilonesi, da sempre mal disposti verso il dominio assiro. L’idea sarà quella di assumere, da parte del monarca assiro, il titolo di re di Babilonia, oltre a quello di re d’Assiria, in questo modo mostrando un grande rispetto per la tradizionale autonomia del piccolo regno. Queste misure non saranno però, sufficienti; difatti negli anni a venire, non ostante l’espansione dell’Impero assiro, Babilonia continuerà a rappresentare la spina nel fianco di un po’ tutti i monarchi assiri, che via via si succederanno. Sargon 2°, Sennacherib, Asarhaddon ed Assurbanipal, sono i monarchi sotto i quali l’Assiria raggiungerà la propria massima espansione, ma che comunque non riusciranno mai a dare una soluzione definitiva al problema babilonese. La morte di Assurbanipal, avvenuta nel 627, getterà l’Impero Assiro in un periodo di caos e rivolte; nello stesso anno, muore a Babilonia Kandalanu, il governatore ivi imposto dal monarca assiro, dopo la tragica rivolta di Shamash-shum-ukin, fratello di quest’ultimo, a cui era stata affidata la reggenza dell’inquieto regno, che aveva invano tentato di staccarsi dal dominio del regno fraterno. A Kandalanu succederà, quasi immediatamente, Nabopalassar, un volitivo uomo di umili origini, proveniente dal Sud della Mesopotamia. Costui, in quindici anni di regno, dal 626 al 605, porterà il regno babilonese, a capovolgere le posizioni su cui, sino ad allora, si era trovato: da vassallo dell’Assiria a dominatore della Mesopotamia, arrivando addirittura ad espugnarne le vecchie ed intoccabili capitali, Assur e Ninive, grazie  all’alleanza stipulata con il re dei Medi (una popolazione indoeuropea di stirpe iranica) Ciassare. Il figlio di Nabopalassar, Nabucodonosor 2°, governerà per ben quarantatrè anni, e sarà il grandioso continuatore dell’opera paterna; con lui Babilonia assurgerà (sia pur per poco tempo) alla dimensione di impero universale, sbaragliando gli egiziani in Siria ed aggiudicandosi così, il dominio di tutta l’area siro-palestinese, sino quasi in Egitto; inoltre con un’abile opera di mediazione riuscirà a metter d’accordo le monarchie di Lidia e di Frigia, perennemente in guerra, coprendosi nel contempo il fianco Est grazie all’alleanza stipulata con i Medi di Ciassare.Ma, oltre al lato politico, Nabucodonosor primeggerà in quello dell’arte e dell’architettura: con lui Babilonia diverrà una delle sette meraviglie dell’antichità, grazie ai suoi giardini pensili, alla Torre di Babele, al restauro del Tempio dell’Esagila, al tempio di Marduk, alla porta di Ishtar, da cui si dipartiva la Via della Processione, lungo la quale si svolgeva la la sfilata delle statue degli Dei, per la festa del trionfo di Marduk, con l’arrivo dell’anno nuovo. Nabucodonosor proseguirà quell’opera di abbellimento iniziata dal padre anche in altre città come  Borsippa, Kish, Ur ed altre ancora. Babilonia lascerà senza fiato i suoi stessi invasori, come Ciro il Grande e Alessandro Magno, che rimarranno stupiti dalla monumentale bellezza della metropoli. La stessa amministrazione dell’impero babilonese si ispirava a principi molto più tolleranti di quelli assiri, permettendo ai vinti di amministrare i propri territori, senza arrivare così ad incorporarli direttamente, chiedendo in cambio la sottomissione politica a Babilonia. Molti autori antichi, tavole con iscrizioni cuneiformi e quant’altro, parlando di “Re della giustizia” e “Pastore del popolo”, ci riconfermano l’aspirazione alla giustizia, all’equità ed alla “pietas”, che contraddistingueranno tutte le dinastie babilonesi, a partire da Hammurabi,(redattore della famosa raccolta di leggi), Nabucodonosor 1°, il grande riformatore e Nabucodonosor 2°che, in particolare, rivelerà questo radicato senso di “pietas”, restaurando, come abbiamo già detto, i templi della capitale. A poco valgono le definizioni di aguzzino o vanesio presuntuoso, affibbiate al grande Re dal testo biblico con il Salmo137 e con i versi del Profeta Isaia. La verità è ben altra: tutta la zona Siro-Palestinese, è stata da sempre oggetto di contesa, a causa della propria posizione, tra tra i vari monarchi assiro babilonesi ed il Regno Egizio. La miriade di insignificanti e rissosi regnucoli, per lo più dediti al commercio marittimo, che costellavano tutta l’area, spesso propendevano per l’una o l’altra parte, cambiando subdolamente alleanze, contribuendo, in tal modo, alla creazione di quell’immagine iconografica del levantino, infido e poco affidabile negli accordi. Tra questi regni, il piccolo e turbolento regno di Giuda, dava scuola: appena nel 609 A.C., il proprio re Giosia, nella battaglia di Megiddo, si oppone all’esercito del Faraone Necho 2°, che avanza in aiuto di Ashshur-uballit, uno degli ultimi monarchi assiri. Un gesto questo, probabilmente dettato da simpatie filo babilonesi, ma che porterà ad una sonora sconfitta militare, a seguito della quale il Faraone imporrà un uomo di sua fiducia. Una politica questa, non certo sbagliata, visto che il partito filoegiziano acquisterà un peso notevole all’interno di Gerusalemme, tanto da contrastare il Profeta Geremia, che invitava alla prudenza, con vaticinii favorevoli ai Babilonesi ed al loro futuro monarca Nabucodonosor. Tale atteggiamento, continuerà anche dopo la sconfitta dell’esercito egizio nella battaglia di Karkemish, che consegnerà, praticamente, tutta l’area siro-palestinese ai Babilonesi ed avrà, come conseguenza, la conquista militare di Gerusalemme e la prigionia del re Joakin. Nabucodonosor permetterà che i regni conquistati, si amministrino in piena indipendenza: nel regno di Giuda salirà al trono, con il nome di Sedecia, Mattania, zio del monarca prigioniero. Per tutto ringraziamento, Sedecia intesserà trame contro Nabucodonosor, che nel 587 espugnerà Gerusalemme, facendone accecare il monarca e trucidandone i figli. Tutto questo, senza rinunciare ad affidare ad un elemento  locale, Ghedalia, il governo del Regno. Conseguenza di tutto ciò, sarà la deportazione e l’esilio a Babilonia dei Giudei, considerato l’esilio per antonomasia. Non ostante alcuni testi poco informati e faziosi ci parlino di 200.000 deportati, le stesse fonti bibliche ci dicono che i cittadini del regno di Giuda, deportati a Babilonia furono molti meno: il Profeta Geremia ci parla di 4.600 persone, il Libro dei Re ci parla invece di 10.000 individui. Gli esiliati rappresentavano il nerbo dell’oligarchia del Regno di Giuda, le cui terre vennero dai Babilonesi, equamente ridistribuite al proletariato urbano e rurale del piccolo regno. Sempre secondo i libri profetici di Geremia, Ezechiele e Daniele e i vari testi cuneiformi babilonesi, veniamo a sapere che i deportati potevano coltivare i campi in proprio, senza essere ridotti in schiavitù, ed addirittura mandar soldi ai propri connazionali per la ricostruzione del Tempio. A riconferma di tutto ciò, gli archivi di Nippur di epoca persiana, ci parlano di due famiglie, i Murashu e gli Egibi, potenti banchieri, che portavano nomi ebraici, il che autorizza a ritenere che i deportati di ieri, fossero divenuti i banchieri di Babilonia, grazie al regime di prigionia “morbida”, precedentemente goduto. Ciò non toglie la natura ingiusta delle deportazioni, che, comunque, per il contesto epocale trattato, ebbero un carattere molto blando. Ciro il Grande si annetterà Babilonia, senza colpo ferire, quando ormai, a quarantatrè anni dalla morte di Nabucodonosor, il grande reame si dibatterà in insanabili contrasti interni. L’invidia verso il monarca Nabonedo, porterà la potente casta sacerdotale del Dio Marduk, ad allearsi con i Persiani ed a vendere il proprio paese. Ma nonostante invidie, maldicenze e veleni, il fascino di Babilonia rimarrà fortissimo presso gli antichi ed i moderni. Chi si proclama antisemita, dunque, dimostra di possedere una visione limitata della Storia: Semiti furono gli Accadi, gli Assiri ed i Babilonesi, non solo mercanti, ma anche (e soprattutto!) indomiti guerrieri, profondi teologi, grandi astronomi e raffinati edificatori di Civiltà, a cui oggi più che mai dobbiamo guardare con rispetto ed ammirazione.

 

Sulle tracce della religione arcaica di Israele

 

Mi è capitato di leggere “Prima della Bibbia-Sulle tracce della religione arcaica del proto-Israele”, un volumetto edito dalla Mondadori, a cura di Massimo Baldacci, professore dell’Università dell’Aquila, una tra le massime autorità in tema di letteratura cananea. Quella che il Nostro porta avanti è una tesi corredata da un’enormità di fatti storici, ma dal forte impatto culturale. Contrariamente a quanto sinora affermato dall’ufficialità degli studi biblici, tutti ossequiosi ad una teoria che vedeva l’affermazione del monoteismo, quale un fenomeno subitaneo, dall’impatto violento e dirompente sulla società israelita di allora, il testo del Baldacci si fa propugnatore di una teoria gradualista, riguardo all’affermazione di questa visione del mondo. Ma ciò che maggiormente, il testo tende a sottolineare, è l’origine in gran parte cananea del testo biblico e la folta presenza, al suo interno, di richiami alle divinità a cui, gli israeliti, prima di aderire integralmente al monoteismo, si rifacevano e da cui, addirittura, proverrebbe lo stesso Jhwh, il futuro dio unico della Bibbia. Ma andiamo per gradi. Il contesto storico, innanzitutto. Il primo richiamo ufficiale ad Israele, è scolpito sulla “Stele della Vittoria” del faraone Meremptah, datata al 1209 A.C., ovvero nel periodo di passaggio dal Bronzo Tardo, alla prima Età del Ferro. Un’età tormentata questa del 13° secolo A.C., perché caratterizzata da un forte sbandamento sociale ed economico delle comunità di quell’area, ed accompagnata dall’insediamento di quelle tribù che costituiranno il nucleo fondante dell’Israele storico.

La Palestina e tutta l’area circostante, conoscevano la civiltà da tempi remoti: le mura neolitiche (8.000 A.C.) di Gerico o la scoperta italiana della città siriana di Ebla (2.400 A.C.), sono un’eloquente testimonianza di tale realtà. Ma sarà la scoperta di Ugarit, avvenuta nel 1929 a dare un nuovo impulso agli studi biblici. Le oltre 1300 tavolette che verranno ivi recuperate, sono scritte in una lingua che appartiene al gruppo semitico settentrionale, lo stesso dell’ ebraico antico, e che fu in seguito usata con successo per tradurre la Bibbia. Non solo. Dei 1474 termini usati per descrivere il mondo divino, ben 711 sono impiegati con identico significato nel testo biblico. Il tutto ci porta a ravvisare le radici cananee della religione ebraica. In gran parte cananee, difatti, erano le tribù stanziatesi in Palestina nel Tardo Bronzo e cananea anche la loro religione. Ma la radice cananea, non era l’unica a contraddistinguere le popolazioni semitiche della regione. A quel tempo tutta quell’area mediorientale, che va dalla Penisola Arabica al sud della Palestina, sino ai confini settentrionali della Mesopotamia, era un magmatico crogiuolo di tribù semitiche, per lo più allo stato nomade, in perenne ricerca di territori da razziare o conquistare. Taluni si adattavano a lavori stagionali nell’Egitto dei Faraoni, o si arruolavano come soldati di ventura, salvo poi tornare allo stato nomade.

Erano i famosi “Hepiru”, in Accadico “lavoratori occasionali”, i veri antenati degli Israeliti. Una indefinita congerie di tribù nomadi, che nel loro vagolare qua e là, entreranno in contatto con un’altra tribù beduina, sovente accampata in Egitto, gli Sasu del paese di Edom, nella regione del Sinai.

Costoro adoravano un dio Jw, o Jhwh, dal nome impronunciabile, che da Mosè verrà importato in Palestina.

Ivi stanziatisi, gli irrequieti nomadi fonderanno piccole comunità stanziali, tutte incentrate sulla famiglia patriarcale ed animate da una religiosità, che univa il culto degli antenati alle deità cananee, dando ospitalità anche a Jhwh, il Dio venuto dal Sud. Aserah, Anat, Baal, Shamash, Molok, Gad, Salem (da cui Jerusalem-“fondazione di Salem”), Mot, Dio della Morte, sino ad El (antica deità cananea, da cui Jisraèl- “El comanda”), questi ed altri nomi ci dimostrano come gli Israeliti fossero politeisti e che la graduale conversione al dio unico, sia avvenuta non senza lasciare profonde tracce in tutto il testo vetero testamentario. La sovrapposizione e l’identificazione tra El e Jhwh, presente nel testo biblico, è accompagnata dal ritrovamento presso Kuntillet Ajrud e Khirbet El Qom, di iscrizioni devozionali in cui la Dea Aserah è menzionata accanto a Jhwh. Siti come Hazor, Megiddo, Gezer, Tell El-Farah, Sekem, Khirbet El Msas ed altri ancora, erano luoghi di culto di quella religiosità popolare che perdurerà perlomeno sino al 6° secolo A.C., sempre più compressa dall’incalzante monoteismo Jahwista. Ora bisogna sapere che, almeno per i primi tempi, Cananei ed Israeliti saranno la medesima cosa in quanto a culti e credenze. La distinzione verrà semmai dal sud del regno israelitico, ove più forte si farà sentire l’influenza di Jhwh-El, mentre il nord propenderà maggiormente per i culti cananei, tra cui quello di Baal, divinità dalle valenze celesti, comune anche al pantheon fenicio. I tentativi delle classi sacerdotali di ispirazione monoteista andranno ripetutamente in fumo, essendo l’antica religione politeista fortemente radicata.L’esigenza di riunificare le tribù israelitiche sotto un’unica guida politico-religiosa, sarà alla base del golpe di Iehu che scalzerà la dinastia degli Omridi di Samaria (841 A.C.), instaurando un clima di intolleranza nei confronti dei culti pagani. Ma la riunificazione e la definitiva redazione del testo biblico avranno il loro imput nel 6° secolo A.C., con la vicenda del ritorno dall’Esilio Babilonese dell’intellighenzia ebraica, i cui scribi, detti Deuteronomisti, compiranno quell’opera da una parte, di esaltazione delle vicende del popolo israelita, dall’altra di demonizzazione delle antiche divinità (Baal in particolare).Una redazione, dunque, ben più vicina nel tempo, di quanto certuni abbiano voluto farci credere sino ad ora. Non solo, checchè il Baldacci ne dica, l’impianto mitologico cananeo (e quindi biblico), fondato sui miti della lotta contro le divinità del Caos, rappresentato dalle Acque Primordiali, è di origini appuratamente mesopotamiche ( sumere con esattezza), l’apporto semitico-accadico essendosi manifestato molto più tardi, con altri apporti e non l’incontrario. Tutto ciò ci porta ad una conclusione: il monoteismo Jahwista nacque e si sviluppò nel turbolento ambito di quelle tribù semitiche allo stato seminomade, ben lontane dalle raffinate civiltà egizie, mesopotamiche o siriane, intorno alle quali gravitavano e da cui sicuramente mutuarono degli importanti spunti di riflessione. Una storia

nata tra turbolente tribù beduine, alla periferia della civiltà stessa, ma che, comunque, nulla può togliere al valore innovativo della religiosità monoteista, collocandone però la valenza in un ambito del tutto differente, impregnato di profonde influenze politeiste. Un dato di fatto, questo, che ci porta a ridimensionare la portata del Vecchio Testamento ad un ambito culturale esclusivamente ebraico, fuori del quale verrà tratto solo nel Tardo Ellenismo, grazie a quella sintesi con la Grecità, il cui frutto sarà rappresentato dal Cristianesimo, dottrina religiosa dalle più marcate spinte universalistiche.

 

Mondialismo e mitologia

 

Sembra quasi che un oscuro destino perseguiti gli studi sulla mitologia e sulla storia delle religioni, quello cioè di finire vittime di distorsioni e di interpretazioni unicamente dettate da finalità propagandistiche e non da un sincero intento di interpretazione e ricerca. E’ un po’quanto sta accadendo con il piccolo polverone sollevato dal dibattito tra il Prof. Felice Vinci ed il Prof. Ernesto Roli attorno alla questione sull’ origine dei poemi omerici e più esattamente, sull’esatta collocazione geografica in cui le vicende da questi narrate si sarebbero svolte. Da una lato la tesi del Prof. Vinci tutta incentrata sull’origine “nordica” dell’intero corpus omerico, dovuta ad una serie di mirabili similitudini linguistiche e geografiche, che porterebbero alla conclusione di uno svolgimento di tutta la vicenda omerica tra le rive e gli arcipelaghi del gelido mar Baltico, anziché sulle soleggiate rive del Mediterraneo. Dall’altro, la tesi di Ernesto Roli, incentrata su un’origine vicino-orientale dell’intera vicenda omerica e più esattamente anatolica (ittita nella fattispecie), con ulteriori apporti vicino orientali di cui si tratterà più estesamente in seguito. Iniziamo con il dire che chi sta scrivendo ha, tra l’altro presieduto la conferenza-dibattito su questo tema svoltasi a Roma presso la biblioteca comunale di V.le Marconi, sotto il patrocinio dell’ARSI e che ha visto la partecipazione di ambedue gli studiosi ed ha quindi potuto in qualche modo ascoltare e soppesare le due tesi più “da vicino” di altri. Iniziamo con il dire che, quando si parla di mitologia bisognerebbe fare molta attenzione e non lasciarsi trascinare in analisi e conclusioni frettolose che rischiano di trascinare lettori e studiosi in un vicolo cieco. Il mito in quanto tale, è una ben distinta branca del sapere, che non può assolutamente essere confusa con altre similari branche, con cui sicuramente interagisce ma da cui differisce, quanto meno per gli scopi che si prefigge. Religione e mito sono altresì intrinsecamente legate, ma costituiscono altresì due branche di sapere differenziate, visto che la religione può attingere direttamente dal mito al fine di elaborare e corroborare il proprio corpus dottrinale, finendo con il costituire la codificazione di ciò che il mito esprime attraverso la narrazione, senza però che si arrivi ad una perfetta coincidenza tra le due realtà che ricavano la propria ragion d’essere da due differenti modalità d’espressione. Il mito può essere alla base, e quindi precedere l’elaborazione di un determinato corpus dottrinale senza per questo venirne a far direttamente parte. Prendiamo l’esempio di determinati motivi mitologici dell’area culturale ellenica, che si richiamano alla religiosità pre olimpica, legati ad una preponderanza dell’elemento femminino o tellurico, ravvisabile nel caso di divinità come Ecate, Gea, la stessa Diana, il dio del mare Poseidone e tante altre ancora. Nello stesso pantheon indù si possono ravvisare casi simili, riguardanti, per esempio, la figura di Shiva ed altre deità, il cui culto è già ravvisabile nel contesto culturale della valle dell’Indo, in siti come Harappa, Lothal e Moenjo Daro. All’interno della cultura tibetana è ravvisabile un fenomeno simile, riguardante la commistione tra il buddhismo importato dall’India ed il locale impianto culturale lamaista (bom e di altri tipi). L’antico ambito culturale cinese, permeato di confucianesimo, taoismo e naturalismo, si trova a fare i conti con richiami mitologici ben più antichi e slegati da quelle filosofie. Lo stesso esempio potrebbe essere addotto per i Vangeli, di cui esistono versioni permeate di influenze gnostiche. Mito e storia, per fare un altro esempio, sono simili in quanto ambedue elaborazioni narrative, di cui una obbligatoriamente fondata su una narrazione dei fatti legata ad un prestabilito criterio di osservazione scientifica/metodologico (fonti scritte, testimonianze dirette e sistemazione cronologica degli eventi trattati), un'altra invece si rifà ad una dimensione atemporale del passato, in cui nomi luoghi e personaggi possono non corrispondere a quel requisito di scientificità che invece la scienza storica richiede. Da quanto sinora illustrato, si può arrivare alla conclusione che il mito è in quanto tale, atemporale e geograficamente de-localizzato, situato in quel “regno dell’altrove” che coincide con tutti i luoghi e nessuno in particolare. Ma il mito è anche ed innanzitutto, proiezione inconscia del sentire dei popoli, di quella loro specifica ed indivisibile anima che ne muove ed influenza le vicissitudini attraverso i secoli. Il mito, dunque, dei popoli è anche l’immagine estatica, la fotografia interiore, quella “poiesis” che in quel linguaggio detto appunto “poetico” trova il proprio momento fondante. Dunque se anche un mito presenta in sé influenze di precedenti culture, queste non possono che essere in stretta e subordinata relazione con il contesto culturale etno- linguistico in cui si trovano ad agire. Il mito è, dunque, anche rielaborazione di archetipi perenni ed universali in conformità dell’etnos su cui si trova ad agire. Ora, che qualcuno cerchi di dimostrarci che le vicende dell’Odissea si sono svolte tra i Vichinghi del Nord Europa o tra gli Ittiti d’Anatolia, è come porsi quelle domande senza tempo che, probabilmente, non troveranno mai risposta, poiché rinviano continuamente a qualcos’altro. Domande come quelle sull’origine dell’uomo, sulla nascita dell’universo, sulla coscienza, sulla morte, sul destino del mondo, sull’esistenza del divino o sulle corrispondenze nella realtà di un determinato mito, fanno parte di quel tipo di interrogazioni che non troveranno mai una risposta scientifica certa ed esatta poiché trattando di un problema di sostanza e non di semplice apparenza o “ontologia” (per permetterci una libertà filosofica) non trovano un senso compiuto se non nel loro stesso manifestarsi. Prendiamo ad esempio la spinosa questione delle origini dell’uomo: ogni volta che si crede di aver trovato il cosiddetto “anello mancante” tra i pre ominidi e le scimmie, ecco spuntare una altro “anello” che riporta indietro di qualche centinaio, se non milione, di anni la datazione di un’eventuale ominazione. La stessa cosa sembra riproporsi con la questione dell’origine della materia e la questione delle particelle subnucleari, inizialmente imperniata su protoni ed elettroni, poi riposizionata su muoni e gluoni, ora incentrata su colla subnucleare, stringhe e quark, in una infinita e sfibrante ricerca dell’infinitesimale. La stessa origine dell’universo è sempre più focalizzata sulla ricerca di quel micro secondo che avrebbe ingenerato il big bang e di cui non si riesce a quantificare l’esatta ed infinitesima entità.  Sicuramente i poemi omerici tengono conto della realtà geografica mediterranea, adattandola liberamente alle vicissitudini dei propri protagonisti. Altrettanto sicuramente essi tengono conto di vicende storiche aventi per protagonisti interi popoli, reami, le loro migrazioni o, addirittura, le loro istanze geopolitiche (come nel caso del predominio troiano sullo stretto dei Dardanelli), riadattandole sempre liberamente a quelle che sono le vicissitudini dei propri protagonisti. La localizzazione storico-geografica dei miti (ed anche di quelli omerici, sic!) è nel regno dell’altrove e nel tempo senza tempo. E’ vero, i poemi omerici risentono logicamente dell’ambito etno linguistico all’interno del quale maturarono e che, in questa fattispecie, è rappresentato da quello indoeuropeo. Quindi nulla di strano se tra nomi e termini greci, baltici o ittiti vi siano delle verosimiglianze e delle assonanze. Nulla di strano nemmeno se vicende simili siano trattate in ambiti geografici e culturali simili, ma pur sempre lontani nello spazio e nel tempo. Il mito, al pari della poesia, resta sempre l’immagine dell’interiorità di un popolo e di un’intera civiltà. La civiltà ellenica è quella che lascia il proprio imprinting all’intera vicenda occidentale ed è strettamente legata a due miti che ne costituiscono l’immagine-simbolo. Quello di Prometeo e l’Odissea, per l’appunto. Il Titano che spinge la propria sete di conoscenza sino all’estremo limite del sacrificio, fa il pari con l’ansioso e quasi fisiologico peregrinare, di cui Odisseo si fa protagonista e che, al di là di Dei, mostri e battaglie, lo spinge inesorabilmente verso quel punto indefinito, disperso nell’azzurro del mare, dove il sole cala/”occidet”, verso quell’Occidente che si fa simbolo e metafora della vicenda di una civiltà, quella europea, che nella continua ricerca della perfezione, marcia da sempre inesorabilmente verso il proprio nichilistico auto-annullamento. La civiltà greca è quella dell’umanesimo che, poco o nulla ha a che fare con quel Vicino Oriente tanto e vanamente cercato da tutti quei ricercatori di impostazione anglo americana e mondialista, nel subdolo tentativo di snaturare e cancellare l’identità ellenica ed indoeuropea che oggi è l’ultimo valore che ci è rimasto, di fronte al rullo compressore della globalizzazione. Di questa impostazione fa anche parte la teoria del Roli, sicuramente più subdola di quella, tutto sommato, ingenua e simpatica del Vinci che perlomeno cerca un apparentamento in un ambito prettamente ario nordico, prendendo spunto dalle vicissitudini delle popolazioni doriche giunte nell’Ellade da una regione corrispondente all’attuale Cecoslovacchia. E’ vero: gli Ittiti erano un popolo indoeuropeo, ma con l’occhio ancora rivolto verso le regioni mesopotamiche da cui mutuarono abiti, fogge e sicuramente molta parte degli schemi culturali che li contraddistinsero, tanto da scomparire all’improvviso senza lasciar traccia, probabili vittime di quell’implosione che accompagna tutte quelle culture ancora deboli ed incerte che, come quella ittita appunto, poco o nulla ebbero a che vedere con la grandiosità greca. Ed a poco serve proclamarsi allievi e prosecutori della via di Adriano Romualdi, se poi la strada porta verso quei Semerano, quei Devoto, quei Penglase e quei tanti altri che, nel nome di un cammino tutto all’insegna del pervertimento e della confusione dei valori e del senso della Storia delle civiltà cercano di creare improbabili connubi con quel Vicino Oriente, le cui precedenti civilizzazioni non bisogna assolutamente disprezzare, anzi. Sumeri, Accadi, Assiri, Babilonesi, Siriaci, Fenici, Filistei ed altri ancora, meritano attenzione e rispetto, proprio in quanto figli di  civilizzazioni dotate della propria unica, grandiosa, specificità culturale, al pari delle popolazioni e delle civiltà che scaturirono dell’alveo indoeuropeo, al di là di tutte quelle che possono essere le naturali analogie e verosomiglianze che l’incessante sommovimento dei popoli e delle idee ha da sempre determinato sul proscenio della Storia.

L’evoluzione della nozione di divino

 

Si fa presto a parlare di principio divino, di Dio, di Dei e quant’altro!Quella che, a prima vista potrebbe essere un’asserzione scontata, a ben vedere, tale non è, anzi. Ammessa per corollario l’esistenza di tale principio, (senza cioè scendere nel più arduo compito di dimostrarne l’esistenza tramite il fondamentale supporto della filosofia) ciò che si mostrerà ai nostri occhi è una realtà tutt’altro che semplice e manifesta nel suo continuo rimandarci ad un altro piano dell’essere. Ma procediamo per gradi. Il concetto di divino è lì a ricordarci una dimensione che “trascende” la realtà in cui viviamo, in quanto da esso tutto viene e promana. Tale principio può manifestarsi a noi in vari modi. La più evidente delle manifestazioni è quella che fa dell’intero creato la più immediata ed indiscutibile delle espressioni della trascendenza. A questo semplice ma opinabilissimo principio, si preferisce piuttosto l’attenzione su un qualsivoglia aspetto della realtà che assume così la veste di vera e propria “ierofania” o manifestazione del sacro in terra. Oggetto di simile valutazione può essere un qualsivoglia oggetto, una pianta, un animale, o un determinato sito geografico, sino ad arrivare ad uno degli elementi naturali come il cielo, la terra, la luna, il sole etc. A questa iniziale sistematizzazione della materia più legata all’aspetto della manifestazione esteriore, ne va giuocoforza fatta seguire un’altra stavolta strettamente interrelata con la percezione che la nostra psiche ha dell’intero fenomeno, che finisce in tal modo con l’essere collegato alle singole fasi culturali del genere umano o di una sua parte. Tutto ciò solleva una questione legata al simbolo ed alla ridda di significati ad esso connessi a cui di volta in volta il divino richiama. La storia delle religioni, la filosofia, la psicanalisi ci soccorrono in questo arduo compito, indicandoci la strada o, sarebbe meglio dire, le strade in grado di avvicinarci alla “summa quaestio” del significato, del senso ultimo della realtà che dal divino promana. Autori come Usener, Neumann, Cassirer ed altri, ci indicano il principio divino come strettamente legato al fattore psico-linguistico. Inizialmente il genere umano, al pari del singolo individuo, conduce un’esistenza in uno stato di perfetta osmosi con la circostante natura che, al pari di una madre premurosa ne regola indissolubilmente il ciclo vitale. In tale stato la coscienza come funzione di superiore percezione della realtà è ad un livello soffuso, di dormiveglia. La percezione del fenomeno divino è dunque legata a tale sensazione e si traduce nell’immagine di una “divinità momentanea”. Tutto ciò che nella nostra mente è oggetto di attenzione, curiosità, meraviglia, attrazione viene immediatamente fatto oggetto di adorazione, ovvero considerato come appartenente ad un superiore piano della realtà. Ma tale entità è destinata a rimanere nell’ambito del confuso, dell’indefinito, della momentanea eccitazione. A questo proposito autori come Cassirer ed Usener menzionano il concetto di “dàimon” che, inizialmente riferito all’ambito ellenico (lo stesso vocabolo sta lì a ricordarcelo), si trasferisce per una sorta di stretta analogia culturale all’ambito latino-romano. Tale iniziale elaborazione sembra qui ritrovarsi nelle figure degli “indigitamenta”, vere e proprie schiere di divinità minori, addette alle funzioni più svariate ed impensate della vita pratica, minuziosamente distribuite tra le varie deità. Deferenda, Commolenda, Coinquenda, Adolenda, sono solo alcune tra le divinità addette al tagliare, potare, segare, zappare, e quant’altro. Volgendosi ad uno strato più primordiale dell’elaborazione del divino, lo Spieth invece ci porta in Africa tra gli Ewe, ove gli spiriti ancestrali sono rappresentati dai “trovo” o “tro”, anch’essi molto vicini alle attività pratiche dell’uomo. Identico riscontro vale per l’area etnico-culturale del Pacifico che, nonostante le mille varietà etniche in cui è suddivisa, è accomunata dall’idea di “mana”, vero e proprio spirito-guida, qualificante forza, coraggio, virtù, la cui provenienza sovrannaturale lega inscindibilmente l’elemento umano al divino. Alcune tra le tribù indiane del Nord America parlano in egual modo di “manitu” e “orenda”. Accanto a questo stato di iniziale confusione nell’interpretazione del divino, se ne può riscontrare un altro, egualmente arcaico, la cui importanza non è affatto secondaria rispetto a quello poc’anzi riportato. L’idea che a base dell’intera trama del creato vi sia un’entità superiore, viene qui espressa nell’immmagine di un dio celeste che, in veste di vera e propria teofania uranica, si fa carico della creazione e dell’ordinamento dell’intero mondo. Questa figura viene ben presto relegata in un ambito secondario, sino a sparire quasi del tutto, (salvo riapparire in occasione di eventi eccezionali), sostituita da divinità dagli attributi sempre più personalizzati. Quanto sin qui detto è riscontrabile presso tutte le culture del mondo, (sia pur con le singole e lecite varianti culturali) e questo sia a partire da quelle più arcaiche che da quelle più “sviluppate” da un punto di vista socio-economico. E’ quanto accade con i Senang di Malacca ed il loro Kari, con gli Yoruba africani ed Oluru, con i Maori ed Iho, con i Kamilaroi australiani e Baiame, con i Samoiedi e Num, con i Mongoli eTengri, con le culture mesopotamiche ed Anu, con gli indoeuropei delle origini e Dyeus, con gli antichi Indù e Dyaus, con gli Elleni e Zeus, con i Latini e Juppiter, con gli iranici e Ahura Mazda. Tra i Maori, Iho per esempio, assume ben presto il ruolo astratto di “principio ordinatore”, mentre il vero e proprio ruolo demiurgico passa ad altre figure divine. Mentre tra gli Indù Dyaus viene sostituito da Varuna, in ambito classico, Zeus (Dyaus-Dyeus…) dio del cielo e del fulmine conosce una particolare tripartizione temporale. Ad Urano (cielo) intento a procreare con Gea (terra) una progenie mostruosa, succederà con violenza Crono-Saturno (tempo) che, dopo averlo evirato e generando nel contempo Afrodite-Venere, verrà a sua volta detronizzato da Zeus dopo un’ulteriore battaglia. Gli antichi dei vengono dunque messi in soffitta, il loro operato inizialmente immerso nelle nebbie di un’indeterminata  dimensione spazio-temporale, assume in tal modo i contorni di una creazione sottoposta ad un criterio ordinatore di cui Zeus, Juppiter ed altri esempi ancora, divengono gli indiscussi titolari. Nel contempo all’interno del principio primo si assiste ad un’ulteriore scissione che vede gli antichi dei assumere un ruolo più “tecnico”, nella veste di dei della fecondità, spesso in interazione con altre figure. E così sarà per le Dee-Madri affiancate da giovani e sfortunati paredri maschili, spesso rappresentati zoomorficamente come “tori-fecondatori”. In altri ambiti gli antichi dei assumeranno al ruolo di divinità pluviali accompagnate dal simbolo del fulmine. Juppiter Dolichenus, ma anche il Thòrr scandinavo, il Baal fenicio, il siriaco Haddad, l’Indra ed il Parjanya Indù, vanno tutti in questa direzione. Riassumendo: il principio divino inizialmente percepito in un’accezione di massima indeterminatezza come fascio di forze sovrannaturali, va poi assumendo dei contorni sempre più definiti eleggendo uno degli elementi naturali (cielo, ma anche terra e acque) a propria princiaple sede di manifestazione. In seguito l’ambito di manifestazione del divino va via via estendendosi alla molteplicità degli aspetti della realtà, sino ad arrivare ad una propria spinta connotazione antropomorfica caratteristica della civiltà classica. Qui il principio divino in tutte le sue infinite varietà uraniche, ctonie, solari, acquatiche, lunari e via dicendo, sotto l’impulso della riflessione filosofica subirà un processo di astrazione concettuale. Tale processo starà alla base di quella “reductio ad unum” che, in veste di vera e propria semplificazione del concetto di divino, segnerà l’avvento di unico dio al posto della varietà di divinità che, nella tarda fase della civiltà classica (rappresentato dall’ecumene imperiale romana) erano andate moltiplicandosi, ingenerando quel fenomeno di spaesamento tutto alla base delle pericolose spinte centrifughe che avrebbero caratterizzato la tarda storia romana. L’avvento del monoteismo cristiano avrebbe dovuto rappresentare la soluzione in grado di mantenere l’unità dell’ecumene tardo imperiale ma, come sappiamo, la storia procedette ben diversamente. La nuova religione andrà accompagnando tutte le vicissitudini del mondo occidentale, dall’Evoi Medio in poi, subendo uno strano destino. Da una parte in occidente la religione e le sue istituzioni dovranno sempre più lasciare il passo ad una onnipervadente dimensione economicistica della realtà, che ridurrà i precetti religiosi a semplici prescrizioni morali, distaccate da qualsiasi esplicito riferimento superiore, seguendo in questo la tendenza all’astrattezza iniziata durante l’ellenismo. Dall’altra il nuovo modello di sviluppo occidentale mutuerà appieno la struttura di pensiero alla base del Vecchio e del Nuovo Testamento, cioè quel monoteismo la cui tendenza ad operare una “reductio ad unum” dell’intera realtà, ora ha fatto del binomio economia-tecnica l’unica vera e concreta divinità di un mondo sempre più occidentalizzato, rispetto a cui qualunque forma di religiosità tradizionale, tiene testa a fatica.

 

Il Buddhismo tra religione e nichilismo

 

In un recente viaggio nello Sri Lanka, ho avuto modo di ammirare i principali siti archeologici e religiosi di un paese che possiede la peculiarità di una molteplicità religiosità concentrata in un territorio più piccolo dell’Italia. Situata in una particolare posizione, accanto alla parte meridionale dell’India, lo Sri Lanka ha sempre risentito di questa particolare condizione geografica, subendo una serie di invasioni alla radice della particolare stratificazione culturale che le è propria. Inizialmente abitata dai Vedda, popolazioni aborigene di tipo melanesiano ivi sopraggiunte migliaia di anni prima, conoscerà la prima invasione verso il 7° secolo AC da parte di popolazioni provenienti dal Nord dell’India, i singalesi, che imprimeranno una traccia indelebile sulla conformazione etnica dell’isola, attraverso il proprio idioma, il sinhala, ed attraverso la massiccia conversione al buddhismo iniziata nel 5° secolo AC. Successivamente, lo Sri Lanka sarà invaso nella propria parte settentrionale da popolazioni pre indoeuropee di etnia Tamil, provenienti dall’India del sud di religione induista. I secoli a venire conosceranno una contenuta influenza islamica, determinata dall’arrivo di mercanti arabi, durante l’Evo Medio, sino alle tre grandi ondate colonizzatrici europee, portoghese, olandese e britannica, con il loro apporto di deleterio missionarismo catto-protestante. A tutto questo, va aggiunta una storia di alterne e mai sopite conflittualità tra i due gruppi etnici, Tamil e Singalesi, e tra i diversi gruppi religiosi, che hanno visto il consolidamento o lo sfaldamento di regni, domini, imperi senza soluzione di continuità. Nonostante tutto questo, oggi è tuttora possibile rimirare questo caleidoscopio etnico e religioso nella sua piena integrità. Va però considerato che, al di là delle postume influenza occidentali, lo Sri Lanka rimane una terra sensibilmente marcata dalle principali espressioni religiose dell’ ”Arya Dharma” o “Pensiero Ariano”, nelle sue locali espressioni indo-buddhiste, contrariamente all’India, ove il buddhismo è quasi inesistente (mentre sono presenti in numero cospicuo, Jainisti e Sikh, a tutt’oggi considerate filiazioni dirette dell’Arya Dharma). Infatti, se vi capitasse di recarvi al santuario buddhista di Kandy, ove si dice esser custodita la reliquia del Dente di Buddha, non appena usciti da quel sito vi trovereste di fronte una zona costituita da una serie di strutture templari, dedicate alle divinità indo-buddhiste, se non alla stessa figura del Buddha. Il grande patrimonio spirituale rappresentato dall’Arya Dharma parte da una considerazione di base: tutto ciò che è oggetto di rappresentazione dei nostri sensi è frutto di illusione, è “maya”; l’attaccarsi ad esso determina quella infinita catena di morti e rinascite in forme mortali ed inferiori, causa di sofferenza senza fine. Unica soluzione per spezzare questa catena è il distacco dalle apparenze determinate dal mondo dei sensi, tramite una condotta virtuosa a cui seguirà un ciclo di rinascite ascendenti verso forme di esistenza via via superiori, sino a raggiungere quella “Moksa”/liberazione o “Nirvana” per i buddhisti, termine con cui si intende l’annullamento dell’anima individuale nell’Infinito. Questo per quanto riguarda gli aspetti in comune, mentre per quanto riguarda le differenze, l’Induismo anzitutto parte dal fatto che a conseguire il Moksa/Nirvana possano essere solamente coloro che appartengono ad uno dei Varna/colori o casta di rango superiore, in quanto espressione del corpo del primordiale dio Purusa. Nel Buddhismo, il rigido sistema per caste che regola l’accesso al Nirvana, lascia il posto all’idea che a tutti gli esseri umani possa esser lasciata aperta la possibilità di conseguire la liberazione finale, a patto che si seguano le prescrizioni indicate dal Buddha, attraverso testi sacri come il Canone Pali, il Prajnapanamitra Sutra, il Sutra del Loto, il Canone cinese ed altri. Il Buddhismo ritiene si debba rendere sempre onore alle divinità (Daeva) pur restando consci del fatto che esse nulla possono sul percorso che l’uomo ha dinnanzi a sé per il conseguimento del Nirvana, contrariamente all’Induismo in cui il ruolo delle divinità non è sottostimato. L’Induismo afferma il diritto del fedele a vivere la vita ed i piaceri ad essa connessi, (con la evidente prescrizione di non cadere negli eccessi di qualunque tipo), prescrivendo però un momento dell’esistenza o “vanaprastya”, durante il quale l’adulto ha il dovere di allontanarsi dagli interessi mondani per recarsi a condurre una vita di ascesi, errando tra villaggi e foreste come un “sadhu”, salvo poi tornare alla vita mondana più fortificato interiormente. Pur non rifiutando le necessità legate alle contingenze della vita terrena, il Buddhismo propende al rifiuto del piacere, sessuale in particolare, poiché da ciò deriva quell’attaccamento alla base della universale sofferenza. Da qui il celibato degli ordini monastici buddhisti, maschili e femminili, in questo molto simili a quelli cristiani. Inoltre, mentre l’Induismo fa propria l’esistenza di un’anima sovrasensibile o “Atman”, che trasmigra dal corpo di un individuo all’altro, il Buddhismo la nega totalmente in omaggio all’idea di “vacuità” o “impermanenza” dell’intero samsara /esistenza, in virtù del principio dell’ “anicca-anatta”, salvo poi rivalutare il concetto di anima poiché inscindibile da quelle considerazioni di tipo etico o morale che fanno da cardine alla propria religiosità e che hanno da più parti fatto parlare di una natura “atea” di questa religione. E’ paradossalmente sulla base di questo ultimo principio che il Buddhismo si divide in due grandi branche: quella Hinayana o del “piccolo veicolo”, alla quale appartiene il buddhismo Theravada, ed il Mahayana o “grande veicolo” al quale appartengono la maggior parte delle confessioni buddhiste oggidì esistenti. In questo ambito il contrasto più evidente è rappresentato tra la scuola “Theravada” e quella “Mahayana”, laddove la prima rappresenta l’interpretazione più ortodossa delle scritture buddhiste (in particolare del Canone Pali), supportata da una lettura più etica e meno teologica di queste ultime, incentrata tra l’altro sulla visione di Buddha quale essere alla cui mortale corporeità va accompagnandosi lo stato di “Dhammakaya”, ovverosia quello di una mente resa invece immutabile e senza tempo, da cui consegue un insegnamento della medesima natura. L’insegnamento del Buddha è qui inteso come un’etica comportamentale attraverso la quale conseguire lo stato di “arhant” o “arhat”/maestro, illuminato, riservata però a coloro che nell’accezione Theravada hanno intrapreso la via dell’ascesi monastica. Uno stato non sovrannaturale come d’altronde la stessa figura di Buddha, considerato un Illuminato dalla natura umana, contrariamente a quanto accade nell’ambito della scuola Mahayana all’interno della quale tale figura viene divinizzata. All’origine di questa considerazione sta la differente concezione della realtà alla base di ognuna delle due dottrine. Ambedue le scuole insistono sul concetto dell’ “anicca-anatta”, ovverosia quello dell’impermanenza dei fenomeni naturali, anima umana inclusa, integrato nel Mahayana dall’idea di “sunyata”, ovverosia sulla mancanza di intriseche proprietà di qualsivoglia oggetto della realtà. Se il mondo si rivela dunque una specie di enorme illusione, l’unica realtà non transitoria è la figura di Buddha che viene in tal modo divinizzata, al pari delle sue varie incarnazioni, passate e future, anch’esse elevate allo stato di entità cosmiche. Il Mahayana viene così incontro alle esigenze di divino degli uomini comuni, addirittura permettendo ad un qualunque credente di poter addivenire allo stato di “bodhisattva”/illuminato, e di permanere in terra al solo scopo di aiutare gli altri a raggiungere la tanto agognata illuminazione. Il Mahayana si rivela in tal modo una fede più attenta al lato “sociale” della religione, sia venendo incontro alle esigenze di misticismo dei suoi adepti, sia offrendo maggiori possibilità di addivenire all’illuminazione, rispetto ai rigidi dettami etici del Theravada o “fede degli anziani”. A questo punto, però, ai fini di una maggior comprensione dell’intero contesto, va fatta una considerazione di base. Al di là delle reciproche differenze, il Buddhismo si presenta con delle tali caratteristiche, da poter sì essere annoverato all’interno del contesto dell’ ”Arya Dharma”, ma quale capitolo a sé stante. Contrariamente a quanto si può pensare, il Buddhismo è difatti molto più vicino alla religione cristiana ed al monoteismo di quanto si creda. Anzitutto esso si presenta come una vera e propria religione rivelata, il cui profeta Buddha è solo una delle figure di una serie, tale da rammentarci molto da vicino la schiera dei profeti del Vecchio e del Nuovo Testamento. Il Buddhismo, al pari del Cristianesimo, sorge in un momento di profonda crisi spirituale della società indù offrendo come risposta una ricerca interiore, basata sulla compassione. Al pari dei monoteismi giudaico-cristiano, il Buddhismo vede nel sesso una manifestazione di quel tanto biasimato attaccamento ai sensi e crea una classe di sacerdoti-asceti, contrariamente ai brahmin indù, che possono sposarsi. Al pari dello Zoroastrismo, il Buddhismo  può essere visto come una rottura non traumatica e totale (come nel caso del rapporto tra la antica religione romana ed il sorgente Cristianesimo) con le precedenti tradizioni, anche se andrà convivendo pacificamente con queste, come in Giappone con lo Shintoismo, o a Sri Lanka con l’Induismo. Questo non toglie alcun fascino a questa religione che, anzi, come ebbe a dire il filosofo esistenzialista tedesco Jaspers, può essere annoverata quale forma di esplicitazione del senso dell’Essere non dissimile a quella operata da Parmenide in Grecia o da Lu Tzu con il concetto di Tao in Cina. Questo perché, tornando a quanto precedentemente accennato, a detta di Nagarjuna (il fondamentale pensatore e capostipite della scuola Mahayana), il Brahman inteso come termine neutro di sostanza universale che trascende tutte le cose ed il loro Dharma, coincide con il Nirvana o “non essere” o dimensione “fuori-da”; questo a causa del “sunyata” o vacuità e dell’ “animmita” o indeterminatezza, che accomuna ambedue questi stati in un modo tale da potersi tranquillamente dire che, anche qui l’Essere “è e non è” al tempo stesso. Il Buddhismo si fa quindi affascinante portavoce di quel particolare momento della storia del pensiero umano, la cosiddetta età assiale di jaspersiana memoria, tutto proteso alla percezione ed alla definizione dell’universale essenza delle cose, l’Essere appunto. Il Buddhismo come istanza finale, volta a realizzare e completare con un nichilistico salto nel Nirvana il percorso dell’intero Arya Dharma iniziato con l’Induismo, o una forma di ateo devozionalismo pietista, volta a relegare il virile agire “hic et nunc” di romana memoria in una dimensione astratta? Forse né l’uno né l’altra, o tutte e due le cose assieme. Fatto sta che, avvicinandovi ad un tempio buddhista, non potrete sicuramente rimanere indenni al fascinoso richiamo che le estatiche immagini del Buddha eserciteranno su di voi.                                                                      

 

Psicologia e realtà

Tra le cosiddette “scienze umane” venutesi a formare nel corso dei rivolgimenti del 18° e del 19° secolo, la Psicologia, più di ogni altra, è quella che si ritrova ad esercitare una pericolosa concorrenza nei riguardi del ruolo di sapere omnicomprensivo sino a quel momento gestito dalla Filosofia. Questo proprio a causa del tipo di approccio che caratterizza la scienza psicologica, volta primariamente a definire in modo sistematico e razionale il tipo di percezione che l’individuo ha della realtà circostante, per poter poi passare allo studio ed all’analisi del funzionamento della psiche umana. Cominciamo con il dire che gli interrogativi attorno alla mente umana ed al suo funzionamento non sono nuovi. A partire dalla religione Indù, via via passando per Platone ed Aristotele si assiste alle prime definizioni delle tipologie caratteriali umane, sino ad arrivare alla figura di Ippocrate che nella sua famosa quadripartizione tra tipo collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico, darà una prima sistematizzazione delle tipologie temperamentali umane. Il clima favorevole per uno studio della psiche determinato dalla filosofia platonica che concepisce un’anima differenziata dal corpo, troverà nel Cristianesimo (erede della medesima concezione) il proprio primo e fondamentale elemento di interdizione, a causa del conclamato primato della fede sulla ragione, che non permette alcuna riflessione razionale sulla natura umana. Sarà con Alhazen geniale figura di  scienziato, medico, filosofo, astronomo arabo (nato nel 965 a Bassora, nell’attuale Iraq), che lo studio della psicologia riprenderà il suo cammino, grazie agli studi di quest’ultimo sul funzionamento della vista ed in particolare sulla forma ed il colore degli oggetti. Fondamentale è nel suo testo l’ “Ottica”, la scoperta del funzionamento dell’occhio come una camera oscura, dopo averne studiato ed interpretato l’anatomia (così come, sino ad allora, era stata tramandata da Galeno), iniziando probabilmente a percepire il fatto che l’immagine esterna arriva all’occhio medesimo invertita. Non solo, con Alhazen si suole dare inizio alle scoperte della psicofisica sulla luce e sull’agente fisico convogliato dal suo raggio, il lumen, la cui rappresentazione psichica è detta lux. Ma l’importanza di Alhazen non è tanto incentrata su queste scoperte, quanto dalla prima distinzione in senso moderno operata tra sensazione e percezione, tra sensazione pura (solus sensus) da una parte, conoscenza (cognitio) e pensiero differenziatore dall’altra (ratio et distinctio).In Occidente le idee di Alhazen giungeranno nella tarda rinascenza e troveranno in Keplero il più importante interprete e prosecutore grazie alla scoperta ed alla dimostrazione scientifica dell’immagine invertita, tramite la camera oscura, fedele rappresentazione del funzionamento oculare. L’Umanesimo rinascimentale, sempre più svincolato dai nodi scorsoi, dalle interdizioni cattoliche alla ricerca scientifica, appuntando la propria attenzione sull’uomo, spalancherà la strada allo studio della mente umana. La prima e seria sistematizzazione un tal sensio sarà operata da Cartesio, che tramite la suddivisione della realtà in “res cogitans” (spirito) e “res extensa” (materia), vede il fenomeno della percezione essere affrontato nell’uomo in tre distinte fasi, durante le quali la res extensa viene in contatto con la res cogitans tramite la “ghiandola pineale”, permettendo ai nostri sensi di impressionare la realtà circostane, traendone i dovuti giudizi, al di là del fatto che l’immagini si presenti invertita ai nostri sensi. Cartesio parla della “res extensa” nei termini di una macchina del corpo, un vero e proprio automa studiabile naturalisticamente, in grado di interagire con lo spirito tramite la ghiandola pineale, lasciando il problema della sostanza dell’anima tutto di competenza della teologia. Di lì a poco Locke affermerà che lasciando l’anima ai teologi se ne sarebbero potute studiare le funzioni rappresentate dall’intelletto. L’irrompere del pensiero cartesiano sulla scena della storia, con tutto il suo lascito di razionalismo comincia a tracciare all’interno della nascente scienza psicologica quella profonda linea di demarcazione tra due modi di vedere la realtà che dalla filosofia, andranno ad incidere su altre branche del sapere. Oltrechè essere caratterizzata da una concezione razionale, fortemente deduttiva della realtà, la scuola che da Cartesio in poi va affermandosi (il razionalismo, appunto) si fa sostenitore in psicologia dell’innatismo di certi concetti, quali il numero, Dio, etc., preesistenti alla nascita dell’individuo ed indipendenti dall’esperienza, aprendo così un ulteriore fronte di contrasto con l’altra scuola di pensiero filosofico-scientifica diretta concorrente del razionalismo: l’empirismo appunto, rappresentato da Locke, Hume, Berkeley, Molineux che andrà invece affermando il contrario, ovvero la formazione della personalità e dei concetti che ne caratterizzano l’essenza, unicamente grazie all’esperienza esterna. Ma per decollare veramente, la scienza psicologica dovrà aspettare il 19°secolo e la fine delle riserve in tal senso di cui la scienza cartesiana prima e Kant dopo, si erano fatti protagonisti; i primi considerando l’ambito mentale come una sorta di pattumiera in cui relegare tutto ciò che non era possibile dimostrare razionalmente, il secondo dichiarando l’impossibilità di matematizzare e razionalizzare ciò che apparteneva alla sfera interiore. Tutto questo nonostante i tentativi della scuola illuminista degli Ideologues (Cabanis, Itard, Destutt de Tracy, Pinel, etc.) che fonderanno la Societè des Observateurs de l’Hòmme.  Il 19° secolo assisterà invece ad un deciso rilancio della Psicologia, sempre più vista e studiata nell’ottica di una scienza empirica, i cui principi avrebbero potuto essere matematizzabili e quantificabili. Protagonisti di questo primo tentativo sono Herbart, con il suo tentativo di dare un’immagine matematica alle rappresentazioni mentali, Fechner con la fondazione della psicofisica (ovvero l’enunciazione di una funzione matematica che definisse il rapporto tra intensità di stimolo e reazione), ed ancor più gli studi di Helmholtz. Quest’ultimo, dalla semplice osservazione del funzionamento del sistema nervoso, passerà alla conclusione che gli impulsi che un nervo trasmette al cervello, non dipendono dal fattore esterno all’origine dello stimolo, ma dalla natura di quello stesso nervo. In questo modo, vediamo applicato in Psicologia quanto da Cartesio prima, e poi da Kant affermato in Filosofia, riguardo al ruolo primario della mente nell’interpretare e nell’impressionare di sé una realtà esterna, ancorchè inconoscibile nella propria più intima natura.Il tanto aborrito pensiero filosofico, torna così a far prepotentemente sentire la propria voce nei modi più impensati. La stessa virulenta reazione a Wundt, studioso inscrivibile alla stessa impostazione empirista di Fechner, (fondatore di una psicologia fisiologica le cui tre fasi di percezione, appercezione, accompagnata da un atto di sintesi creatrice, e volontà di reazione riflettono un robusto retroterra filosofico), ci riporta al mai sopito contrasto tra il pensiero filosofico empirista e quello razionalista ed innatista, i cui malumori troveranno sfogo in pensatori come Hering, prima, Brentano, Meinong, Von Ehrenfels, poi, tutti caratterizzati da un forte credo innatista, e da una visione della realtà concepita come un tutto unico in movimento, contrapposta ad una visione parcellizzata, per “elementi”, caratteristica della scuola avversaria. Gli stessi allievi di Wundt come Kulpe e Kruger, finiranno in parte per aderire ad una visione più globale della realtà, fermo restando l’empirismo di base. Oltreoceano il filosofo William James crea il funzionalismo che applica il proprio approccio filosofico darwinista alla psicologia, trascinando con sé lo strumentalista John Dewey e Roland Angell. Le successive vicende della Psicologia sembrano voler ripercorrere nell’impostazione generale le vicende della Filosofia dell’epoca. La nascita della scuola psicologica della Gestalt riflette appieno quanto detto. Max Wertheimer si forma sotto la scuola di Brentano (per esattezza con Stumpf un allievo di quest’ultimo), quello stesso grande maestro sotto la guida del quale si formerà Husserl, filosofo e padre fondatore della scuola fenomenologica. A detta di Wertheimer, un fenomeno non può costituirsi se non vi è un’organizzazione globale precedente al suo manifestarsi. Tale criterio è espresso dalle Gestalt, vere e proprie unità organizzative costituite dalle parti di un campo percettivo tra loro dotate di vari elementi di similitudine (le famose cinque leggi!). La scuola gestaltista diverrà prevalente in campo europeo e germanico in particolare, lasciando il negli USA il campo sgombro alla psicologia oggettiva. Qui gli studi di reflessologia compiuti in Russia da Pavlov e Secenov (e portati avanti nelle più disparate ottiche da Vygotskij e Lurja) troveranno un ulteriore sviluppo nelle enunciazioni di Thorndike e Watson. In base a questa impostazione la Psicologia viene definita come settore sperimentale delle scienze naturali che studia il comportamento degli individui, definito come insieme di risposte muscolari e ghiandolari, rispetto ad un determinato stimolo. Il comportamentismo si presenta in tal modo come lo studio delle associazioni tra S (stimolo) ed R (risposta). Ben presto tra S ed R verrano interposti una serie di fattori variabili in grado di condizionare il comportamento (stimoli ambientali, pulsioni fisiologiche, sesso, età, etc.). Tale situazione determinerà la nascita del neocomportamentismo di cui F. Skinner sarà il principale animatore, tutto intriso di uno spirito violentemente antiteoretico e costantemente proteso ad applicare nella realtà quotidiana le proprie teorie. L’allucinante idea di macchine per insegnare ai bambini o il concetto dell’apprendimento uguali per tutti gli esseri viventi, ci rendono l’idea della progressiva meccanicizzazione intervenuta anche all’interno dello studio della mente umana. Non solo. Il contrasto tra l’impostazione della filosofia gestaltista e quella comportamentista, ci riporta al contrato tra la Filosofia continentale, (di ambito europeo e di natura umanistica) e quella analitica (di ambito anglosassone e di natura scientifica). Ma la Psicologia, come tutte le scienze, non si sviluppa in modo costante e lineare, ma con un andamento discontinuo, caratterizzato da crisi e rotture periodiche. All’inizio degli anni Trenta, quello che oramai sembrava essere un equilibrio trionfalmente consolidato viene ad esser messo nuovamente in discussione dall’apparire di un nuovo oggetto di studio, sino ad allora tagliato fuori dall’attenzione degli studiosi: la personalità. Grazie anche al contributo della psicoanalisi, la personalità diviene così oggetto di un serrato dibattiti tra chi vede gli individui suddivisi in esclusive categorie di personalità o “tipologie”, e chi, invece, li vede suddivisi in “tratti”, vere e proprie disposizioni che accomunanao differenti individui. Se la prima suddivisione di cui Kretschemer, ma anche Sheldon e Pavlov si fanno portavoce, ci rimanda alle antiche suddivisioni ippocratiche, la seconda con Cattell ed Allport, ci portano ad una suddivisione di matrice culturale, alla cui base vi sono lingua (approccio “lessicografico”), cultura ed in genere tutti quegli elementi preesistenti alla formazione dell’individuo, quali l’appartenenza etnica etc. Tale impostazione viene negata dal situazionismo, volto ad affermare la preminenza dell’ambiente sulla formazione della personalità, rimarcando in tal modo le proprie origini comportamentiste. Le scuole del New Look, al pari del transazionalismo, ci riportano costantemente al tentativo di dare il maggior rilievo possibile ai fattori della personalità rispetto alle strutture esterne. Lo studio della personalità porterà infine all’elaborazione di veri e propri “stili cognitivi”, rappresentanti cioè il modo di percepire la realtà delle varie tipologie di personalità. La psicologia dei processi cognitivi diverrà presto l’indiscussa ed irremovibile protagonista degli studi psicologici a venire, non senza però esser passata attraverso la Rivoluzione cibernetica che contrassegnerà il panorama scientifico del dopoguerra. Norbert Wiener, uno dei padri della cibernetica, definisce quest’ultima come “scienza dei controlli e della comunicazione nell’animale e nella macchina”. A fondamento di tale Rivoluzione sta il concetto di “feed back” con il quale viene definito un meccanismo in cui l’uscita del sistema (output) viene reimmessa all’ingresso dello stesso (input), con segno cambiato. In tal modo il concetto di autoregolazione di un qualsivoglia sistema vivente fa il suo definitivo ingresso nel salotto buono della scienza. Queste scoperte sono di fondamentale importanza per la psicologia, poiché porteranno a cambiare l’approccio nello studio dell’uomo, sempre più visto e paragonato ad un elaborato congegno ad alta definizione, nelle vesti di un vero e proprio computer. Dalla definizione di uomo come servo-meccanismo (Kenneth Kraik), provvisto di determinati tempi per l’esecuzione di un compito, sino alle teorie del canale unico e del filtro (Cherry e Broadbent), lo studio dei tempi di reazione dell’individuo e della sua capacità ad elaborare contemporaneamente più informazioni (non più di sette secondo Hick), portano tutte in direzione di un’immagine dell’uomo sempre più interrelata allo sviluppo delle scienze informatiche. La psicolinguistica di Chomski, che vede il linguaggio come competenza ovvero come “know how”(sapere come), anziché il tradizionale “know that” (sapere cosa), al pari del concetto di Piaget secondo cui i processi mentali altri non sono che azioni interiorizzate, si fa interprete di questa nuova impostazione. Il primo cognitivismo finisce, dunque, con il vedere l’uomo come un elaboratore di informazioni, il cui sistema nervoso ricopre una funzione primaria. Il sistema cognitivo umano è così concepito come un flusso di informazioni che vengono elaborate tra una fase e l’altra tra un punto e l’altro del sistema, i cui due princiapli momenti sono stimolo e risposta. Fondamentale diviene lo studio della cronometria mentale sui tempi di reazione, accompagnato da una radicale trasformazione del concetto di “memoria”, non più concepita, (come avvenuto da Ebbinghaus sino ai comportamentisti) come un’unica funzione, bensì come una serie di “memorie” dai rapidissimi tempi di immagazzinamento delle informazioni. Si va dalla memoria a “breve termine” di Brown, a quella “iconica” di Sperling. Il modello di psicologia cognitiva entra in crisi a causa dell’eccessiva frammentazione in micromodelli particolari in cui era stata ridotta, arrivando a dividere il proprio spazio da protagonismo con due “grandi vecchi” sostenitori della psicologia “ecologica” di marca innatista. Il dibattito tra innatisti ed empiristi si rifà vivo negli anni più recenti: il cognitivismo più “conservatore” ed empirista trova in Jerry Fodor il suo principale cantore. Sostenitore del paragone tra mente e computer, Fodor, filosofo della psicologia, concepisce la struttura cognitiva organizzata in veri e propri moduli che, con la funzione di strutture di analisi e trasformazione degli stimoli esterni in rappresentazioni, agiscono singolarmente per ogni tipo di stimolo esterno. A questa concezione “modularista”, se ne contrappone una di marca più prettamente “connessionista”, erede delle precedenti impostazioni innatiste. Qui il paragone tra mente umana e computer viene rifiutato, in nome di una modellizzazione che abbia come proprio punto di riferimento cacolatori del tipo della “connection machine” di Hillis, un elaboratore che simula l’organizzazione del sistema nervoso, di quelle “reti neurali” che, d’ora in avanti rappresenteranno il più avanzato strumento di studio della mente umana. In quanto tali, le reti sono dispositivi statistici, che pongono l’inevitabile problema sulla riduzione della mente umana ad un meccanismo statistico-matematico. I più recenti studi di psicologia cercano di avvalersi di sistemi dinamici non-lineari, ovvero di strumenti di analisi che si avvalgono di strumenti concettuali o matematici (dalla teoria sinergetica, alla teoria del caos) che, usati in altre discipline quali fisica, biologia, etc. partono dal comportamento motorio e permettono di stabilire l’evolversi nel tempo dei vari fenomeni ed il loro stabilizzarsi in forme più o meno cicliche. Arrivati alla fine di questa rapida carrellata sulle vicende della Psicologia, qualcuno si chiederà a che pro tutto questo. Nel proprio svolgersi storico la Psicologia segue le vicissitudini della Filosofia, arrivando ad interagire con questa, proprio a causa della sua natura di scienza di relazione tra l’uomo e la realtà circostante. Un fatto questo, che porta a confondere pericolosamente lo studio delle dinamiche comportamentali umane con il predominante pensiero globale. Prova ne sia la meccanicizzazione dell’uomo e dei suoi comportamenti, che porta la Psicologia a compararne le funzioni rappresentative a quelle di un sofisticato elaboratore, finendo inevitabilmente con il ritrovarsi nella situazione di dover rivedere continuamente le proprie scoperte. Si arriva così a dover concepire la mente umana come un qualcosa che si muove all’interno di un complesso sistema di interazioni con un’ambiente esterno, animato da un disordinato moto perenne. Il caos, la casualità, vanno così sempre più sostituendosi ad una rigida tassonomia, \ da una parte, lasciando con un palmo di naso chi credeva di poter dare una definizione esclusivamente materialista dei comportamenti umani, ma dall’altra riportandoci al quadro di una scienza i cui tentativi di riportare e definire in modo meccanicistico la realtà, si trova riaffacciata sul caos da cui aveva cercato di affrancarsi. Dietro alle incrollabili certezze del materialismo e di tutti i pensieri “corretti” si celano il caos e l’imprevedibilità più totali. Il che ci insegna quanto sciocco e superficiale possa essere il cercar di ridurre imprevedibilità, creatività, spinta al dominio, libido, ad aride rappresentazioni statistico-matematiche. L’uomo è spinta, spinta irrazionale alla conoscenza  ed al dominio di quell’essere che lo circonda e da cui, costantemente, è attratto. L’arido e degenerato materialismo che oggi cerca di soffocare la vera essenza dell’uomo, riducendola ad un fattore di pura contabilità pubblicitaria, va man mano infrangendosi sulle proprie contraddizioni, lasciando nuovamente intravvedere l’inquietante scenario di un individuo mosso da un’autentica ed imprevedibile spinta vitale. Tutto ciò non deve però comportare il ripudio della scienza “si et si”, o l’operare inutili e dannose discriminazioni tra scienze “buone” e “cattive”. Quanto per esempio accaduto in Italia durante il Fascismo, con l’interdizione da parte della filosofia neoidealistica gentiliana nei riguardi della psicologia e della psicanalisi, ha rappresentato un imperdonabile errore di impostazione, (una posizione questa, si badi bene, perseguita a livello puramente accademico visto che, nella prassi politica, nelle metodologie usate per legare a sé indissolubilmente le masse, Fascismo prima e Nazionalsocialismo poi, finiranno con il divenire tra i più perfetti e raffinati esempi di realizzazione sul campo degli studi sulla psiche e sull’inconscio sino ad allora compiuti !). Il mondo accademico di allora non fu in grado di comprendere la reale natura della scienza che, se interpretata nella propria originaria valenza di “technè”, rappresenta la possibilità della realizzazione di un’infinità di scopi,  andando così ad incarnare quella volontà di potenza, che trova la propria più pregnante espressione nel mito prometeico che, dell’Occidente europeo rappresenta l’unica e vera anima “tradizionale”. In un ambito caratterizzato da un continuo confronto tra posizioni e realtà differenti, sarà necessario allora operare una vera e propria operazione di “riconversione” della scienza, andando proprio ad invertire i termini della questione da Noam Chomshy posta, passando dal primato del know how-conoscer come, a quello del know that-conoscer cosa, in grado di garantire il primato di un sapere universale, profondo, su un arido sapere di marca tecnicista, di marca americanizzante totalmente sottomesso ai dettami dell’economicismo.                                                                                                          

 

La psicanalisi: tematiche e problemi.

 

La psicanalisi è uno di quegli argomenti che, qualora si trovi ad essere trattato, provoca due tipi di reazione estreme ed antitetiche. Da una parte sta chi, della psicanalisi ha fatto un vero e proprio oggetto di culto dotato di quell’aureola di sacralità ed intangibilità, che ne sancisce l’indiscutibile bontà. Dall’altra sta chi, al solo sentir parlare di quest’argomento carica a testa bassa, vedendo in questa scienza il realizzarsi di tutto ciò che di negativo o di sovvertitore vi possa essere. Due punti di vista questi, che non ci hanno sinora permesso di svolgere un'analisi serena e distaccata su un argomento la cui complessità e le cui implicazioni sono ben lungi dall’esser stae sinora comprese. Ma cerchiamo di procedere per ordine. Psicanalisi significa anzitutto Freud ed è con la sua persona che, dunque, bisogna fare i conti.Sigmund Freud nasce il 6 maggio 1856 a Freiberg, in Moravia, da una famiglia di commercianti ebrei. Ancora giovanissimo si trasferisce con tutta la famiglia in quella Vienna, capitale dell’oramai decadente Impero Austro-Ungarico, ed il cui clima culturale influenzerà non poco le scelte del giovane e curioso medico, specialista in malattie nervose. Nelle sue lunghe peregrinazioni intellettuali, Freud subirà le più svariate influenze: dalla religione ebraica, verso cui manterrà l’ambivalente atteggiamento di ateo professo, affascinato dalle letture cabalistiche, perfettamente inserito nella propria comunità d’appartenenza, alla lettura dei saggi liberali di Stuart Mill, sino alla lettura del Platone di Grot, un percorso questo, che andrà via via arricchendosi di nuovi e continui apporti. Il clima di fine Ottocento vede esplodere virulenta la polemica tra psicologi e filosofi che hanno nei neokantiani uno dei propri bastioni culturali all’interno delle varie università di lingua germanica. Freud non è nemmeno uno psicologo, ma comincia un progressivo lavoro di scavo all’interno della psiche umana, inizialmente volto a cercare la radice dei problemi neurologici, ma comincia, con l’osservazione e lo studio delle tecniche d’ipnosi e mesmerismo, ad affrontare l’approccio con la psiche umana sotto un profilo sino a quel momento inedito e non percorso: quello dell’inconscio. Non che all’epoca non se ne conoscesse l’esistenza, anzi. Ma a fare da padrona sino ad allora era stata quella psicologia scientifica che, come abbiamo già accennato, in pieno contrasto con la filosofia, cercava di dare un ordine sistematico e razionale a sé stessa. E’ con il neurofisiologo Fechner che si comincia a parlare di “altra scena”, intendendosi con questo termine quelle attività mentali inintenzionali, quelle interferenze psichiche non misurabili, che il grande scienziato definirà con l’espressione “l’altra scena”. Una “scena” che la psicologia ufficiale, tutta incentrata su un progetto di assoluto controllo dello psichico, ammanta di una valenza di totale marginalità, poiché per l’appunto estranea a tale progetto.Freud cerca invece di dare un senso a tutte quelle cadute di intenzionalità che costituiscono la base dell’inconscio, usando gli strumenti della scienza tradizionale. Ma ben presto questi si rivelano insufficienti e viene così inaugurato un nuovo approccio, una nuova metodica che costituiranno la base della psicanalisi. Gli strumenti di lettura da Freud adottati diverranno ben presto omogenei all’argomento trattato, lo psicanalista dovrà cercare di immedesimarsi con il paziente in un rapporto sempre più simbiotico. La ragione illuminista cercherà così di dare un senso a ciò che, apparentemente non ne ha. Un lavoro che parte dalla difficoltà di dover dare ordine ad un materiale senza né storia, né tempo, né conseguenzialità, quale quello rappresentato dall’inconscio, che Freud vede strettamente correlato alla sessualità che, in tal modo, acquista un ruolo precedentemente sconosciuto all’interno della cultura occidentale. Sino a quel momento, difatti, la sessualità era stata inquadrata in un’ottica esclusivamente incentrata sull’atto riproduttivo o, al massimo, allo studio delle perversioni sessuali. La svolta feudiana sta proprio nell’attribuire alla sessualità un ruolo fondante nel nostro agire, parlare, nell’elaborare pensieri e fantasie. Alla base di tutto questo sta il principio del “Lust” o “piacere” che a tutto sovrintende, a cui ben presto lascerà il posto quella “libido”, che tutto sembra animare e muovere. In questo contesto si muove l’analisi della sessualità del fanciullo, non più visto come innocente a cui solamente la pubertà porterà il dono della sessualità, bensì come fruitore di una propria particolare sessualità “pregenitale” a cui sovrintende quello che Freud definisce il complesso di Edipo, quell’odio-amore, attrazione-repulsione verso i genitori che caratterizza il fanciullo sin dalla più tenera età. Qualunque alterazione di questo iniziale stato di cose costituirà la premessa a quelle nevrosi ed a quelle patologie mentali generalmente non riportabili a fattori organici, (tra le quali l’isteria è la prima ad essere dal grande studioso essere esaminata) ed a cui Freud dedicherà i propri studi. La sessualità diverrà così l’elemento portante su cui impiantare la nuova scienza che avrà in Freud il proprio cantore e fondatore. Ma non si può capire l’importanza della psicanalisi se non se ne coglie il senso più profondo, che va ben oltre la rivalutazione della sessualità o l’inaugurazione di una nuova metodologia terapeutica che avrà in un rapporto compartecipato e quasi simbiotico tra analista ed analizzato. Questo senso ha nella frantumazione dell’Io il proprio motivo fondante. Un’Io non più unitario e razionale così come auspicato e concepito dalla scienza psicologica dominante, bensì un qualcosa frutto dell’affastellarsi di un insieme di elementi eterogenei,  fuori da qualsiasi controllo razionale, proprio perché rappresentanti di quel retaggio muto e senza causalità rappresentato dall’inconscio. Un altro colpo decisivo è così dato all’uomo cartesiano ed alle sue incrollabili certezze. La relazione tra uomo e realtà viene nuovamente messa in discussione dalla constatazione della non esistenza dell’Io o, quantomeno, della sua illusorietà. Paul Ricoeur affermerà, non a torto, che Freud può tranquillamente essere annoverato tra i cosiddetti “maestri del sospetto” Marx e Nietzsche, pensatori che, in un modo o nell’altro, mettono in crisi il pacioso e tranquillo razionalismo cartesiano. Quella che Freud intende operare nell’ambito della cultura occidentale è una vera e propria “sovversione del sapere”, (come da lui stesso definita) sicuramente in grado di ridefinire ed interpretare i rapporti dell’uomo con la storia, con l’arte, con la letteratura, la filosofia e la cultura in genere. Questa “sovversione” ha tra i propri motivi fondanti quel “disagio della civiltà”, che parte dalla considerazione della rinuncia dell’uomo all’espressione piena e libera delle proprie energie sessuali e libidiche, nel nome della convivenza all’interno di un contesto caratterizzato da una, sia pur necessaria, naturale coercizione sociale. Le energie sessuali represse vengono così impiegate e sublimate nelle più alte realizzazioni della civiltà umana. Ma tutto il sapere di Freud è venato da un oscuro pessimismo, riconfermato in tutta la sua potenza dal Primo Conflitto Mondiale. Il clima culturale di quegli anni è caratterizzato dal disfattismo che fa seguito alla caduta degli Imperi Centrali, e che trova nel pessimismo letterario e filosofico dello Spengler de “Il tramonto dell’Occidente”, uno tra i più rappresentativi cantori. Freud per suo conto, può essere annoverato tra i teorici di tradizione hobbesiana e borghese, affermatori della natura negativa dell’animo umano. La pessimistica concezione di Freud, che vede nella “societas” umana un qualcosa di per sé repressivo, finisce con l’arrivare alla conclusione che all’interno di quella stessa società si configura quel perenne contrasto tra spirito di congiunzione e di disgiunzione, che si traduce nel dualistico contrasto Eros -Thanatos/ Amore-Morte, che rappresenta il funzionamento dell’animo umano, la cui  modellizzazione, tramite la definizione e la descrizione dei meccanismi preposti al suo funzionamento, rappresenterà uno dei grandi scopi di Freud.Ma con lo scritto “Al di là del principio di piacere” si manifesta il grande limite di Freud. Il sovvertitore del sapere, l’ateo incallito, il fondatore di una nuova scienza, sbatte clamorosamente contro un qualcosa che egli credeva di aver definitivamente sconfitto con la propria illuministica sicumera: la metafisica. Di fronte al concetto di Thanatos\Morte il Nostro entra in crisi non riuscendo a giustificarne la portata e la collocazione. Non solo. Il libricino tratta della creazione, ovvero del momento in cui un “qualcosa” di indefinibile dette la spinta al determinarsi della vita sul nostro mondo. Quel “qualcosa” rappresenta la porta contro cui Freud sbatte clamorosamente il naso, dimostrando tutti i limiti di un sapere che, nelle intenzioni del fondatore avrebbe dovuto dare una risposta ad ogni cosa, assumendo così una connotazione universale e totalizzante. La stessa contraddizione si ripeterà per quanto riguarda l’organizzazione del movimento psicanalitico. Il desiderio di un sapere “sovversivo” e per ciò stesso non organizzabile in una troppo rigida struttura si scontra con l’esigenza di preservare la purezza della propria dottrina di cui, Freud stesso si farà intransigente e dogma tico custode. La nascita della Società di Psicanalisi negli anni tra il 1908 ed il 1910, sempre più evidenzierà la caratteristica di intransigente settarismo di cui Freud ed i suoi più stretti collaboratori si faranno portatori, colpendo con una serie di interdizioni ed espulsioni tutti coloro che da Jung in poi non si atterranno ai dettami prestabiliti della dottrina. Strano a dirsi, ma Freud sarà il primo tra coloro che useranno il criterio di additare come malato psichico chiunque ne contraddicesse la teoria, precorrendo la triste usanza di invalidare i propri avversari patologizzandone le enunciazioni. Comunque al di là di quelli che del fondatore sono i logici ed umani limiti, la psicanalisi continuerà il proprio tort cammino, intersecandosi e scontrandosi con tutte le tematiche del Novecento, scindendosi e ricomponendosi in un continuo difficilmente seguibile. Dalla prima psicanalisi freudiana si staccheranno in breve tempo teorici come Jung, Adler, Reich, molto spesso con opposte motivazioni. Tutti comunque accomunati dal desiderio di spostare il piano d’intervento da un ambito prettamente individuale ad un ambito meramente sociale (Adler e Reich) o più generalmente collettivo (Jung). In Adler ed in Reich, politicamente impegnati a Sinistra, forte è il desiderio di trasformare la psicanalisi in uno strumento terapeutico al servizio delle masse, dando a quest’ultima la valenza di una terapia finalizzata all’igiene sociale e per ciò stessa finita (Adler), contraddicendo in questo il grande maestro, portatore dell’idea di una terapia infinita, connaturata all’idea di anormalità insita in ogni individuo. Non solo, la sessualità alla base di ogni pulsione, in Adler viene sostituita con l’aggressività. In Reich la critica a Freud si esprime nell’accusa di essere la psicanalisi al servizio della repressione sessuofobica che caratterizza la società, favorita dal suo elitaristico pessimismo borghese. Reich è portatore dell’idea che le energie sessuali che la società capitalista reprime, debbano esser liberate, parlando di “miseria sessuale delle masse”. Jung, infine, si fa portatore dell’idea che a sovrintendere alle produzioni della mente non sia l’inconscio ma l’archetipo, facendo di quest’ultimo un semplice contenitore di pulsioni ed istinti alla base dei quali c’è una dimensione aprioristica, contornata da una pulsione vitale che sostituisce quella, a dir di Jung, troppo limitativa della sessualità. Appena nata dunque, la psicanalisi si scinde, immedesimandosi nei grandi movimenti della storia; dalla Sinistra socialdemocratica (Adler), all’anarchismo ed al freudo-marxismo (Reich), alle correnti vitaliste, irrazionaliste ed idealiste presenti nel nazional socialismo (Jung). La Sinistra psicanalitica rappresenterà, specialmente con le elaborazioni di Reich, la base per le successive elaborazioni di Marcuse. Non solo. Anche in questo contesto si ripropone in modo più complesso, il contrasto tra innatismo (Jung) ed acquisizionismo (Freud) presente in altre branche del sapere. Lo sviluppo della psicanalisi porta con sé il retaggio di un’inscindibile eredità genetica che condiziona l’individuo che, all’interno della propria psiche ripercorre le tappe dell’evoluzione (Ferenczi). La realtà dell’immigrazione negli States di tanti studiosi dalla Germania degli anni’ 30, favorisce da una parte la nascita di una psicanalisi sottomessa ad una logica mercantilizzata, funzionale alla cura di singoli malesseri e poco attenta all’interpretazione della realtà. Dall’altra il contatto con la realtà USA dei vari studiosi della scuola di Francoforte da Adorno ad Horkeimer, da Fromm a Marcuse, porta allo stemperamento delle iniziali posizioni marxiste per arrivare all’idea di una psicanalisi volta a studiare ed analizzare la personalità autoritaria, al fine di realizzare la tanto auspicata liberazione dell’individuo. Da Anna Freud ad Heinz Hartmann, la psicanalisi sposterà sempre più la propria attenzione alla tematica dell’Io e successivamente del Sé, privilegiando sempre più la sfera dei rapporti tra l’Io e la realtà esterna che non le tematiche interne alla psiche stessa. Con Melanie Klein si avrà un ribaltamento di questa prospettiva che verrà tutta riportata allo sguardo su di un’interiorità tutta incentrata su sé stessa e su quel patrimonio di fantasie inconscie, quelle “Uhrfantasien” filogeneticamente trasmesse e che in Freud costituivano uno schema inerte, e che per la Klein finiscono con il divenire un elemento fondamentale in grado di influenzare il soggetto in tal modo da deformarne la visione della realtà. Questa visione fa sì che si ritorni ad un Io tutto introiettato in sé stesso, in cui la realtà esterna e le sue manifestazioni altri non finiscono che essere impressioni in grado di confermare o negare vissuti anteriori. Continuando nel suo continuo intersecarsi con le realtà culturali del momento, la psicanalisi non poteva non incontrarsi con lo strutturalismo di Lacan, finendo con l’essere tutta incentrata sul linguaggio e sulle sue valenze di struttura ordinativa delle cose (e della psiche, naturalmente!). Studiosi come Mattè Blanco e Bion usano lo studio della schizofrenia come paradigma per definire un nuovo rapporto con la realtà, ed al pari di Franco Fornari, pensano che i meccanismi dell’inconscio vadano letti in base a criteri aprioristici. Blanco, in particolare, vede l’inconscio come luogo della verità, in grado di cogliere la duplicità della natura umana, la permanenza dell’Essere e la coesistenza dei contrari, mentre alla coscienza avrebbe il ruolo di percepire il Divenire e quindi la fallacità delle opinioni. Blanco si fa in tal modo riattivatore di una filosofia eleatica, parmenidea tutta volta ad affermare la permanenza dell’Essere al di là dell’illusione della molteplicità e del mutamento. Queste considerazioni Blanco le ricava dall’osservazione della coscienza degli schizofrenici, che percepiscono la realtà come indivisibile ed eterna, guadagnandosi in tal modo il rimprovero di E. Severino di aver desunto una concezione dell’Essere da un’esperienza conoscitiva di tipo clinico e perciò stesso, provvisoria e facilmente contraddicibile. Come si può vedere, la psicanalisi finisce con l’interagire con una tale quantità di tematiche ed impostazioni di pensiero differenti, da non poter essere sottoposta a quanto mai sommari e superficiali giudizi di massima. Ciò nonostante è necessario tirare alcune conclusioni che siano, quanto meno, in grado di chiarire alcuni lati di questa complessa tematica. Che la sessualità sia una fonte di energia vitale non doveva venircelo a dire Freud, visto che tutte le religioni precedenti al monoteismo ne fanno un vero e proprio oggetto di culto. Solamente con l’avvento della cultura giudeo-cristiana, il tema della sessualità prenderà una connotazione sempre più ambigua e peccaminosa. La sessualità è di per sé importante, ma non può esser considerata l’unica matrice della vita; piuttosto essa va inquadrata in quella concezione vitalistica che sorregge per esempio la concezione di Jung.Né tantomeno si può pensare di ricondurre qualunque manifestazione della nostra psiche a vissuti infantili di tipo sessuale, perché in tal modo si viene a cadere in una concezione riduttiva ed alquanto ridicola dell’uomo e della vita in genere, la cui complessità è molto maggiore di quanto si potrebbe pensare.Freud, al pari di studiosi come Marx e Darwin, parte da considerazioni e scoperte esatte per arrivare a conclusioni quanto mai affrettate. Il sistema di sapere freudiano si autocontraddice in svariati punti: dal rapporto con la metafisica all’ambiguità di una terapia infinita, (i cui risultati non sono dati per certi, anzi), dalla connotazione di “sapere sovversivo” (e per ciò stesso svincolato da qualunque sovrastruttura) all’organizzazione settaria ed intransigente di tale forma di sapere, dalla collocazione di sapere terapeutico a quella di sapere ordinativo della realtà. Ciò non toglie che dall’impostazione psicanalitica si possano cogliere degli interessanti spunti di riflessione: dall’analisi degli archetipi junghiani al retaggio genetico di alcune specificità caratteriali studiate da Ferenczi, Melanie Klein ed altri, sino alle più recenti connessioni con la linguistica di Lacan o gli approfondimenti su una più estesa concezione dell’Essere (così come elaborato da Blanco, Fornari ed altri), sino alla terapia transferale in grado di legare l’analizzato all’analista in un rapporto di forte simbiosi affettiva, la psicanalisi si fa chiave di interpretazione e strumento di manipolazione della realtà, come nel caso dei grandi Totalitarismi del Novecento. Al pari della Psicologia, l’Italia fascista e  la Germania nazista esercitarono una sorte di “damnatio” nei riguardi della psicanalisi, salvo applicarne al meglio le più immediate applicazioni in quel rapporto con le masse, all’insegna di quell’innamoramento che tanto ci richiama alle situazioni transferali. Logicamente l’impostazione settaria e dogmatica di cui il movimento psicanalitico si fece latore non poteva che contrastare con l’impostazione assoluta di Fascismo, Nazionalsocialismo e dello stesso Bolscevismo, rendendo i suoi maggiori esponenti il logico obiettivo di demonizzazioni di vario genere e tipo, ad eccezione di Jung, la cui scuola rappresentava una sintesi delle correnti  di pensiero alla cui fonte si alimentavano i primi due Totalitarismi. Ed ecco allora che l’inconscio, si rivela quell’oscura dimensione, quel pozzo senza fondo in grado riconnetterci a retaggi senza tempo ed a rammentarci l’infinità di aspetti e di possibilità di un pensiero umano, così elevato al rango di vero e proprio microcosmo. Il tutto alla faccia di sin troppo facili e categorici riduzionismi di facciata.

Jung lo scorretto

 

Nella grande tradizione del pensiero psicanalitico, e di quello scientifico in generale, C.G.Jung rappresenta una vistosa eccezione, in quanto promotore di un’impostazione di pensiero vistosamente deviante da quella meccanicistica ed illuministica in cui, a pieno titolo, si inserisce la grande rivalutazione freudiana dell’inconscio. Rivalutazione e non scoperta, visto che del concetto di inconscio come silenziosa presenza interna allo spirito della natura ed all’uomo, si trova già traccia in Schilling, Von Hartmann e negli studi del grande neurofisiologo Fechner, che lo definì come “altra scena”, vero e proprio affestellato e congerie di materiale psichico inclassificabile e perciò stesso “silente”, ovvero non comunicabile. Il grande lavoro classificatorio di tale materiale, da Freud portato avanti, assieme all’idea di una totale dipendenza della personalità umana da quest’ultimo, capovologono il tranquillizzante e monistico concetto di Io, portato avanti da Cartesio in poi, per farne un qualcosa di totalmente scisso in mille rivoli tutti animati da un unico motivo: quell’energia libidica la cui unica fonte va, secondo Freud, ravvisata nella sessualità.

Quando nel 1906 aderisce alla psicanalisi assieme, tra gli altri, al direttore della prestigiosa clinica psichiatrica Burgholzli, Bleuler, e ad un pugno di collaboratori, il giovane psichiatra Jung risente di una impostazione culturale talmente differente da quella di Freud da far durare assai poco il sodalizio con quest’ultimo. A motivo della prima clamorosa rottura la ridefinizione del concetto di “libido” non più, a detta di Jung, dipendente unicamente dalle pulsioni sessuali della prima infanzia, bensì da quella “spinta vitale”, che tanto ricorda l’ “elan vital” di bergsoniana memoria e che ci riporta a quella “Naturphilosophie” o “Filosofia della Natura” che univa alla ricerca scientifica un principio primo di natura metafisica, intuibile solo da alcuni particolari individui. Non solo. La ricerca junghiana va sempre più accentuandosi sulla matrice di quei motivi che più comunemente ricorrono nell’inconscio, riportandoli ad una causa ereditaria fortemente condizionata dall’appartenenza ad un determinato gruppo etnico. Questa posizione ci riporta ad E.Haeckel ed alle sue ricerche sull’evoluzionismo, precorritrici delle scoperte darwiniane, e tutte miranti a dimostrare che l’evoluzione individuale (ontogenesi) ricapitola l’evoluzione della specie (filogenesi), portandoci diritto diritto all’ereditarietà di determinate attitudini individuali. La stessa filosofia va riscoprendo il valore delle categorie e dei simboli partendo dalle basi razionali del neokantismo, grazie ad un uso di questi in senso sempre più intuitivo e pessimistico finendo con l’unire le ricerche di Cassirer, Dilthey, Simmel, Spengler, con l’irrazionalismo intuitivo dei vari Nietzsche, Bergson, Husserl ed Heidegger in una miscela esplosiva. Tali ricerche finiranno in tal modo con l’avvalorare quello spirito “volkish” volto a rivalutare le radici indoeuropee della cultura germanica, partendo dalla riscoperta degli studi classici da Winkelmann a Nietzsche, sino ad arrivare ad una vera e propria esaltazione dell’antica religione germanica e della sua simbologia runica, passando attraverso una serie di studi comparati sulle comuni radici indoeuropee delle culture iranica (con il culto del dio Mitra), Indù, Buddista e di altri popoli ancora, che trovano in Bopp, Grimm, Von Humboldt, Creuzer ed altri eminenti studiosi dei veri e propri portabandiera per la rinascita di quello spirito pangeramanico che prenderà corpo nella nascita di una miriade di associazioni culturali e gruppuscoli a tale scopo indirizzati. Tra questi, i gruppi di Diederichs, di Keyserling e la “confraternita di Thule”, saranno quelli in grado di esercitare la propria influenza su larghi settori della società germanica, accogliendo le più disparate adesioni (lo stesso Haeckel aderirà alla “Confraternita di Thule” in tarda età, mentre Jung assisterà a non poche conferenze organizzate dal circolo di Keyserling) e preparando il clima culturale all’avvento del nazionalsocialismo. Jung parte da queste premesse per dar vita al concetto di “incoscio collettivo”, la cui più evidente espressione sono quegli archetipi che nel ruolo di veri e propri simboli universali, interagiscono direttamente con la psiche umana, determinando nevrosi e disturbi, se non perfettamente armonizzati e sincronizzati con l’Io. In caso contrario si avrà una perfetta comunione con la dimensione soprannaturale, attraverso quel processo di “individuazione”, rappresentante quella perfetta intesa tra l’Ego e la dimensione archetipica. Compito dello psicanalista junghiano sarà quindi, quello di saper cogliere quei motivi archetipici che più frequentemente si presentino, per interpretarli ed adattarli al caso in questione. Se il grande merito di Jung sta nell’aver rifondato un fondamentale settore della scienza in senso platonico, tramite il concetto di archetipo, rimane però una perplessità di fondo su quello che di tale pensiero è stato il percorso, per così dire “istituzionale”. Sembra difatti che Jung abbia voluto fare delle proprie interessantissime ricerche la base per la fondazione di una vera e propria religione personale, organizzando attorno a sé un vero e proprio movimento imperniato sul carisma della sua figura e della sua più ristretta cerchia di discepoli psicanalisti. Una vera e propria setta che spianerà la strada alla nascita di tutte quelle psico-sette o gruppi similari (New Age, neopagani, etc.), molto spesso imperniate sul carisma di un profeta o di un gruppo, le cui terapie o soluzioni “miracolose” vengono profumatamente pagate da ingenui sodali. Il tutto ci lascia con il dubbio dell’immagine di una figura in bilico tra un sapere dirompente ed innovatore ed il suo ben più trista circoscriversi a manifestazione settaria.

I simboli e le trasformazioni della libido in Jung

 

Un fondamentale capitolo nella comprensione dei meandri dell’animo umano e della loro intima connessione con i motivi religiosi e mitologici che attraversano l’intera storia della civiltà umana, è data da questo testo, scritto nel 1912 da uno Jung ancora intriso di un freudismo, da cui andrà risolutamente a staccarsi proprio in questo scritto. L’intero scritto segue pedissequamente la narrazione onirica di Miss Miller, giovane viaggiatrice americana che, durante una sua lunga crociera sui mari del Mediterraneo annota scrupolosamente impressioni, sogni, visioni, offrendo così a Jung lo spunto per un’analisi che, ben oltre l’intento prettamente terapeutico, porta lo studioso svizzero a conclusioni di ben altra portata. La trattazione parte dalla considerazione dell’esistenza di due tipi di pensiero: quello onirico e quello regolato, di cui il primo, chiaramente riferito al sogno rappresenta il terreno di coltura di quei simboli che, del pensiero umano, rappresentano un fondamentale crocevia, in quanto potenti elementi di sintesi di concetti ed immagini altrimenti non esprimibili. Quello regolato rappresenta, invece, quel pensare verbale che, in quanto tale, è frutto del razionale coordinamento di concetti. L’uno rappresenta un modo arcaico ed infantile di porsi dell’uomo dinnanzi al mondo, l’altro ne è invece il più recente e sofisticato prodotto elaborativo. Allo stesso modo in cui il mondo antico visse per lo più all’insegna del pensiero onirico, il mondo moderno vive quasi esclusivamente delle percezioni del secondo. E da qui entra in gioco il concetto di “libido”, inizialmente interpretato da Freud e da altri autori in un’accezione esclusivamente sessuale, ma la cui connotazione rimane, agli occhi dello stesso Freud, oscura. La libido muove la vita dell’uomo, arrivando a condizionarne il pensiero. Il pensiero frutto di razionale coordinamento di concetti è “in progressione”, quello frutto di una percezione simbolica e sognante è definito “regressivo”. E da queste considerazioni iniziali si giunge ad una serie di fondamentali conclusioni. Se il pensiero onirico è “regressivo”, il sogno è dunque un ritorno all’infanzia ed in tale accezioni i miti vanno considerati come i sogni secolari di una giovane umanità ed i sogni come i miti dell’individuo. Poiché la fantasia sceglie immagini una volta valide e reali, i prodotti dell’inconscio possiedono un’intrinseca comunanza con il mito. Il mito a sua volta perpetua idee dell’umanità attraverso cui le fantasie coscienti esprimono quelle tendenze dell’anima oggidì non più riconosciute. Il mito diviene così lo strumento di elaborazione dei complessi psicologici (etnici) che caratterizzano i vari popoli. In quanto alla base dei momenti e delle tendenze che caratterizzano il pensiero, la libido è soggetta da parte di Jung ad una interpretazione in totale contrasto con quella che, sino ad allora, le era stata attribuita. Da un’interpretazione puramente “descrittiva”, frutto dell’idea che quello di libido sia un concetto frutto dell’assemblamento di svariati elementi (tra cui quello sessuale), si passa all’opinione che la libido sia invece qualcosa di connaturato all’intima natura dell’uomo e per ciò stesso “genetico”. Tale forza la cui valenza è inizialmente circoscritta all’ambito dei bisogni primari della specie (quello alimentare e quello sessuale), va spostando il proprio raggio d’azione ad altri ambiti a causa del divieto d’incesto, ovvero di attaccamento alla protettiva dimensione dell’indistinto collettivo, rappresentato dall’elemento materno. Tale divieto fa sì che energie altrimenti utilizzate, vengano canalizzate nell’edificazione di tutte quelle espressioni di arte e di pensiero alla base dell’umana civiltà. Nello scorrere della stessa narrazione junghiana, la libido andrà perdendo quelle caratteristiche marcatamente sessuali, per addivenire a quell’idea di “elain vital”/”soffio vitale” tanto cara ai pensatori vitalisti  “fin de siecle”. Il procedimento attraverso cui si esperisce a questa definitiva e traumatica rottura con il materialismo freudiano, è frutto di una serie di tappe che vedono il formarsi della coscienza, attraverso un costante moto di emancipazione dell’umana individualità dalla onnicomprensiva dimensione materna, resa in questo ambito una metafora della dimensione dell’indistinto collettivo. Nella descrizione di questo processo, Jung si avvale del mito, sia esso frutto delle proiezioni individuali di Miss Miller, che delle espressioni delle culture dei vari popoli. E così le vicende di Chiwantopel (eroe sognato dalla Miller, il cui nome e le cui vicende ci riportano all’alveo culturale mesoamericano), si vanno via via intersecando con le mille vicende mitiche di cui Jung rende edotto il lettore e che qui subiscono un’innovativa interpretazione. Nello sfregamento per l’accensione del fuoco si vede così innestato un procedimento di natura libidica, onanistica, che inizia con lo spostare l’accento da una finalità puramente sessuale ad un’altra più ampia e creativa. Ed ecco che, in soccorso del lettore vengono tutte quelle vicende mitiche incentrate sul fuoco ed il suo mantenimento, da Prometeo, a Mitra, passando per la stessa vicenda cristiana. Il sorgere del primo nucleo della coscienza all’insegna dell’irresolvibile dualismo tra la parte mortale e quella immortale di quest’ultima, in una perenne ricerca dell’immortalità, offre il fianco alla leggendaria immagine di Assuero, l’ebreo errante, omologa a quella dell’arabo Al Hadir, a quella del mesopotamico Gilgames, spesso accompagnate da immortali guide o, esse stesse immortali (come nel caso di Assuero ed Al Hadir) sino arrivare ai gemelli Dioscuri o agli Ashvim di area indo iranica ed altri ancora. Il processo di graduale emancipazione della personalità umana è segnato da momenti di ascesa e discesa, da cui la personalità uscirà sicuramente rafforzata. L’inghiottimento nel ventre della balena, caro ad un’infinità di miti, al pari delle vicende legate al carro solare, nel suo continuo cadere e risorgere dalla profondità delle acque dell’Oceano, sono in tal senso indicative. Lo stesso combattimento contro il drago, sia esso Echidna e Tifone, o la mesopotamica Tiamat, o la lotta di Sigfrido contro Fafner ed altri ancora, ci riportano all’idea della lotta per l’affermazione dell’individualità. Al termine di questo percorso sta il sacrificio dell’io, fondamentale per il passaggio dall’incosciente età dell’infanzia, alla più completa età della maturazione, al cui apice dovrebbe stare l’individuazione. La morte e risurrezione dell’egizio Osiride, del tracio-ellenico Zagreo, l’impiccagione rituale del nordico Odino all’albero della vita, la crocifissione di Cristo, il sacrificio tauroctono di Mitra, la morte del frigio Attis e tanti altri ancora, ci riportano a questo motivo, ulteriormente supportato, per quanto riguarda Osiride, Attis, Odino e Cristo, dalla presenza di un albero-palo, simbolo di ordine e fecondità universali, a cui questi ultimi vengono appesi o a cui vengono associati o immedesimati, come nel caso di Osiride e di Attis. Se la lettura junghiana fa sì che ogni episodio mitico possa rivestire più valenze allo stesso tempo, offrendo in tal modo un’innovativa interpretazione della mitologia, il vero rivolgimento operato dallo studioso svizzero sta nell’interpretazione della libido e di tutti i fenomeni ad essa correlati, quale l’incesto che, in questo ambito abbiamo già visto acquisire la funzione di metafora dell’umano attaccamento a quel senso di primordiale immedesimazione con la con la specie e con l’intera biomassa in generale. La traumatica rottura con Freud determinerà, in tal modo, la nascita di una psicologia delle razze e dei popoli, tutta incentrata sulle immagini collettive di cui questi si fanno portatori, attraverso le grandi narrazioni mitopoietiche, i cosiddetti archetipi. Ben lungi dal rimanere confinata nell’arido campo delle scienze esatte, la psicologia analitica junghiana, attraverso i continui studi del proprio fondatore, rappresenterà il tentativo di fare della dimensione dell’inconscio l’inusuale vaso comunicante tra la quotidiana dimensione dell’umano e l’eterea sfera del sovrannaturale.

Attualità del mito in Jung e Kerenyi
 
Chissà quante volte ci sarà capitato di udire la solita monotematica lagna su quanto la religiosità precedente a quella cristiana fosse infantile, su quanto ingenue fossero le convinzioni che ne animavano l’essenza, da quale assurda crudeltà ed insensibilità fosse mossa, tanto da far dire che il mondo prima del cristianesimo era immerso nel più totale peccato e nella più completa perdizione, senza la possibilità di alcuna via d’uscita. Andando però a leggere certi studi, ci si convince della superficialità e dell’inanità di certe opinioni, mosse unicamente da uno stupido risentimento. E’ quanto vi potrebbe accadere alla lettura di un libro come “Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia” uno scritto a due mani datato 1943, di K.Kerenyi (studioso ungherese specialista in mitogia) e C.G. Jung (psicanalista e fondatore di una scuola di pensiero totalmente contrapposta a quella di Freud). Qui il problema del mito viene passato in rassegna secondo due ottiche differenti, che però finiscono con il coincidere nelle conclusioni. La prima delle due ottiche, rappresentata dagli scritti di Kerenyi, cerca di sgomberare gli equivoci sulla natura del mito che, generalmente partendo da un’interpretazione di quest’ultimo in una chiave esclusivamente naturalistica, ne riduce di non poco la portata che, a detta dello stesso autore, non è riconducibile a questa o a quella causa, bensì al fatto che il mito, al pari della musica, della pittura, della matematica o della scultura è una disciplina a sé stante e come tale va trattata anche nell’interpretazione. Quest’ultima può venire, questo sì, arricchita da apporti esterni, quali l’osservazione delle forze naturali, ma assolutamente non dipenderne ciecamente. A questo punto interviene il contributo di Jung, proteso a dimostrare la stretta connessione tra mito e coscienza attraverso il concetto di archetipo. Quest’ultimo è la personificazione di quegli oscuri motivi che sono alla base della visione del mondo che muove l’essere umano come individuo, gruppo etnico, razza, specie vivente. Se il mito assume in Kerenyi una valenza “sub specie aeternitatis”, in Jung esso diviene l’occasione per rivelare i più profondi recessi della psiche umana, arrivando a farsi metafora delle varie tipologie comportamentali umane. Il percorso junghiano inizialmente si intreccia con quello di Kerenyi con il chiaro intento di svolgere un lavoro tutto all’interno ed in funzione della cura e dell’analisi della psiche umana, ma finisce inevitabilmente con l’agganciarsi ad una più vasta visione del mondo. L’osservazione delle varie mitologie considerate nel testo, (da quella classica greca a quella indù, sino ad arrivare a motivi uralo-altaici) ci riporta all’idea di una serie di motivi che tornano a ripetersi costantemente nelle varie epoche ed in differenti contesti culturali. Così è nel caso del motivo del fanciullo divino, simbolo di uno stato appena precedente il sorgere completo della coscienza e ricorrente nelle figure di Eracle, Apollo, Dioniso, Zeus, tutte caratterizzate da travagliate e miracolose fanciullezze. Allo stesso modo il motivo delle fanciulle divine e delle loro incredibili vicende ci riporta alla complessa tematica dell’identificazione luna-madre-figlia, come nel caso del ratto di Persefone, consumato ai danni della madre Demetra, simboleggiata dalla spiga di grano e che, molto spesso si identifica in Hekate, primordiale dea lunare. Il periodico ritorno di Persefone dal regno infero in cui la giovanetta vive, ora sposa di Plutone, dio dell’Ade, ci rammenta la ciclicità dell’universo e delle sue stagioni, pur rimanendo un motivo a sé stante, addirittura riecheggiato nella vicenda della Kore indonesiana Hainuvele. La nascita di Afrodite dal mare, in seguito all’atroce evirazione di Urano ci riporta a quello stato di non coscienza dell’animo umano, rappresentato dalla distesa oceanica, la cui fuoruscita rappresenta la nascita della coscienza, senza la quale, a detta di Jung, non si ha il mondo. Nascita, vita, morte e risurrezione trovano il proprio completamento metaforico e rituale in quei misteri eleusini, il cui semplice adepto (o miste) prende coscienza del ciclo dell’universo e del suo perenne ripetersi, proprio attraverso la vicenda di Demetra e Persefone, che ha nella spiga recisa (simbolo di Demetra) la chiave d’interpretazione dell’intero ciclo dell’universo a cui il miste prende parte, preservando la propria anima dalla morte e dal confinamento nell’oscuro regno dell’Ade. E così dai motivi della religione pre-ellenica rappresentata dal primordiale serpente Uroboro e dalla Grande Madre Terra, passando attraverso le tormentose vicende dei fanciulli divini, adulti in nuce e quindi porte spalancate sulla visione e la comprensione del mondo, doni della coscienza, si arriva alla percezione del mito e dei suoi riti misterici, come qualcosa che unisce l’uomo e la sua psiche alla totalità dell’universo in un che di inscindibile e misterioso. Il mondo della religiosità pre cristiana, finisce in tal modo con l’acquisire un significato ben diverso dalle uscite superficiali di certi catechisti da strapazzo. Il Bambino Gesù viene ampiamente anticipato dalle vicende dei vari Eracle, Apollo, Dioniso e compagnia bella. Il mistero della Santissima Trinità è già avvertito nella triade tutta femminile Ecate-Demetra-Persefone. Il motivo della morte e risurrezione di Cristo ha conosciuto un antecedente nella vicenda del periodico discendere e ritornare dagli Inferi di Persefone. Le stesse figure degli Dei, con le loro marcate caratterizzazioni, ben lungi dall’essere grottesche macchiette, delineano precisi tipi psicologici, anticipando di non poco tutte quelle tematiche riguardanti la complessità della psiche umana, rimandando al mittente tutte le presuntuose affermazioni a proposito di una maggior complessità psicologica degli odierni occidentali, rispetto ad una supposta semplicioneria degli antichi. Tutto ciò sposta ben più indietro le lancette della ricerca di una piena coscienza-conoscenza del mondo, lasciando con un palmo di naso tutti coloro che vanno cianciando di una presunta “superiorità spirituale” dell’Occidente “giudeo-cristiano” sul resto del mondo.

 

Tra mitologia e psiche: E. Neumann

 

Con E.Neumann la psicologia analitica junghiana arriva al proprio grado di massima sintesi teorica. Accogliendo e recependo le primigenie intuizioni junghiane a proposito della funzione del mito e dell’archetipo, Neumann sviluppa in modo sicuramente più organico del proprio grande maestro e mentore, una vera e propria teoria sulla coscienza, le origini della quale trovano nello sviluppo della mitologia e della religiosità ellenico-mediterranea la metafora del proprio percorso ontogenetico. A capo di questo percorso il concetto, più volte ribadito dallo stesso autore nel corso della narrazione, su una diversa idea di quella “libido” che, inizialmente da Freud interpretata come elementare pulsione vitale, investita di una valenza unicamente sessuale, in base agli assunti junghiani, viene qui reinvestita di una più complessa funzione che fa della sessualità uno tra i tanti aspetti di quello spirito vitale, quell’ “elain vital” che di sé tutto permea ed informa. Dello sviluppo della coscienza Neumann fa un percorso che, come precedentemente accennato, essendo strettamente interrelato con la grandiosa vicenda della cosmogonia ellenica ne deve seguire pedissequamente le fasi a partire proprio da quell’iniziale fase di indistinzione che, nel primordiale simbolo dell’Uroboros o serpente avvolto su sé stesso, trova la propria massima espressione mitica. Qui tutto è immerso in uno stadio di amniotica beatitudine; il mare dell’indistinto tutto ricopre e comprende: i principi di opposizione che animano il mondo sono qui contemperati e composti in una realtà che nel Rebis androgino trova una delle proprie massime espressioni. Cielo e terra, uomo e donna, piacere e dolore, ira e calma, qui si assommano e convivono in quella forma ovoidale da Platone e da tante altre fonti decantata quale forma ideale dell’androgine primordiale. Quello stesso rotondo ritorna nella forma dell’Uroboros o “autogenerante”, l’antico drago cosmico egizio ritratto nell’atto di girare attorno a sé stesso nell’atto di mordersi la coda, ribadendo in tal modo la propria natura di essere che raccoglie in sé tutte le complementarietà. Egli divora sé stesso, feconda sé stesso, quale uomo e quale donna è anche attivo e passivo al contempo, assumendo in contemporaneo la posizione di “sopra” e di “sotto”, di “cielo” e di “terra”. Da Nippur a Babilonia, dalla Fenicia alle più tarde simbologie ellenistiche e gnostiche, dall’alchimia sino ad arrivare alla cultura dei nativi nord americani Navajo, l’Uroboros è lì a rammentarci lo stato di originaria congiunzione ed indistinzione che caratterizza l’intero essere prima dell’atto creativo.Tale rotonda perfezione ci rammenta lo stato di autosufficenza ed appagamento a cui tale stadio ci rimanda. L’ “Union mistique” si alimenta di sé stessa, autointroiettando ed autogenerando al medesimo tempo la propria sostanza. E’ la fase caratterizzata da una sessualità marcatamente onanistica, nella quale il divino autoemana da sé come ben rappresentato dalla vicenda egizia dei due fratelli divini Shu e Tefnut generati con un atto di questo tipo da Atum, divinità primordiale del complesso pantheon egizio. Il graduale e faticoso emergere della coscienza dallo stadio di primaria indistinzione è rappresentato dal rapporto tra un “io” appena abbozzato e la rappresentazione terrena del grande contenitore uroborico primordiale, costituito dall’immagine mitica della Grande Madre. Qui ad esser rappresentato è l’elemento femminino nella propria originaria valenza di simbolo di fecondità che, nel ruolo di inesauribile cornucopia garantisce il continuo rinnovarsi e manifestarsi della vita in tutte le sue molteplici espressioni. La Grande Madre è l’ipostasi di quella Madre Terra o Gea che regola e presiede allo stagionale alternarsi di tutte le primizie vegetali e animali; Dea che presiede alle attività agricole in genere, ha nel matriarcato la sua più coerente rappresentazione dal punto di vista degli ordinamenti umani, di cui rappresenta a detta dell’autore e di Bachofen (vedi “Il matriarcato”) l’ordinamento primigenio. Dispensatrice di protezione e primaria fonte di sostentamento per un io fanciullo appena fuoruscito dall’ovattata dimensione uroborica, essa è anche Madre crudele e terrifica; quale elemento da cui tutto incessantemente promana e ritorna, essa rappresenta la crudele necessità di un ordine naturale che, nel suo continuo rinnovarsi deve ciclicamente sacrificare le proprie primizie al fine di garantire la prosecuzione del ciclo della vita. A detta di Neumann l’area geografica in cui maggiormente si concentra tale fenomenologia spirituale è quella euro-mediterranea. Libia, Egitto, Creta, la Grecia micenea, la penisola anatolica, il Medio Oriente siriaco e fenicio, sono le aree maggiormente esaminate dalla ricerca di Neumann. Nei miti di quelle aree si può riscontrare proprio quanto poc’anzi detto: nell’immagine archetipica della grande Madre inizialmente protettrice tenera e affettuosa, con il graduale affermarsi dell’io, va via via comparendo una polarità di incestuosa sessualità accompagnata da una torva crudeltà. Lo Zeus fanciullo di Creta nasce e muore sacrificato ad ogni rinnovellarsi di stagione. Lo stesso fenomeno va ripetendosi per Orus, figlio di Osiride, per Giacinto, Erictonio, Dioniso, Melicerte, Attis ed Adone. Tutti questi giovani virgulti, da un’iniziale posizione di autocompiacimento dovuto alla scoperta del proprio stadio adolescenziale, o addirittura di quello precedente di infante, sono tutti accomunati dalla medesima sorte: quella di una morte rituale, spesso seguita dallo smembramento, grazie a cui l’intera natura beneficerà, rinascendo la stagione seguente. Molto spesso l’adolescente prima della morte, subisce un destino di evirazione, simboleggiante la mutilazione che alberi, messi e vegetazione in genere, subiscono con il periodico alternarsi di stagione. Alcune antiche figure di sacerdoti dell’area medio orientale ed ellenica rifacendosi a queste figure mitiche, procedevano alla propria castrazione, come nel caso degli adepti al culto di Attis o dei sacerdoti Galli. Molto spesso a tali riti si affiancava la prostituzione sacra esercitata dai “qedeshim” di sesso sia maschile che femminile. Qui la Grande Madre presiede e domina a quella natura le cui forze elementari travolgono e distruggono un individuo ancora troppo debole e poco centrato su di sé. La genealogia di Cadmo, il mitico fondatore di Tebe è, a tale scopo, esemplificativa. Le sue quattro figlie e la loro relativa progenie saranno tutte vittime di una natura le cui forze sfrenate fanno capo alla Grande Madre. Così Semele, madre di Dioniso, ucciso e smembrato dai Titani, Ino, madre di Melicerte, assieme a lei precipitato in mare, Agave, madre di Penteo, a sua volta squartato dalla madre in un accesso di follia orgiastica, Autonoe, madre del cacciatore Atteone morto atrocemente per aver visto Artemide (dea della caccia e della natura), condividono tutte uno stesso destino. Arriva però il momento in cui l’io riesce a conseguire una graduale affermazione su quelle forze dell’indistinto rappresentate dalla natura, che cercano in ogni modo di assorbirlo. E’ il momento in cui la coscienza inizia a separare cielo e terra, il mondo non è più solo l’indistinta e confusa rappresentazione di una natura primordiale, madre e paredra, protettrice ed omicida al tempo stesso. Ad affermarsi è ora un ordine che ruota attorno all’individuo, ora indomito protagonista di una vicenda che lo vedrà al centro di un’epica lotta con i propri arcaici e soffocanti genitori, ora assurti al ruolo di soffocanti patrigni. La lotta di Zeus contro Crono, le lotte di Jahvè, le fatiche di Eracle, le vicende di Teseo, Gilgames, Romolo, i percorsi interiori di Zoroastro, Buddha e Mosè, sono tutte altresì accomunate dalla lotta dell’io per la propria affermazione e liberazione. Inizialmente tale lotta avrà come protagonista un’individualità, la cui duplice valenza umana e divina sarà in grado di sostenere una lotta altrimenti impari. Castore e Polluce, i Dioscuri, di Romolo e Remo, Gilgames ed Enkidu, coppie di gemelli ed amici, sono lì a ricordarci una tendenza tutta inedita all’interno di questo percorso: quella alla graduale sostituzione del femminile predominante con l’elemento maschile che va oramai assurgendo al ruolo di sempre più incontrastato dominatore e creatore del mondo. Le vicende dei fratelli-gemelli, con l’uccisione di uno dei due protagonisti, vedono l’affermazione di quella parte dell’io maggiormente legata ad un divino sempre più maschile, come nel caso di Romolo figlio di Giove. Allo stesso modo Zeus detronizzando Crono, combattendo i Titani, afferma un nuovo ordine del divino mirante a guardare verso il cielo e non più verso la dimensione ctonia, oramai relegata ad un  ruolo subordinato. Gea, Poseidone, le Erinni, Artemide, Ecate, Plutone, debbono riconoscere il primato del cielo. Rama ed Oreste uccidono le rispettive madri per affermare un nuovo ordine ed una nuova giustizia; qualunque tentativio dell’arcaico ordine divino matriarcale volto a far giustizia di tali delitti, viene immediatamente frustrato. Oreste inseguito dalle Erinni, trova in suo soccorso Atena figlia di Zeus, divinità femminile, direttamente nata dalla testa di quest’ultimo e quindi perfetta compartecipe del nuovo ordine. Le lotte contro i vecchi dei al pari di quelle effettuate per liberare un territorio o una fanciulla da un drago, rappresentano le tappe dell’affermazione dell’io contro le forze di una “natura naturans” che, in tutti i modi, cerca di frenare tale processo di emancipazione. Ora invece l’eroe afferma la propria completa individualità unendosi con una figura femminile che, liberata dal drago dell’inconscio, esercita un ruolo di paredra e compartecipe della vita del proprio compagno all’insegna di una sessualità feconda, poiché finalmente intesa come scambio tra le opposte polarità maschio-femmina, in cui il mascjhile inizia ad assumere un ruolo protagonista. Inizialmente, la vita sociale degli umani vedeva l’elemento matriarcale relegare l’elemento maschile ad una funzione di supporto, attraverso la pratica della caccia, mentre all’elemento femminile spettava coordinare l’organizzazione e la redistribuzione di quel cibo che, frutto del lavoro dei campi, costituiva la primaria fonte di sostentamento di una comunità. Pian piano l’elemento maschile va prendendo coscienza della propria peculiarità. Attraverso la nascita di sette, gruppi e congreghe a carattere strettamente esoterico ed iniziatico, l’uomo va spostando la propria attenzione verso una dimensione divina siderea, con cui cercherà sempre più di intrattenere un rapporto di osmosi, sino a cercare una completa identificazione. Sempre più vanno allora prendendo piede le figure di sciamani o stregoni maschi, strettamente interconnessi al divino tramite il totem. Ponte tra il comune antenato divino di una comunità, il totem si erge diritto come il “ded” di Osiride, simbolo della sacralità della colonna vertebrale che erige la coscienza umana dalla dimensione puramente sensitiva della introiezione del cibo e di una genitalità puramente riproduttiva, alla dimensione privilegiata della vista che può spaziare nell’etere infinito ed  iniziare quel graduale cammino verso una visione più alta, più completa, più razionale, più luminosa della realtà. Osiride muore ucciso e smembrato da Seth, il malvagio, ma la sua sorella e sposa Iside ne ricostruisce con amorevole pazienza le “disiecta membra”. Osiride rinasce attorno a quel “ded”, quella sacra colonna che al pari dell’albero cosmico delle tradizioni germanica ed Indù, sta lì a ricordarci un ordine del mondo impostato su una virilità frutto di un percorso di nascita morte e risurrezione. Osiride e suo figlio Orus ben presto si identificheranno l’un nell’altro. Padre e figlio uniti in un legame simbiotico e divino sino ad identificarsi l’uno nell’altro, conosceranno fortune postume in molteplici vicende mitologiche ed in  altrettante importanti narrazioni teologiche, tra le quali la vicenda della risurrezione di Cristo, e del rapporto con il suo Dio-Padre, celeste creatore del mondo. E così la vicenda di una tra le più antiche tradizioni religiose dell’umanità, quella egizia, si fa archetipo fondante, nel ruolo di vero e proprio battistrada per il percorso dell’anima umana. Qui, in tempi immemorabili, e con anticipo rispetto all’intera storia della nostra civiltà, attraverso la vicenda divina di Osiride si realizza quell’ “individuazione” dallo Jung tanto auspicata. Le incontrollate energie istintuali dell’inconscio, simboleggiate dalle figure archetipiche vengono a creare un perfetto equilibrio con la coscienza, con quell’elemento che in noi guarda alla dimensione del cielo. Osiride è lì ritto nella sua immemorabile verticalità a ricordarci, quale “axis mundi” la via ad una sintesi perfetta. Nascita, morte e risurrezione, sofferenza e gioia, istinto e ragione, qui si amalgamano, si compenetrano per dare vita alla più bella ed alla più grandiosa di tutte le creazioni: quella rappresentata da un individuo in grado di costituire con il proprio perfetto equilibrio, un ponte proteso tra finito ed infinito. Lo sforzo di Neumann è coraggioso e degno di attenzione, ma ahimè, pecca di una certa utopistica confusione quando alla fine della propria narrazione auspica la fine delle differenze tra gli esseri umani, nelle proprie espressioni etniche, culturali, razziali. Altrettanto limitata l’affermazione secondo la quale oggidì l’unica tradizione in grado di realizzare quell’individuazione a Jung tanto cara (e di cui gli Egizi furono i primi iniziatori) sarebbe rappresentata unicamente dal sapere alchimistico, dalla Qabbalah e dallo hassidismo ebraico. Dalla splendida disamina di cui il Neumann ci ha appena fatto partecipi possiamo invece trarre ben altra e più profonda conclusione. Il genere umano nelle sue molteplici varianti etniche e culturali, è caratterizzato da una comunanza di immagini che sgorgano direttamente dall’istintuale dimensione dell’inconscio. Tali immagini confuse tendono a consolidarsi in veri e propri criteri-guida immaginativi: gli archetipi. Ogni cultura nella propria peculiarità, tende a dare maggiore o minor risalto a questo o quell’archetipo che a sua volta subendo un vero e proprio processo di astrazione dall’immagine primordiale si fa “idea”, “concetto”, razionalizzando, giustificando, motivando,quanto dall’archetipo rappresentato. La cultura umana si sviluppa quindi all’insegna della più totale differenza, pur partendo da comuni basi istintuali. E’ la differenza, dunque il sale del mondo che rende l’umanità, pur se caratterizzata da una comune eredità genetica, un meraviglioso e colorito caleidoscopio. 

E. Zolla il mistico

 

Tutte quelle giuste ed (ahimè) veritiere considerazioni sulla superficiale patina di materialità che oggi riveste la nostra società per intiero, relegando tutte quelle forme di pensiero ancora non intaccate da tale spirito ad un’esitenza grama e sommessa, sembrano essere contraddette invece dalla presenza di alcuni autori che, a dispetto dei tempi che viviamo, sembrano anzi costituire un esempio di vitale produzione letteraria, in grado di offrirci degli interessanti spunti di riflessione. Elemire Zolla è sicuramente uno tra questi. Ordinario alla Sapienza di Roma, morto nel 2002, è uno di quegli autori ancora in grado di esercitare nei propri scritti, quella particolare modalità espressiva del linguaggio, che potremmo schematicamente definire “analogica”. Lontano dal tono puramente didascalico e descrittivo che caratterizza la maggioranza degli studiosi, sembra muoversi con disinvoltura in un linguaggio fatto di continui rimandi, analogie, che vanno via via intersecandosi e congiungendosi nella descrizione di una verità una e molteplice, afferrabile ed inafferrabile al medesimo tempo. La descrizione della grandiosa trama dell’Essere di cui Zolla ci fa partecipi, lascia sgomenti e perplessi. Il continuo rimandare, trascina il lettore in un vorticoso turbinare di figure, di culture, di epoche, da cui si può districare solamente grazie all’enunciazione di una verità occulta e sottesa, di un “magnum misterium” il cui disvelamento, costituisce quel “satori”, quel momento illuminante, il cui punto d’arrivo è rappresentato da quell’afflato di estasi mistica allo Zolla tanto caro. “Discesa all’Ade e resurrezione” ricalca con fedeltà questo schema. Qui ad essere esaminato è il complesso rapporto che lega alcune tra le più importanti culture con il problema della morte e della risurrezione, in una continua ricerca che porta il lettore ad incontrare di ogni cosa il suo opposto: dell’essere il nulla, della morte la vita, della sofferenza la beatitudine, in una forma di masochistico piacere spinto sino all’estasi. L’uomo essere in perenne bilico tra la luce del divino e l’oscurità dell’aldilà, scopre nell’apparente ortodossia delle varie tradizioni religiose, dei veri e propri “punti di rottura”, in grado di proiettare l’individuo in quella dimensione del paradosso, attraverso la quale si perviene a quella subitanea forma di conoscenza che ne proietta le semplici ed umane fattezze dalla contingente dimensione di una limitata mortalità, a quella dell’immortalità che ne sancisce in tal modo la comunione con l’infinito. Veicolo principe in grado di congiungerci a tale dimensione è, a detta di Zolla, quella contraddizione che anima e scuote sin dal profondo i principali credi religiosi e tutte le grandi narrazioni mitopoietiche della storia umana. Così è con la dimensione dell’oltretomba, strettamente interrelata al mondo dei vivi sin dall’antichità classica, passando attraverso il cristianesimo. Quello stesso cristianesimo il cui messaggio di amore si interseca strettamente ad una intransigente concezione della diffusione della fede. Qui trasmutazione dei corpi e delle anime assumono una dimensione estatica, dai colori violenti ed appassionati, lì a ricordarci le estasi mistiche dei coribanti e dei cureti di ellenica memoria, invasati per Dioniso e per la guerra sino alla follia, al pari dei giovani guerrieri iranici, iniziati alla mistica della guerra dalle ierodule, le sacerdotesse dell’amore. Quella trasmutazione, figlia della contraddizione sembra essere appannaggio della tradizione taoista cinese, in cui il cuore dell’illuminato concilia in sé drago e tigre, cielo e terra, maschio e femmina, in una visione di rinnovata armonia del cosmo. L’ascesa della dinastia Zhou porterà alla creazione di nuovi dei in nome di un rinnovellato ordine cosmico. L’antica sapienza celtica avrà nelle vicende della tavola rotonda e di Merlino la riconferma della propria ambivalente natura di sintesi tra giustizia e violenza, tra ordine e caos, tra paganesimo e cristianesimo. La vicenda della magia in Grecia ed a Roma, getta un’ombra inquietante sull’intera vicenda occidentale, il cui raziocinio viene messo a dura prova dall’esistenza di un’altra cultura integralmente imperniata sulla possibilità di modificare la realtà, attraverso le oscure vie dell’estasi e dell’incantamento. Le stesse vicende della Gnosi vengono ricondotte a questa centrale esperienza estatica che sembra irrompere dai meandri di un’epoca in bilico tra la decadenza e l’esaltazione mistica, quale quella rappresentata dal tardo ellenismo. Sopra tutto il rinnovato fascino degli antichi archetipi egizi della Sfinge e di Iside. Ambedue posti a crocevia tra l’oscura dimensione della morte e le salvifiche sfere celesti, stanno lì a rammentarci la condizione umana. Per chiudere, la visione della scalinata di Persepoli, le cui ali aquiline sembrano esser pronte a spiccare il volo verso quel cielo infinito, di cui i re ed i Magi iranici furono i fedeli ed ossequiosi interpreti, nel nome di una sapienza che, senza tempo e senza età, sembra rinnovare il proprio fascino nell’animo intorpidito dell’uomo dell’età dei consumi.

Per una storia della Massoneria

Premessa

 

Massoneria. Un termine che evoca, in chi lo pronuncia, una molteplicità di sensazioni, tutte però accomunate da un unico ed onnipresente denominatore: il mistero, proprio perché si parla di un’ordine esoterico, ovverosia legato ad una modalità di rapportarsi con la realtà, legato all’idea di una conoscenza nascosta rivelata per simboli e per ciò stesso, comprensibile solamente a pochi eletti. Massoneria non costituisce solamente “un” ordine esoterico tra i tanti bensì, a detta di taluni, “l’ordine” esoterico par excellence, rappresentando “de facto” l’ultima parvenza ufficiale, in un’Occidente fondamentalmente scettico ed agnostico, di un sapere misterico tale da poter vantare una plurisecolare presenza sullo scenario occidentale. Massoneria evoca complotti, uomini incappucciati, servizi deviati e chissà quali altre oscure trame, ma anche interi pezzi di storia patria che videro le organizzazioni massoniche fornire un rilevante apporto ideologico, culturale ed alfine operativo alla realizzazione del disegno dell’Unità d’Italia. Massoneria è tutto questo, ma anche di più. Massoneria ci riporta ad una modalità d’agire antica quanto l’uomo stesso, ovverosia quella di legarsi in società segrete che prendevano le proprie mosse dall’esigenza di rapportarsi ad un totem protettore, ad un animale sacro che spesso richiamava alla mente degli adepti l’uccisione di un padre primordiale, al cui posto quest’ultimo veniva eretto, a monito e simbolo dei limiti all’azione degli appartenenti al clan comunitario. Freud a parte, la società segreta rappresenta l’esaltazione dell’idea di un’azione sottoposta a particolari vincoli ed obblighi, nel nome di un particolare status o appartenenza, generalmente inseriti in un più ampio contesto comunitario. Ci vengono alla mente le società segrete di adolescenti rinvenibili nei contesti tribali di mezzo mondo quale, per esempio, quella degli “uomini-coccodrillo” della Nuova Guinea, o di altre consimili nel continente africano, tutte caratterizzate dai cosiddetti “riti di passaggio” da un’età ad un’altra e di cui fanno parte anche le donne nel passaggio dalla pubertà all’età adulta. Queste società non svolgono solamente un’azione di definizione ed esaltazione di particolari ruoli comunitari legati al singolo momento della vita dell’individuo, bensì divengono un vero e proprio contenitore di conoscenze segrete destinate ai più virtuosi della comunità, inizialmente anziani e guerrieri, ma in seguito (e qui risiede il punto di discrimine) anche ad altri individui in grado di mostrare la propria “valentia”, nel settore di competenza all’interno di una comunità. Iniziamo allora a vedere come, per esempio tra gli indiani Hopi del Messico o tra le popolazioni della Sierra Leone e della Costa d’Avorio esista il Poro, una vera e propria società segreta, i cui membri occupano le più importanti cariche all’interno delle comunità di riferimento.

 

 

Le origini

 

Volgendo il nostro sguardo all’Europa, i primi gruppi esoterici di cui si abbia ufficiale conoscenza, sono quelli riferiti al contesto della civiltà classica, con particolare riferimento ai praticanti dei cosiddetti “misteri di Eleusi”, (che traevano origine dalla complicata vicenda del rapimento di Kore-Persefone, figlia di Demetra, dea delle messi, da parte di Ade-Plutone) ai seguaci dell’Orfismo ( ovvero di tutta quella serie di conoscenze che traevano spunto dalla vicenda mitologica di Orfeo) ed a quelli del filosofo greco Pitagora, le cui idee di matematica e di musica sacre, rimandavano ad un ordine occulto della realtà, di cui solo pochi eletti avrebbero potuto intendere il senso compiuto. Questi ultimi due gruppi, in particolare, presentano le caratteristiche di un primo compiuto corpus dottrinale teologico, inserito all’interno della cornice di società a carattere iniziatico, tanto da far sobbalzare dall’indignazione due grandi della filosofia di quel tempo, quali Parmenide ed Eraclito che, in quel primevo tentativo di dare un ordine logico allo sterminato corpus mitologico ellenico, avevano ravvisato un qualche tentativo di privazione della libertà del pensiero. Sia come sia, anche all’interno della quanto mai algida e razionale società greca, le correnti di pensiero esoterico continuarono a farsi silenziosamente strada. I semi gettati dal pitagorismo, al pari delle suggestioni platoniche che invitavano l’uomo a rivolgere le proprie attenzioni alla iperurania dimensione del mondo delle idee (da “idein/vedere”), avrebbero dato i loro frutti con la vicenda dell’Ellenismo, ovvero quando, in seguito alle conquiste di Alessandro Magno, la cultura greca verrà a stretto contatto con i principali filoni religiosi del Vicino Oriente. La sintesi della cultura ellenica con le culture egizia, anatolica, fenicia, iranica, giudaica, darà luogo ad altrettante svariate misteriosofie, rispondendo in questo alle necessità di salvezza individuale ed al turbamento che la fine della polis greca  e l’insediamento dell’impersonale stato universale ellenistico avevano ingenerato nelle coscienze dei cittadini della sterminata ecumene ellenistica. Il fenomeno del sincretismo ellenistico non può però essere completamente compreso se non se ne comprende la matrice culturale neoplatonica e gnostica alla base delle quali sta la tendenza del pensiero platonico ad assumere via via una valenza sempre più radicalmente dualista ed emanazionista. Il mondo materiale è separato ed al contempo legato all’Uno di matrice spirituale, attraverso una serie di emanazioni che ne rappresentano degli stadi intermedi, nella veste di vere e proprie degradazioni, sino alla dimensione della materia. Mentre però il neoplatonismo tramite Plotino, Ammonio Sacca, Porfirio, Giamblico ed altri, manterrà una visione sostanzialmente olistica, cioè unitaria dell’intera realtà, considerando la stessa materia nella propria negatività, quale prodotto del principio di complementarietà che anima l’intero neoplatonismo per cui Uno e molteplice, materia e spirito, pur nella loro radicale differenza sono  accomunati ad una visione organica d’insieme, ad un logos che ne anima e ne giustifica l’esistenza. Con la Gnosi, invece, materia e spirito sono qui intese quali inconciliabili dimensioni, tra cui non vi può essere alcun punto in comune. L’impatto della Gnosi si ripercuoterà sul mondo tardo antico, sino all’Evo Medio, accompagnato dalla versione iranica di quest’ultima, il Manicheismo, che rappresenterà una forma ancor più estrema di dualismo. E sarà il dualismo il grande protagonista delle dottrine eretiche che renderanno insonni le notti della Chiesa romana. Pauliciani, Bogomili ed infine Catari saranno i tragici ed involontari protagonisti di un’epopea che si concluderà con la cosiddetta “crociata degli Albigesi”, ovvero una delle più spaventose operazioni di pulizia etnica e di persecuzione ideologica, condotta in Linguadoca da una Chiesa cattolica decisa a farla finita con chiunque deviasse dalla propria versione della dottrina di Cristo. Di poco posteriore a quella dei Catari, vi è un’altra persecuzione che rappresenterà uno dei fondamentali pilastri ideologici della nascita della futura massoneria: la soppressione dell’ordine misterico-cavalleresco dei Templari decisa nel 1312 per mano di Filippo il Bello sotto l’immancabile spinta della Chiesa romana, ambedue interessati all’immenso patrimonio detenuto da quest’ultimo. Il Rinascimento assisterà ad un vero e proprio risveglio delle scienze umane e della filosofia neoplatonica, nella sua versione più misteriosofica ed aperta alle suggestioni offerte dalla riscoperta di tutti quei testi fondamentali dell’ermetismo e dell’alchimia che, in auge durante l’Ellenismo, con la fine del mondo antico erano invece caduti in una sorta di vero e proprio dimenticatoio. Il cardinal Bessarione, Pomponio Leto, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e tanti altri saranno i protagonisti della speranza nella rinascita di una cultura “altra”, in grado di collocarsi cioè, oltre le pastoie dell’arido aristotelismo di S. Tommaso e della Scolastica. Quel grande afflato di entusiasmo misterico che attraverserà l’intera Rinascenza troverà simbolicamente la propria tragica conclusione nel 1600 con il rogo del filosofo ermetico Giordano Bruno a Campo dè Fiori, in un’Europa attraversata da conati di oscurantismo e dai sussulti di un guerra civile interreligiosa che vedeva orami contrapporsi “ urbi et orbi” i fautori della Riforma Protestante e del suo nazionalismo mercantilistico ed i sostenitori del vecchio ordinamento cattolico a carattere universalistico, che nella Controriforma avevano trovato una risposta all’iniziale espansionismo luterano. Ma non sarà solo in Italia che le varie misteriosofie troveranno terreno fertile. Quando nel 1583 Rodolfo II, imperatore del Sacro Romano Impero, deciderà di trasferire la capitale dell’Impero da Vienna a Praga, la splendida città boema diverrà un vero e proprio salotto per esoteristi, scienziati e filosofi di mezzo mondo, questo grazie agli interessi culturali ed al mecenatismo di questa controversa figura di imperatore. Suoi illustri ospiti saranno scienziati del calibro di Tycho Brae e di Keplero, o esoteristi come il mago inglese John Dee, il medium Edward Kelly e l’alchimista Michael Sendivogius, senza contare la presenza di pittori del calibro di un Arcimboldo, di un Giambologna o di un Albrecht Durer. Resta preminente però, il fatto che la Praga in quegli anni balzerà agli onori della cronaca in quanto capitale europea del pensiero magico, ruolo questo perduto dal Bel Paese che,all’indomani del Concilio di Trento era oramai tornato sotto l’asfissiante tutela ecclesiastica. La speranza di fare di Praga la capitale di un pensiero “altro” andrà però infrangendosi su una serie di delusioni, rappresentate inizialmente dalla ingloriosa fine del regno di Rodolfo II e successivamente dalla disastrosa battaglia della Montagna Bianca che vedrà nella sconfitta della lega protestante guidata da Federico V, margravio del Palatinato, la fine di una speranza. Costui aveva difatti, con un gesto simbolico, reinsediato la propria corte a Praga, attirando presso di sé le speranze dei vari cenacoli esoterici europei, che in lui avevano visto un redivivo Rodolfo II. Ben presto sarà l’Inghilterra a dare ospitalità ai vari gruppi in fuga da quel continente europeo, afflitto da un pesante clima di intolleranza e che, contrariamente a quanto si può credere, favorirà il sorgere di gruppi e consorterie esoteriche in grado di fungere da porto franco e punto d’incontro tra persone di differenti estrazioni politiche e religiose. Delle vere e proprie zone grigie ove poter dialogare, confrontarsi e ricercare obiettivi comuni, senza incorrere nei rigori delle censure delle confessioni religiose d’appartenenza, cattoliche o protestanti che fossero. A tal proposito va menzionato un episodio significativo: l’apparizione nel 1614 a Kassel  di “Fama Fraternitatis Rosae Crucis”, un anonimo opuscolo avente per oggetto le peregrinazioni esoteriche di Christian Rosencreuz, a cui l’anno seguente seguirà un altrettanto anonimo “Fama Fraternitatis”, sino alla pubblicazione nel 1616 di “Le nozze chimiche di Christian Rosencreuz”, da parte del teologo Johannes Valentino Andreae. Tutti e tre gli opuscoli sono intrisi di cultura ermetica ed alchemica e, anche se i primi due sono anonimi, qualcuno ha supposto che fossero frutto della mano stessa di Andreae. Sia come sia, la loro apparizione generò un grande scalpore nell’intera Europa; qualcuno, tra cui lo stesso Andreae, parlò di uno scherzo tirato ad arte; fatto sta che gli autori, o l’autore, dei pamphlet non fu mai scoperto, creando in tal modo la leggenda di un misterioso cenacolo formato dalle menti più illuminate dell’epoca, portatore di una misteriosa conoscenza ermetica e che, tra i propri sodali avrebbe addirittura annoverato personaggi come Leonardo da Vinci e Giordano Bruno. E qui arriviamo alla nascita della vera e propria massoneria.

 

 

La nascita

 

In seguito ai prodromi della guerra dei Trenta Anni, molti esponenti di spicco dei vari cenacoli esoterici, migrarono in Inghilterra e Scozia, dove trovarono un clima più favorevole allo studio dell’astrologia e dell’esoterismo in generale. Alcuni tra questi gruppi, per darsi più lustro, cominciarono a voler far affondare le proprie origini nelle antiche corporazione dei costruttori di piramidi egizi, tra i “colegia fabrorum” romani o tra i mastri costruttori di cattedrali dell’Evo Medio. Per questo motivo, legato più che altro ad una moda culturale, personaggi di elevato lignaggio iniziarono a frequentare le varie corporazioni professionali o logge allora esistenti, sino a snaturarne completamente l’essenza, sancendo in tal modo il passaggio dalla massoneria cosiddetta “operativa” (cioè legata meramente ad un ordine professionale, quale il muratore, lo scalpellino, l’architetto, etc.) a quella “speculativa”, cioè imperniata all’edificazione di una costruzione per le anime, un vero e proprio tempio di conoscenze, a cui l’adepto avrebbe dovuto attingere, quale appunto quello mitico di Salomone, la cui costruzione, macchiata dall’omicidio rituale del suo architetto Hiram Abif, diverrà parte integrante della mitografia massonica. Le varie Logge diverranno così il ricettacolo delle menti illuminate dell’epoca, avendo come primo esempio il misterioso “Ordo Rosicrucianum”. Come abbiamo sinora visto, le società segrete trovano origine nella notte dei tempi, ma la Massoneria “si et si”, o quantomeno per come noi la conosciamo nella sua attuale veste, ha i propri natali ufficiali in quel di Londra, il 24 giugno del 1717, con la fondazione della Gran Loggia di Londra, più tardi Gran Loggia d’Inghilterra. Nata dall’unificazione di tre differenti gruppi massonici o logge, annovera immediatamente tra le proprie fila letterati, uomini di pensiero e religiosi come quel James Anderson, pastore presbiteriano che, con le sue “Costituzioni” cercherà di dare un primo, fondamentale, assetto istituzionale ed ideologico alla novella muratoria. Fondamentale è, tra l’altro, quella prescrizione che richiede agli adepti l’adesione al credo in un “Grande Architetto dell’Universo”, termine con cui si suole indicare il credo in un’entità metafisica superiore, al di là di qualsiasi particolarismo religioso confinato alla sfera del libero arbitrio dell’individuo. Ma, al di là dell’apparente compattezza ideologica e dottrinale, ben presto le Logge massoniche, nel loro sorgere e prender piede in Francia, Scozia e Germania, inizieranno anche a differenziarsi in quelli che ne avrebbero dovuto essere i comuni principi ispiratori. Tra questi a primeggiare, sarà l’Illuminismo. Molti, anche se non tra tutti i suoi ispiratori, daranno la loro adesione alle Logge massoniche, all’epoca un vezzo comune a molti famosi personaggi. Basterebbe solo pensare ad un  Goethe, ad un Mozart o ad un Newton, solo per citarne alcuni, tralasciando volutamente il caustico Voltaire. E qui già ci dovremmo porre la domanda su cosa sia realmente stato il fenomeno illuminista, almeno ai suoi albori. Da parte di vari autori si è parlato di una forma di neoplatonismo poi travolta da una deriva di tipo scientista-materialista. Come abbiamo già accennato, la letteratura ufficiale massonica fa risalire la “veneranda istituzione” ad un comune bagaglio di conoscenze misteriche che partendo dalle corporazioni dei fabbricanti egizi di piramidi, attraversa i secoli incarnandosi via via in organizzazioni quali i “collegia fabrorum” romani, le corporazioni dei costruttori di cattedrali dell’Evo Medio, i Cavalieri Templari, sino ai misteriosi adepti alla Rosacroce.

 

 

Successivi sviluppi e conclusioni

 

L’evocazione di comuni radici non nasconde, però, il dato di fatto che la massoneria nasca già attraversata da profonde discrepanze. La prima e più rilevante, sorge su uno dei punti più importanti delle “costituzioni” di Anderson, cioè la già citata prescrizione riguardo al credo nel “Grande Architetto dell’Universo”. Così accanto alle varie fratellanze massoniche legate all’idea-base dell’esistenza di un Entità Suprema, sorgeranno presto gruppi massonici ispirati al più radicale laicismo ed ateismo, che, nella Francia sconvolta dalla Rivoluzione, per esempio, troveranno il proprio ideale brodo di coltura e terreno di affermazione grazie all’influenza giacobina, non senza condividere il proprio percorso con altri simili gruppi, come quello germanico degli Illuminati di Baviera. Ma le divisioni non riguarderanno solamente il concetto di laicità. Massoneria Scozzese, Gran Loggia d’Inghilterra, Grande Oriente d’Italia, ma anche il Rito di Memphis e Misraim, gli Eletti Cohens” seguaci sia di Martinez De Pasqually (Martinesisti) che di Claude De Saint Martin (Martinisti), la Massoneria Neotemplare di Von Hund e tanti altri ancora, rappresentano gruppi tendenti a privilegiare uno o più aspetti di quel percorso del sapere esoterico di cui abbiamo poc’anzi parlato. Come in un immane caleidoscopio, le varie logge massoniche accolgono al proprio interno cabalistica, Vangelo di S.Giovanni, sapienza egizio-alessandrina, pratiche astrologiche, conoscenze alchemiche, neoplatonismo, Gnosi, pitagorismo, neopaganesimo e sinanche occultismo, in tal modo accentuando quel carattere di contradditorietà, includente tutto ed il suo contrario. Qui le conclamate simpatie per la razionale civiltà dei Lumi, faranno il paio con l’occultismo di personaggi alla Papus, alla Eliphas Levi, alla Oswald Wirth o alla Ciro Formisano (Kremmerz), destando non poche inquietudini nella società occidentale. Alla massoneria saranno attribuite adesioni di personaggi circondati da un alone di mistero, come il conte Cagliostro ed il principe di Sansevero, ma anche di intere dinastie regnanti, di uomini politici ed esponenti di punta dell’economia e della finanza mondiale, alimentando in tal modo la “leggenda nera” di un complotto ispirato da “superiori sconosciuti”, in nome della creazione di uno stato universale, così come preconizzato dall’intellettuale “fin de siecle” Yves D’Alveidre, nel suo “L’Archeometra”. Persino di città come Washington, Parigi o Londra si dice portino l’impronta di un progetto esoterico, ispirato dalle varie obbedienze muratorie, con un occhio alla posizione degli astri e del Sole. A volte tollerata, a volte perseguitata da Chiesa e Stato ma mai, comunque, ufficialmente riconosciuta, la massoneria appoggerà indifferentemente insurrezioni e contro insurrezioni, ribellioni e restaurazioni. E così accanto al conclamato appoggio alla Rivoluzione Americana, a quella Francese, ai vari  Risorgimenti europei (ed in primis, a quello italiano) avremo il beneplacito sostegno a regimi ultraconservatori e reazionari come quello dell’anti italiano Napoleone 3°. In Italia, in particolare, dal Risorgimento sino al Ventennio, la maggior parte dei governi sarà più o meno espressione dei desiderata della massoneria, che esprimerà rivoluzionari alla Garibaldi e alla Mazzini (il quale, in un momento successivo, criticherà duramente l’eccessiva moderazione e la poca propensione all’azione rivoluzionaria dell’istituzione, ponendosene de facto, al di fuori, sic! riformisti e moderati come Cavour, Crispi, Giolitti e Nathan (sindaco di Roma), ma anche quella casa Savoia che a fine Ottocento non esiterà a ricorrere alle cannonate del generale Bava Beccaris per sedare le giuste rivendicazioni del popolo affamato, sino alla sinistra figura del generale Badoglio ed alla sua coorte di traditori che, durante l’ultimo conflitto mondiale contribuiranno alla sconfitta ed alla resa italiana, grazie alle loro relazioni di affiliazione massonica con la Gran Bretagna e le sue logge. Proibite o messe “in sonno” durante il Ventennio, le logge massoniche dal dopoguerra ad oggi, continueranno a rappresentare una silenziosa, ma costante presenza nella vita del nostro paese. Le vicende legate alla loggia P2 di Licio Gelli ed ai risultati della commissione Anselmi, torneranno a conferire all’intera istituzione massonica quell’aura di negatività superata solamente dalla propaganda del Ventennio. L’elezione di Gustavo Raffi quale guida del Grande Oriente d’Italia(la più antica e numerosa delle istituzioni massoniche italiane), accompagnata da un’attività di apertura al mondo esterno, tramite conferenze, etc., aperte a chiunque, sembra proprio voler rappresentare un momento di forte discontinuità e rottura con l’idea di una massoneria “coperta” e semi clandestina nel suo relazionarsi con la società. Tutte queste vicende, però, non tolgono i dubbi sulla reale essenza e portata di un fenomeno quale quello massonico che, a ben vedere, si presenta molto più variegato e complesso rispetto a certe vicende ufficiali. Per esempio, qualcuno ha, per associazione d’idee, accostato alla massoneria anche realtà che, con quella ufficiale, avrebbero in verità poco o nulla da spartire, quali per esempio gli Ariosofi di Von Sebottendorf e Von List, l’Ordo Templum Orientis di Aleister Crowley, i Teosofi, Anne Blavatsky e addirittura alcune alcune realtà del satanismo. E’ anche vero, però che, la storia e la genesi di tutte queste realtà sono in qualche modo legate ed interconnesse a deviazioni ed interpretazioni di quel comune filone di pensiero esoterico, delle cui vicende abbiamo già parlato. Arrivati a questo punto della nostra analisi, non ci si può esimere dall’interrogarci su quale coerenza possano avere gruppi che, nel loro proclamarsi fautori dell’egualitarismo democratico e del liberalismo, quali dirette filiazioni dell’Illuminismo, adottano invece rituali e simbologie che rimandano a realtà e tradizioni che si situano sul versante opposto. A ben vedere, la tradizione egizia, non può certo richiamare alla mente l’ideologia liberale e la stessa osservazione vale per tutte le altre tradizioni richiamate dalla massoneria: dall’elitario ed antidemocratico pitagorismo, passando attraverso la tradizione ermetica o a quella alchemica, o ai cavalieri del Tempio, nulla ci sembra evocare un’idea di eguaglianza, anzi. Certe espressioni del sapere esoterico, sono per definizione quanto di più ristretto ed esclusivo possa esistere. L’unica tra le radici massoniche che, in qualche modo ci può riconnettere ai contenuti fondanti della Modernità è quella ebraica. Questo perché lo spirito biblico sta alla base dello spirito della svolta economicista e mercantilista della Modernità, per l’appunto tutta imperniata sul protestantesimo di marca calvinista. Ma, a ben vedere, la stessa Qabbalah, libro sacro di quell’esoterismo ebraico tanto caro a certe comunioni massoniche, altri non è che un concentrato di sapere misterico imperniato su un’idea di esclusivismo gerarchico tale, da far addirittura contemplare delle precise indicazioni sul diritto di appartenenza, esclusivamente ereditario, alla casta dei rabbini-maghi, rappresentata in questo caso dagli appartenenti alla tribù dei Levi. Di fronte a questa incoerenza ontologica, si può dare una risposta la cui valenza deve rientrare per forza nell’ambito della ricerca psicanalitica e sociologica. La tendenza innata dell’uomo a costituire degli alvei di appartenenza privilegiata all’interno dei contesti sociali in cui vive, porta anche all’adozione di determinati simboli, in quanto richiami ad un passato prestigioso, anche a costo di snaturarne valenze e significati. Il grande Renè Guenon ebbe a descrivere un processo simile, nei termini di una scienza iniziatica i cui simboli verrebbero rigirati e stravolti nel nome di una perversa ed innaturale eterogenesi dei fini. Quella stessa eterogenesi che, dunque, sembra guidare l’intera storia di certa massoneria e dei suoi sviluppi nei secoli. Da cenacoli iniziatico-sapienziali a vere e proprie congreghe politico-affaristiche di elevato lignaggio, certe massonerie divengono il miglior veicolo per l’elaborazione, la pianificazione e la messa in opera di un’azione volta ad assoggettare il mondo all’unica, omologante legge di stampo occidentale, che del primato dell’economia finanziaria sull’uomo e sulla sua vita, fa il proprio asse portante. Inizialmente portato avanti dallo stato-canaglia britannico, il progetto mondialista avrà negli USA e nei propri stati-satellite il miglior prosecutore. Oggi, in piena Post- Modernità, le ramificazioni del progetto mondialista non necessitano più né di una nazione di riferimento, né delle vecchie istituzioni massoniche, oramai superate ed abbandonate in favore di molto più potenti ed efficaci “Club”, “Commissioni” e via dicendo. A proposito di mondialismo, abbiamo sinora parlato di “certe” massonerie, proprio perché riteniamo pericoloso e fuorviante parlare in certi termini di un’esperienza che, proprio in quanto esoterica, non è facilmente catalogabile secondo criteri di scienza esatta. Figure come un Reghini, un Armentano, un Frosini ed altri ancora, attraverso il tentativo di rifondare la massoneria, riattivando il Rito Filosofico Italiano e partecipando in prima persona all’esperienza del Gruppo di Ur, impressero all’istituzione massonica una svolta in direzione di quel neopitagorismo che, con un forte richiamo al paganesimo romano e mediterraneo, si situava in una prospettiva ideologica e dottrinale ben lontana da suggestioni cabalistiche. Questi personaggi di sicuro, con la Massoneria non ci fecero certo i soldi, né ricevettero gratificazioni di altro tipo ma, in compenso, cercarono di dare un contributo ed una spinta chiarificatrice a quel contesto di idee “tradizionalista” che allora, sulla falsariga dell’esperienza fascista, iniziava a muovere i propri primi passi, in direzione di un proprio specifico assetto. Il discorso potrebbe continuare ancora per intere pagine, senza però portarci ad alcun risultato certo, se non quello della fondamentale ed occidentalissima “ambiguità” ontologica dell’esperienza massonica. Il che ci porta, giuocoforza, ad essere prudenti nell’emettere giudizi affrettati per non ricadere in stereotipi che altro non fanno il gioco di chi, invece, ha tutto l’interesse a confondere le acque.                                                                     

 

 

 

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