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Controfilosofia

Senso storico e trasversalità

In molti ci si interroga sul senso della Storia, taluni conferendo ad essa un’irresistibile e luminosa aureola di gioiosa marcia verso un avvenire radioso, esaltandone tutti quegli aspetti quali conquiste tecnologiche, crescita economica e via discorrendo, che in qualche modo possano confermare questa visione, negativizzando invece tutti quegli aspetti, che da questo proposito divergono; talaltri invece, conferiscono a questa una negativa aura di decadenza, il mondo in caduta libera dallo spirituale al più infero materiale, trascinando in questa caduta anche quei momenti non assimilabili ad una certa logica, o quanto meno , non in un certo modo.Ad un occhio disattento, questa può sembrare una sottigliezza un andar cercando il pelo dell’uovo, là dove non c’è, invece certi distinguo sono necessari per evitare pericolosi schematismi, conduttori ad immancabili vicoli ciechi.Un esempio, la negativizzazione del termine democrazia, tanto in voga presso certi ambienti, deve essere intesa in “toto”, o solo riguardo a “certi” modelli di democrazia? L’esempio che a questo punto viene alla mente più facilmente è quello della democrazia ateniese; si può negativizzare un modello politico incentrato sull’appartenenza etnica, sulla distinzione tra “barbari” e Greci?Si può negativizzare un modello incentrato su una forte gerarchia sociale, ed al contempo solidale e geloso, con le proprie tradizioni cittadine? Si può negativizzare un modello in grado di educare cittadini, in grado di essere filosofi, guerrieri ed atleti nel medesimo tempo? Si può negativizzare Fidia, Policleto e tutta un’Arte specchio di una società improntata alla perfezione interiore ed esteriore? Credo proprio di no, penso che invece si debba guardare alla valenza che il termine “democrazia”, ha assunto nei secoli, laddove oggi è portatrice di un messaggio ben diverso da quello del modo classico, un messaggio in piena sintonia col mercantilismo vigente e quindi totalmente distorto ed adulterato.Vogliamo un altro esempio? L’ avvento del Protestantesimo. Sicuramente questo sarà uno degli eventi che inaugurerà l’inizio dell’era mercantilista, ma in certi contesti asssumerà una connotazione differente, come nel caso della Prussia ove questo evento scatenerà una vigorosa reazione nazionalistica da parte della locale aristocrazia, che non esiterà ad accorparsi i beni di proprietà ecclesiastica, ponendo le fondamenta per la nascita di quello Stato Prussiano, che, forte di una totale redistribuzione delle terre tra piccoli proprietari e di una Chiesa nazionale, costituirà la base per la rinascita del futuro Reich germanico.Stesso discorso può farsi per periodi come il Rinascimento, dove, accanto al manifestarsi dei primi fenomeni deleteri della modernità, avremo un’epoca animata da uno spirito superomistico, intriso di neopaganesimo sotto forma di allegoria.Un altro esempio può venire dal mondo delle Scienze, ovvero dalla distorta interpretazione che, alle scoperte scientifiche, è stata data.Un caso per tutti, quello dell’Evoluzionismo, osannato o condannato senza mezzi termini, a seconda della “parte” da cui veniva valutato. La scoperta di meccanismi di selezione e perfezionamento delle specie viventi, non è di per sè negativa; che da un organismo semplice se ne formi uno più complesso, grazie a determinati meccanismi, non deve però far assumere al tutto una valenza meccanicistica, automatica, slegata da qualsiasi ordine superiore; allo stesso modo, la forte comunanza di patrimonio genetico tra la specie umana ed i Primati, non deve però indurci a conclusioni affrettate.Le stesse dottrine cosmologiche quali quelle del “Big Bang” che, da Einstein in poi, hanno sconvolto i vecchi criteri della Scienza Positivista, (fissati inizialmente da Kant e da Laplace), hanno trovato una indiretta conferma in Testi Sacri Indù, come lo Gnani-Yoga, che, senza mezzi termini, parlano della genesi dell’Universo grazie ad un’esplosione iniziale.Tutto questo ci porta ad una doverosa conclusione: se è vero che la Storia dell’uomo, così come quella del mondo è fatta di cicli, è anche vero, però, che esiste uno spirito trasversale, un misterioso “fil noir” che la attraversa in ogni dove e come; uno spirito che la illumina anche nei suoi più oscuri recessi, come quel fuoco prometeico, quell’improvvisa illuminazione, che dell’uomo rappresenta l’aspirazione alla perfezione ; un’aspirazione che si scontra con la contradditorietà della propria condizione e l’ineluttabilità dei cicli storici, in un tragico crescendo di sfide e di poste in giuoco, in una lotta senza fine, che ci rimanda ad Eraclito l’Oscuro ed a quell’anima misterica del Mondo, che tutto muove, e che mai nessuna soluzione teorica preconfezionata potrà mai disvelare.

Le origini del pensiero occidentale

 

Come precedentemente accennato, il pensiero occidentale, nella sua iniziale matrice greca, trova le sue origini nel mito prometeico, cioè dall’interrogarsi dell’uomo sulla natura dell’Essere, in un continuo sforzo di tensione verso la perfezione.Sarà il caso di esaminare con attenzione quelli che sono stati gli sviluppi di questa impostazione, perchè capire la grecità significa capire un po’ noi stessi e le nostre contraddizioni.Generalmente lo sguardo dei profani si appunta sempre sul contesto di pensiero che va da Socrate in poi, a causa dell’irresistibile fascino esercitato dai filosofi successivi a quest’ultimo, senza però pensare all’importanza delle scuole presocratiche.Ma diamo un rapido sguardo al panorama del pensiero greco per poterci meglio orientare.Generalmente si suole dividere la storia di quest’ultimo in due periodi: quello antecedente a Socrate, e quello posteriore a quest’ultimo, essendo stato quest’ultimo posto come spartiacque a due differenti impostazioni di pensiero.La prima si interroga sulla sostanza materiale del mondo, dando differenti risposte al riguardo; taluni porranno l’acqua al disopra di tutto, talatri il fuoco, altri ancora tutti e tre; alcuni diranno che il mondo è immobile, talaltri che è in movimento e per questa ragione si parlerà di scuole filosofiche naturalistiche.Ciò che qui ci preme maggiormente analizzare sono quegli aspetti delle scuole pre socratiche, rimasti oscuri o quanto meno fraintesi ai più.Due sono i nomi che in questa fase faranno fare un balzo in avanti al pensiero occidentale.Il primo di questi è Pitagora, la cui importanza sta nel rappresentare il primo “trait d’union” tra il razionalismo occidentale e le dottrine metafisiche di oriente ed occidente, grazie alla valenza misterica data alle proprie scoperte nell’ambito della matematica e della geometria, inserite in un ambito metafisico, che vede la sacralizzazione del numero in un contesto dottrinario per lo più mutuato dall’Orfismo e dalle dottrine Indù, a proposito della metempsicosi. Pitagora rappresenterà quindi il primo tentativo in Occidente di dare una sistematizzazione razionale a quel sentire irrazionale, bagaglio di quel dionisismo risalente alla notte dei tempi delle civiltà del mediterraneo orientale.Il pitagorismo dunque come primo pensiero esoterico tornerà a far parlare di sè, durante l’Ellenismo, arricchito di nuovi elementi misteriosofici, ma specialmente getterà il seme per una forma di pensiero, che come un fiume sotterraneo attraverserà la storia dell’Occidente, accomunando tutte quelle scuole di pensiero che, dal neoplatonismo in poi, passando attraverso le dottrine misteriche dell’Evo Medio e della Rinascenza, sino a Giordano Bruno ed oltre, fa del razionale un elemento parte di un contesto metafisico.Il secondo nome, è invece quello di Eraclito, un personaggio che presta se stesso ed il proprio pensiero ad innumerevoli interpretazioni.A prima vista, la centralità del fuoco, come elemento portante di un’ordine naturale, caratterizzato da un perenne divenire, lo rendono vicino alla scuola milesia, inoltre le ripetute affermazioni di scetticismo riguardo alla natura degli Dei, ne dovrebbero fare un perfetto precursore di un meccanicismo “ante litteram”, ma non è così.C’è un qualcosa che fa di questo filosofo, “l’oscuro” per definizione: questo qualcosa è dato dal concetto della natura del mondo come risultante da una continua lotta tra opposti, senza la quale nulla avrebbe ragione d’esistere, anzi ne rappresenterebbe la totale negazione.Tutto questo non è però frutto di un principio meccanico, bensì del Logos, o Ragione Universale, che a tutto dà una ragion d’essere , anche alla pulsione di morte che sorregge le vite degli umani(e che per la prima volta entra a far la sua apparizione nel pensiero occidentale). L’innovazione eraclitea sta proprio in questo, nell’aver dato alla lotta tra opposti, una valenza di perennità , andando ad informare così anche la vita dell’uomo.Se nella religiosità delle origini l’elemento della lotta è funzionale al ristabilimento di un Ordine violato, per Eraclito invece, la lotta è l’elemento centrale della vita dell’Universo, è ciò che dà una ragion d’essere alle cose, a sua volta sorretta da una ragione superiore; e proprio questo è l’elemento che contraddistingue e rende questo filosofo ostico all’interpretazione dei più, giacchè se è vero che costui si presta a fin troppo facili e scontate interpretazioni razionaliste, andando a guardare nel più profondo disvela quell’anima prometeica della filosofia greca (messa d’altronde simbolicamente in luce dalla centralità dell’elemento igneo) che altro non può farci concludere se non di trovarci di fronte al primo futurista della storia, inauguratore di quel vitalismo esistenziale che venerà il pensiero dei vari Nietzsche, Sorel, Marinetti, Heidegger, Gentile, ed altri ancora.Due nomi, quindi, che lasceranno una impronta “forte”, nell’ambito del pensiero occidentale e di quell’ellenicità che, in tal modo, dimostrerà di essere tutta figlia dell’incontro tra Apollo e Dioniso, tra l’algido pensiero razionale e l’irrazionale presenza degli Dei e della realtà mitica.Il punto di raccordo tra queste due tendenze sarà rappresentata dal mito prometeico, vero canalizzatore di quello sforzo umano, teso alla comprensione ed alla conquista dell’infinito.Tutto questo continuerà sino a Socrate, vero spartiacque del pensiero greco.

Socrate è un filosofo insidioso, perchè, se da un lato con il criterio del “conosci te stesso”, introduce nella storia del pensiero la ricerca dentro se stessi, quella “maieutica”, o arte di far partorire le menti, alla ricerca della definizione degli “universali”, in particolare del Bene; a null’altro sono, infatti, protesi gli estenuanti colloqui a base della domanda “tì estì?”-”cos’è questo?”, cui quest’ultimo sottopone i suoi interlocutori, con l’intento di metter in crisi tutte le certezze di questi ultimi in nome della scoperta di nuove certezze.E’ la nascita della morale come concetto eteronomo, e non solo, da qui verranno anche Platone ed Aristotele, con tutto ciò che ne seguirà; ma la vera insidia di Socrate sta nel relativismo di cui questi sarà, volente o nolente, il vero promotore.A furia di chiedere al proprio interlocutore la reale essenza dell’oggetto di quella conversazione, si finisce giocoforza col mettere in discussione tutto ciò che sta alla base della vita di una Comunità, dalle proprie istituzioni, alla religione, alla stessa morale; questa impostazione sarà la linfa vitale che animerà il Sofismo, ovvero il Relativismo elevato a stile di vita, che rappresenterà la malattia mortale della civiltà greca.Il processo intentato ad Atene per empietà contro il grande filosofo va quindi visto come un estremo ed ingenuo tentativo da parte della società ellenica di difendersi da quello, che da lì a poco, sarebbe divenuto un incendio irrefrenabile: la rivoluzione morale.Questo fenomeno avrebbe trascinato la civiltà greca dalla tragica grandezza di Eschilo e Sofocle, frutto della simbiosi tra Apollo e Dioniso, al vuoto e scaltro moralismo dell’omuncolo ellenistico, ormai privato della propria libertà e delle proprie idee di grandezza.Da una parte, quindi il Socratismo porterà al moralismo ed al relativismo, dall’altra sarà la fucina da dove usciranno fuori due tendenze del pensiero, che accanto ad Eraclito e Pitagora, rappresenteranno altre due basi fondamentali del pensiero occidentale: Platone ed Aristotele.Platone può, rispetto a Socrate, essere considerato un “positivista”, giacchè anzichè stimolare nell’interlocutore, la ricerca entro di sè del concetto puro tramite la “maieutica”, lo pone di fronte ad un sistema teoretico consolidato: il Mondo delle Idee, di cui il nostro altri non è che un imperfetto riflesso.Da questo fondamento discende tutta una visione imperniata sull’anelito razionale dell’uomo alla perfezione, reso più efficace dalla maggiore o minore adesione ad uno stato interiore, che si avvicini il più possibile a questa condizione.Non solo, coerentemente a questo enunciato, lo Stato dovrà essere governato da una gerarchia alla cima della quale staranno i filosofi, detentori del Sapere, e quindi più vicini alla perfezione; ne conseguirà che tutto dovrà ruotare attorno al perenne tentativo di coincidere con un canone di ideale perfezione.

Aristotele sarà colui che invece sottoporrà il mondo ad una visione razionalista, fondata sulla dimostrazione empirica dei fatti ma, allo stesso tempo non priva di implicazioni metafisiche, e dotata quindi, di una forte struttura ideale e teoretica.

Quindi, possiamo ravvisare alle origini del pensiero occidentale tre tendenze che si muoveranno in un tortuoso susseguirsi attraverso i secoli: la prima è quella idealistica, rappresentata dal binomio Pitagora-Platone.La qualità di perfezione ideale che Pitagora aveva trasmesso ad alcuni solamente degli elementi dell’Essere, cioè alla Matematica, alla Musica ed alla Geometria, viene da Platone esteso all’Essere nella sua interezza, il Mondo delle Idee, per l’appunto, che fa del mondo concreto una pallida ed imperfetta espressione della propria natura.La seconda è rappresentata dal binomio Pitagora-Aristotele, laddove Aristotele trasmette all’Essere nella sua interezza quei canoni razionali che il primo riteneva derivassero unicamente dalla matematica e dalla geometria.La terza tendenza riguarda i binomi Eraclito-Platone, Eraclito-Aristotele, che in comune con l’”oscuro” hanno l’idea di una “ratio” universale, comunque aprioristica al contenuto idealistico o razionalistico dell’Essere.Lo spirito meccanicistico che anima una parte della teoria di Eraclito, influenzerà chiaramente il razionalismo aristotelico, mentre il concetto di lotta perenne che anima l’essenza dell’Universo coniugato all’idealismo platonico, darà i propri frutti secoli dopo, quando, all’indomani dell’avvento del pensiero moderno, contrapposto allo sterile meccanicismo delle scuole illuministiche, avremo un filone di pensiero che dal Romanticismo in poi, passando attraverso idealismo e vitalismo, proprio di questo binomio sarà espressione.Da questo breve excursus sulle origini del pensiero occidentale, possiamo trarre una conclusione: quest’ultimo nasce inficiato dal vizio morale trasmesso dal socratismo, che spezza quell’unità originaria di pensiero tra razionalismo e metafisica, che Pitagora ed Eraclito avevano cominciato a codificare, determinando la maturazione di due diversi sistemi di pensiero in perenne competizione tra loro: quello platonico idealista, e quello aristotelico razionalista, che puntualmente finiranno ambedue col degenerare “motu propriu”, nel relativismo determinato dalla ricerca della perfetta essenza morale nelle cose.Chiara dimostrazione di tutto ciò è il percorso del pensiero occidentale nell’Età Moderna, in cui dal 17° secolo in poi, un sistema di pensiero meccanicistico creerà un’ impasse, poichè ponendo l’economicismo a valore guida, riuscirà a dare a se stesso una capacità di perenne autorinnovamento, confinerando via via il pensiero idealistico nell’ambito di un pericoloso relativismo individualista. Perchè si possa realizzare quell’ auspicata sintesi tra idealismo platonico e metodologia aristotelica, unica realtà ideale in grado di contrapporsi al Pensiero Unico, perchè in grado di dare una giustificazione razionale all’Assoluto, sarà necessario però ritornare a quell’anima prometeica, di cui il vitalismo eracliteo rappresenta l’espressione più evidente.Quest’ultimo, animato dal concetto di lotta perenne, darebbe slancio ad una concezione altrimenti destinata ad arenarsi nelle secche di un arido ideologismo, che finirebbe col ricondurci al circolo vizioso del dogmatismo , il cui unico sbocco è rappresentato dal relativismo, che dei valori è la morte.Sarà dunque la sintesi tra le più antiche tendenze del pensiero occidentale, rese vitali dal fuoco della lotta perenne, a costituire la vera testuggine contro cui il pensiero globale dovrà scontrarsi.Una forma di pensiero, questa, in grado di condurre nuovamente la storia e l’agire umano, a quella fase di “eudaimonìa” o felicità, intesa come armonia tra mito e realtà, tra ragione ed idea di cui la civiltà classica ha rappresentato uno dei più grandi esempi nella Storia.Sorge a questo punto in noi l’immagine simbolo di ciò che un nuovo soggetto di pensiero oggi deve rappresentare: un discobolo, che ben saldo in terra, lanci il proprio disco verso l’infinito.

Il Rinascimento, questo mistero

 

​Parlare di Rinascimento non è impresa agevole , perchè questa è un’epoca di transizione,complessa,che si presta facilmente a mille interpretazioni ,per lo più di parte,e che non riescono mai a dare una veduta d’insieme coerente e chiara di questo periodo ,fenomeno questo causato dalla molteplicità di aspetti di quest’ultimo che inducono anche il miglior osservatore a soffermarsi sull’uno o sull’altro di questi, andando a perdere di vista quello che è il “leit motiv”,il motore trainante di quest’epoca e che vuole essere l’oggetto di questa piccola ricerca.

Ma procediamo con ordine;anzitutto il termine Rinascimento deriva dalla definizione appioppata dal Vasari ad un periodo,che secondo il suo avviso rappresenta la “Rinascenza”della cultura classica dopo quasi un millennio di oblio dovuto agli stravolgimenti occorsi durante il Medio Evo.E’vero,il Rinascimento è stato anche questo,un costante andare a riscoprire i testi della cultura classica ormai sepolti nelle polveri dei monasteri benedettini ,e di conseguenza una profonda rivalutazione di quest’ultima ,che avrà come protagonisti uomini del calibro del Petrarca;questo evento costituisce quello che verrà chiamato Umanesimo, che del Rinascimento rappresenta uno degli aspetti,fondamentali ,ma sicuramente non l’unico.La stessa cronologia della Rinascenza è tutt’oggi oggetto di discussione ,visto che taluni fanno ne fanno scoccare l’inizio dalla metà del 14° secolo ,collocandone la fine con la fatidica data della scoperta dell’America nel 1492,mentre talaltri preferiscono invece farlo cominciare con un secolo di anticipo rispetto alla data di cui sopra collocandone la fine quasi un secolo dopo la scoperta dell’America;fatto sta che una particolare concomitanza di eventi storici contribuirà in modo decisivo alla definizione della fisionomia di quest’epoca .Anzitutto dalla metà del 13°secolo ,a partire cioè dalla morte di Federico 2°Hohenstaufen,si assiste al progressivo indebolimento dell’autorità del Sacro Romano Impero Germanico sulla penisola Italiana,ed al contemporaneo rafforzarsi dell’autorità dei Comuni ,eventi questi accompagnati dal progressivo consolidamento delle Monarchie Nazionali Europee ,in particolare quella Francese che ,a partire dalla dominazione Angioina ,sino al trasferimento del Papato ad Avignone ,andrà ad assumere una sempre maggiore influenza sulle vicende politiche italiane;non solo, l’aumento di conflittualità all’interno dei vari Comuni,di cui il conflitto tra Guelfi e Ghibellini rappresenta l’episodio più famoso,porta ad una crescente domanda di stabilità politica,che gli ordinamenti Comunali a cariche elettive, non erano più in grado di garantire ,portando così questi ultimi a trasformarsi in Signorie ,cioè in Stati a Governo Autocratico che verso la metà del secolo 14° avranno sostituito quasi del tutto le vecchie Repubbliche Comunali.Visconti,Sforza,Estensi,Medici ,questi sono i nomi più famosi di quelle famiglie che domineranno la scena Italiana a partire da questo periodo in poi;in particolare i Medici,grazie all’opera di Cosimo,riusciranno a garantire un periodo di stabilità senza pari alla Penisola Italiana,tramite un’accorta azione diplomatica mirante a realizzare l’equilibrio tra le cinque potenze che allora ne dominavano la scena e cioè lo Stato della Chiesa,Milano,Venezia,Firenze e Napoli, che durerà dal 1434 al 1492.Un altro fattore di primaria importanza è rappresentato dalla posizione Geo Politica della Penisola Italiana ,che ,al centro del Mediterraneo,allora punto di passaggio obbligato per tutte le rotte commerciali provenienti da Oriente,renderà sin dal Medio Evo le città italiane degli importanti centri finanziari;questo ruolo di Città Stato detentrici di una forte liquidità economica sarà riconfermato dal continuo flusso di”oboli”,che destinati dagli Stati dell’ecumene cattolica alla Chiesa Romana passeranno attraverso la nostra Penisola ,andando ad interessare direttamente le economie delle varie Città Stato,che in questo particolarissimo contesto ,tutto italiano,potranno dedicare tranquillamente buona parte delle proprie risorse al fenomeno del mecenatismo artistico,cosa che,peraltro risulterà molto più difficoltosa nel resto d’Europa dove la formazione delle varie Monarchie Nazionali,come quella Francese o quella Spagnola ,assorbiranno quelle risorse economiche ,altrimenti destinabili altrove.La maggiore stabilità politico economica venutasi a determinare a partire dalla fine del sec 14°all’interno della penisola italiana non basta però di per sè a giustificare un fenomeno come quello dell’esplosione artistica che contraddistinguerà il nostro paese per tutta la durata della Rinascenza ed oltre;un’esplosione iniziata nel Basso Medio Evo con la Francia che ancora dettava legge con la sua scuola trovadorica nel campo delle Lettere,o con il Gotico nel campo dello stile architettonico, e che vedrà come protagonisti pittori come Giotto, Cimabue ed altri ancora ,che si contraddistingueranno per uno stile sempre più volto al superamento della staticità ierocratica che contraddistingueva la pittura di allora, in nome di un’arte sempre più volta a collocare l’uomo, come soggetto di una vigorosa individualità del tutto sconosciuta all’Evo Medio ,al centro dell’universo ; arriviamo così ai Botticelli ,ai Piero della Francesca,ai Masaccio,ai Beato Angelico ,ai Lippi,ai Raffaello,ai Leonardo e ad una tale schiera di artisti e geni di vario tipo ,da poter reggere il confronto solamente con la Grecia classica .Ed a questo punto si innesta in tutta la sua drammaticità il problema sottolineato dalle varie scuole storiografiche,ovvero quello dell’Umanesimo rinascimentale produttivo in egual maniera di geniale creatività come di sfrenato individualismo, che in termini politici si tradurrà,nella rissosità dei vari Principati che, in continua lotta tra di loro ,finiranno con il fare sempre più affidamento all’intervento dei vari Regni Europei per risolvere le proprie questioni,sino a divenire succubi di uno di essi,(la Spagna per l’appunto),con la pace di Chateau Cambresis del 1559.E’questo il motivo che rende il Rinascimento un capitolo controverso dal punto di vista di molta parte della storiografia che lo identifica come causa della plurisecolare sudditanza del Paese alle Potenze straniere,e come periodo d’inizio di uno spiccato protagonismo delle classi mercantili nelle vicende italiane ed occidentali in genere;non solo esso viene identificato , grazie all’attività delle Accademie Neo Platoniche ,come ante fatto preparatorio all’irradiamento della Massoneria.A questo punto però,saranno necessari alcune doverose precisazioni.Anzitutto il Rinascimento rappresenta la riscoperta della filosofia classica, e di quella Platonica e Neo Platonica in particolare, in una chiave del tutto nuova :quella allegorica,densa di significati misterici.Due saranno le scuole ufficiali di questo pensiero :la prima sarà l’Accademia Platonica di Marsilio Ficino,intellettuale della cerchia medicea alle cui attività prenderanno parte personaggi dello stampo di un Michelangelo Buonarroti,di un Pico Della Mirandola,di un Poliziano,di un Botticelli,dello stesso Lorenzo De’Medici e di tanti nomi dell’intelligencja europea , più orientata allo studio della dottrina platonica in sè ,la seconda ,l’Accademia Romana di Pomponio Leto,animata dallo stesso spirito, finirà però col divenire una cerchia di veri e propri seguaci del paganesimo,il cui ingresso nell’accademia doveva essere accompagnato da un rituale e dall’attribuzione di un nome segreto,cosa che si ritroverà presente in molte istituzioni segrete posteriori ,quali la Massoneria ed altre di questo genere.

Ma la riscoperta del Paganesimo si manifesterà anche nella pittura del tempo,in cui a farla da padrone saranno le allegorie il cui principale, ma non unico maestro sarà il Botticelli che in dipinti come La calunnia di Apelle , La natività Mistica ,o La nascita di Venere saprà rappresentare con una delicata mano pittorica concetti e metafore propri del Neo Platonismo,che si ritroveranno in maniera più soffusa presso lo stesso Tiziano ed altri pittori ancora ,sino ad arrivare praticamente alla fine del 17°secolo .Il fatto che la Massoneria ,nella sua versione più tarda abbia mutuato i propri rituali di iniziazione dalle scuole filosofiche Rinascimentali,non deve però comportare assolutamente l’automatica associazione di queste ultime al fenomeno Massonico,visto che lo spirito che le animava differiva radicalmente,con il loro concetto di Uomo permeato da un’incredibile volontà di potenza e tutto intento alla meravigliata contemplazione di se stesso e del mondo circostante,di contro a quella mentalità schifosa ,intrisa di una vocazione al complotto,al tradimento,all’agire per il proprio piccolo schifoso tornaconto personale,di cui la Massoneria sarà sempre animata,e che troverà in personaggi come Ludovico il Moro ed altri ancora,i propri degni predecessori.Quindi a tutti coloro che vanno affermando che il nostro Paese non può vantare negli ultimi secoli una Tradizione Nazionale degna di questo nome ,rispetto a Paesi come Francia ,Germania o Inghilterra ,si può rispondere che l’Italia ha dominato con la propria cultura il Mondo Occidentale per più di tre secoli,grazie all’impulso dato in questa direzione durante la Rinascenza da un modello umano capace delle volte di riunire in sè l’anima dell’abile politico,il genio letterario e poetico(Lorenzo De’Medici),lo scienziato,il pittore ed il poeta(Leonardo),insomma l’uomo d’azione ed il contemplativo racchiusi in una stessa figura che dovrebbe rappresentare un esempio vivente di quel Super Uomo tanto caldeggiato dalla filosofia Romantica ,alcuni secoli dopo,alla cui azione farà da contorno uno Stato Autocratico sciolto da qualsiasi vincolo moralistico,totalmente privo di quell’ipocrisia castratrice dell’Uomo e della sua Azione,che invece diverrà caratteristica ideologica predominante dell’Ordine Europeo che di lì a poco verrà partorito dalla Rivoluzione Protestante e dalla Controriforma,e che tanto peseranno sulla nostra Storia.

Il significato di tradizione

Quello di Tradizione è sicuramente un termine la cui evoluzione ed interpretazione di significato necessita un chiarimento doveroso ed opportuno, viste le implicazioni culturali ed i conseguenti sviluppi di tipo ideologico che esso ha sinora comportatoladdove essa è stata eletta ad irrinunciabile criterio fondante. In qualunque buon dizionario ci verrà detto che per Tradizione si intende qualunque fenomeno che non esaurendosi nello spazio di una generazione, è oggetto di trasmissione da una persona all’altra. Questa definizione nella sua semplicità, si fa invece portatrice di una serie di problematiche e di ambiguità tali da dilatare oltremodo la portata e la competenza di questo termine, finendo con il presentarci una serie di significati tutti egualmente richiamantisi a tale concetto. A questo punto a soccorrerci non può che essere una lettura a più piani della realtà, tale da non farci ricadere nella trappola delle interpretazioni unilaterali, che altro non contribuiscono se non a creare ancor più confusione e fraintendimenti micidiali. Se vogliamo muoverci secondo un criterio per così dire “comportamentale”, tradizione è uno tra gli atteggiamenti costitutivi dell’individuo. Educazione, cultura, comportamenti e via discorrendo, possono tutti essere oggetto di trasmissione da un individuo all’altro, secondo un’ottica meramente acquisitiva. Conseguentemente a tale impostazione, tradizione può finire con il diventare un aggettivo indicante tutto ciò che di immobile, arcaico, regresso, inattuale esista dal punto di vista di quegli atteggiamenti umani eclusivamente risultato di quella trasmissione tra individui di cui le varie interazioni socio-culturali sono il principale e prediletto veicolo, di contraltare ad un mondo in continuo movimento, all’insegna quindi della più totale novità. Ma in un’ottica innatista, tradizione può anche connotare l’insieme delle credenze, quel corpus di sensazioni e percezioni della realtà di cui, di contraltare alla modernità, si erge a vero e proprio criterio di interpretazione, assumendo un  carattere metafisico assoluto. A questo punto però, la matassa, anziché dipanarsi, si aggroviglia ulteriormente. Questo perché qualcuno potrebbe avere ad obiettare sull’eccessiva genericità del termine tradizione, andandosi a chiedere a “quale” tradizione si dovrebbe fare riferimento, (quella nordica, quella classica, quella indù, quella veterotestamentaria o quella di un determinato popolo?). Secondo poi, il termine tradizione “si et si” rischia di divenire un sin troppo comodo ed astratto criterio di riferimento che, a guisa di un vero e proprio dogma, rischia di dar luogo a nuovi e nocivi immobilismi nel pensiero, spalancando le porte ad un sempre più esasperato relativismo dei valori. In questo caso però, sebbene facile e di grande moda, è quanto mai fuori luogo e sterile lanciarsi all’attacco di autori come un Lamennais, un De Bonald, un De Maistre, un Guenon, un Evola, le cui dissertazioni sono, tra l’altro, frutto di particolarissimi percorsi intellettuali. Nel nostro contesto, andrebbe invece rimarcato l’uso quanto mai improprio che del termine tradizione si è fatto negli ultimi anni, finendo con l’addebitare a quest’ultimo gli insuccessi, la sfiga, le contraddizioni di un’intera area politico-culturale quale, per esempio, quella rappresentata da quell’insieme di gruppi e gruppetti che rappresentano la cosiddetta “destra” nelle sue infinite varianti più o meno “radicali”, considerata a partire dalle vicissitudini che la riguardano dall’ultimo dopoguerra ad oggi. Sarà bene però, a questo punto, cercare di inquadrare il problema sotto un’ottica diversa, ripartendo proprio da quel criterio “innatista” a cui poc’anzi abbiamo accennato. Iniziamo con il dire che l’uomo, come d’altronde qualsiasi essere vivente, è il risultato di una continua sedimentazione di sensazioni, esperienze, percezioni che vengono via via adattate e rielaborate secondo quei parametri interpretativi inscindibilmente connaturati al proprio “genus” di specie, razza od etnia che dir si voglia. Questo quanto mai composito insieme costituisce l’essenza di ciò che noi, talvolta genericamente, definiamo come “tradizione”. Essa è dunque a noi connaturata e senza di essa non si possono fare i conti se non a prezzo di elevate sofferenze interiori. Ad offrire un’ulteriore spunto di riconferma e di riflessione a quanto sin qui detto è il concetto di “archetipo” elaborato agli inizi del secolo scorso dalla psicoanalisi junghiana e che trova un’ulteriore conferma negli studi di mitologia comparata del Kerenyi. Qui il concetto di archetipo, inizialmente inteso in un senso più circoscritto alla psiche umana viene esteso ad un ambito più propriamente culturale, quale quello della mitologia, andando a rivestire sé stesso di una valenza universale. Da elemento guida della psicogenesi, l’archetipo diviene quindi quel sottile motivo in grado di interagire con la realtà, offrendo dei parametri interpretativi molto spesso comuni a culture anche tra loro diversissime. Figure come quella del “fanciullo divino” o come quelle mitologiche di Demetra e Persefone offrono lo spunto a riflessioni volte a sottolineare il doppio carattere a queste sotteso e che vede affiancati la metafora psichica propria a certe figure divine e la valenza del mito come vero e proprio elemento a sé stante, atemporale ed indipendente da qualsiasi altro elemento della realtà, di cui anzi rappresenta uno dei fondamenti costitutivi. Tali fondamenti vanno arricchendosi e rinnovandosi continuamente nel tempo. Il polimorfismo mitologico che vede la sopravvivenza di motivi primordiali quali quello del culto della Dea Madre rappresentato da dee quali Cibele, Demetra, Hekate, etc. (reviviscenze di un modello sociale matriarcale) accanto ad un pantheon più marcatamente maschile, ci riportano al continuo rinnovarsi e perfezionarsi di certi motivi di base. Ecco dunque il termine tradizione presentarsi ai nostri occhi quale fondamento aprioristico della realtà, vero e proprio elemento di sostegno e conforto alla psiche individuale e collettiva, troncando i ponti con il quale si rischiano pericolosi fenomeni di alienazione. Tradizione, a questo punto, può anche essere eletta a vero e proprio criterio di riferimento, in quanto piano di lettura della realtà portatore di un’istanza che ha nel “sentire” irrazionale il proprio motivo fondante, affiancandosi ad altri piani di lettura quali la filosofia, le scienze e via discorrendo, con i quali interagisce, contribuendo all’interpretazione di quel complicato “puzzle”che altri non è che la realtà oggettiva che ci avviluppa in una rete inestricabile di sensazioni e percezioni. Nulla a che vedere, quindi, con quanto mai arbitrarie e riduttive interpretazioni “destroidi” che restringono un elemento costitutivo della nostra esistenza all’ambito di un bovino dogmatismo d’accatto

Socialismo e Tradizione

 

Parlare di Socialismo, è oggi come parlare di un qualcosa di profondamente sacro ed inviolabile, portatore in sè di una sola valenza, quella chiaramente marxista, senza nemmeno soffermarsi su quelle, che di questa teoria, sono le scuole eterodosse, e per ciò mal viste, in quanto deviazione dall’odierna e trionfante impostazione liberal marxista.Sarà utile a questo punto esaminare “in toto”questo fenomeno storico, per cercare di meglio capirne la portata e stabilirne i limiti rispetto a quella che è la realtà odierna.Due nomi, divengono per molti, il simbolo del pensiero socialista eterodosso: P.J.Proudhon e G.Sorel.Il primo, economista ed uomo politico, è fautore di un modello socialistico ed egualitario, che però divergerà da quello marxista in quanto preconizzatore di un modello di Stato Federale, basato non tanto sull’aggregazione di micro realtà comunitarie in aggregati più ampi, quanto sulla disaggregazione, ovvero sulla dissoluzione degli Stati Nazione in più picccole entità.Questo, perchè alla base del Socialismo proudhoniano sta il concetto di eguaglianza sociale, fondata su una teoria mutualista dell’economia, la cui essenza sta nello scambio di beni e servizi proporzionale al tempo impiegato per produrli.Concezione questa in aperto dissenso con il monolito marxista, che nel dispotismo comunistico di stampo classista non può certo lasciar posto ad una concezione invece gelosa delle autonomie regionali, imperniate tra l’altro su quel già trattato concetto mutualistico dell’economia, che un minimo di spazio all’iniziativa individuale riesce a lasciarlo.Inoltre il concetto di guerra, come sublimazione della natura umana, cozza in modo vistoso con l’escatologia pacifista che anima la dottrina marxista.Sarà per questo motivo che la reazione di Marx ed Engels di fronte all’esperienza della Comune parigina del 1870 sarà accompagnato da un malcelato desiderio di fallimento di quest’ultima.La stessa composizione del comitato insurrezionale vedrà una schiacciante maggioranza di proudhoniani e di seguaci di Blanqui(un altro pensatore socialista di ispirazione eterodossa) di fronte alla sola presenza di due marxisti.Tutto questo porterà alla rabbiosa reazione di Marx, che, in alcuni scritti a cavallo tra il 1866 ed il 1870 accuserà di mollezza e poca serietà la classe operaia francese (sic), arrivando nel 1870 ad auspicare una lezione militare per la Francia, così da poter definitivamente affermare la superiorità della propria teoria su quella di Proudhon.Nato a Cherbourg nel 1847, Georges Sorel sembra un po’ essere la proiezione, il “trapianto” di Proudhon nel 20°secolo, come avrà a dire Pierre Halevy, nella prefazione di un libro sul filosofo; difatti in lui persiste in modo molto più marcato e netto, rispetto al predecessore, il tema della “violenza”, elevata a criterio risolutivo di qualsiasi tipo di controversia sociale che si presenti all’interno della compagine statale.Manifestazione primaria di questa visione sarà lo sciopero generale, concepito come azione in grado di dividere la società in fazioni antagoniste, con la conseguenza diretta di portare alla disintegrazione dello stato borghese, tramite l’uso della “violenza”.Quest’ultima in Sorel sarà concepita con una valenza guerriera, ovvero non animata nè da odio, nè da vendetta, bensì da sentimento di giustizia,concezione questa, lontana sia dal risentimento sociale che anima la dottrina marxista,sia dal suo più subdolo ed ipocrita lato pacifista.In Sorel la violenza diviene quindi l’espressione dell’Azione pura, caratteristica dell’uomo superiore, che in quanto determinato agisce sino in fondo.Per creare azione, inoltre, è necessario un mito trainante che inciti in questo senso; Sorel vede nello Stato Prussiano, il perfetto erede delle virtù guerriere che già furono di Roma; caratteristica portante di queste virtù prussiane è il culto per il “lavoro ben fatto”, senza badare a quello che sarà il risultato finale.Identico disinteresse caratterizzerà la violenza, portandoci così alla conclusione che lo stesso lavoro è secondo Sorel una lotta perenne, un continuo momento di tensione epica, proprio perchè caratterizzato da quello spirito prometeico, per cui ogni lavoro è una trasformazione di sè e degli altri.Per queste ragioni, Sorel vede nella violenza proletaria un momento di rigenerazione, dato dalle fresche energie di cui il popolo è portatore, e di cui le classi dirigenti sono totalmente carenti.Il vitalismo che di questo filosofo è la caratteristica primaria, diverge radicalmente dal becero classismo marxista e dalla presunzione del ruolo guida da questo assegnato, all’ intellettualità bolscevica in un contesto rivoluzionario.Queste stesse basi lo porteranno ad attaccare la democrazia, dal nostro definita “vera dittatura dell’incapacità”ed, a partire dal 1907, a cercare di unire in un fronte comune gli antidemocratici di destra e di sinistra, fondando negli anni varie riviste in questo senso impostate; il 1914 lo vedrà protagonista di un attacco contro lo stesso Maurras(fondatore dell’Action Française, ultra monarchico e cattolico)da questi accusato di essere troppo democratico.Il sorelismo eserciterà una profonda influenza sia su Lenin che su pensatori del calibro di Pareto, Croce, Gentile; gli stessi Fascismo e Nazional Socialismo, tanto (ma non solo)dovranno a questo pensatore e ad una corrente di pensiero, quella del socialismo eterodosso, che, a partire da Proudhon, Pisacane, sino a Sorel ed altri ancora, molto ha prodotto.Restano però da stabilire quelli che sono i limiti obiettivi di queste teorie, per non ricadere nel solito vizio di generico massimalismo utopista da cui certe aree sembrano non essere immuni.Cominciamo col dire che c’è un vizio di fondo che rende questa visione “traballante” e che consiste in una visione materialista di base che permea tutte queste teorie e la cui origine va ricercata in quella impostazione generale del pensiero che dal 17° secolo in poi porterà progressivamente alla meccanicizzazione ed all’economicizzazione di quest’ultimo.Se il 17°secolo darà il “la”ponendo le basi generali ponendo il pensiero alle dirette dipendenze di leggi meccaniche tramite i pensatori proto illuministi, il 18°secolo tramite Voltaire, Rousseau, e le varie scuole come quella fisiocratica, darà a queste spinte una forte valenza economicistica, accompagnandole però ad una forte valenza giusnaturalistica e libertaria(Rousseau). La Rivoluzione Francese rappresenterà il momento in cui le contraddizioni innestate dal pensiero illuminista all’interno della sclerotizzata società francese di fine secolo, esploderanno in tutta la loro virulenza, dando una spinta accelerativa allo sviluppo di questo pensiero, sulla falsariga del quale, nel 19°secolo sorgerà una nuova scuola: quella socialista, formata dall’apporto del pensiero “utopista”, che in T.Moro ed in Babeuf avrà i suoi più illustri rappresentanti, e che beneficerà della definitiva sistematizzazione in senso decisamente economicistico, operata da C.H.Saint Simon ed A.Comte, a cui saranno debitrici tutte le scuole di pensiero “progressiste”e finanche quelle liberali.Caratteristica primaria di questa scuola è una concezione classista, per cui anzichè uno Stato inteso a proteggere l’egoismo economico dei singoli alla faccia dei più deboli(come accade nel liberalismo), abbiamo invece uno Stato ed una società rimodellati ad immagine e somiglianza di una sola categoria produttiva, quella dei “lavoratori” per l’appunto, promotore di redistribuzioni economiche foriere di equivoci a non finire.Il mutualismo economico che anima la concezione di Proudhon, oggi qui in Europa farebbe sorridere, perchè finirebbe con l’ingabbiare quelle energie economiche determinanti allo sviluppo di una comunità, in lacci e lacciuoli a non finire, portando così alla stagnazione economica.La stessa soreliana concezione di guerra proletaria in contrapposizione al corrotto mondo borghese, come altresì quella proudhoniana, ambedue intese a fare del lavoro l’espressione di uno spirito guerriero di cui unica ed incorrotta espressione sarebbero le classi lavoratrici, cozza clamorosamente contro una realtà che sia nel 19°che nel 20°secolo ha visto come attivi protagonisti di eventi bellici tutti i rappresentanti dei ceti produttivi.Il Primo Conflitto Mondiale, vide come protagonisti della tragica epopea della rimonta sulle forze austriache quegli studenti, figli della “middle class” italiana, animati da un fresco entusiasmo patriottico.Il classismo alla base di queste concezioni è quindi futto di una concezione economicistica che, anche se permeata di spirito romantico come in Sorel o Proudhon, rischia di essere facilmente invalidata proprio a causa di quel carattere contingente che non può non informare di sè una concezione fondata su un qualcosa di così transitorio come l’economia.Quest’ultima adegua le sue leggi a quelle che sono le condizioni storiche di un popolo, per cui ogni concezione legata all’economia finisce prima o poi con l’entrare irrimediabilmente in crisi, non appena vengano a mancare quell’insieme di fattori che quelle condizioni hanno determinato.Così il Marxismo applicato all’odierno contesto occidentale ha fatto un clamoroso autogol, finendo con l’autosciogliersi per consunzione,così la sicumera positivista ha dovuto lasciar libero il campo all’interpretazione relativista delle scienze.A questo punto è necessario chiedersi se esiste una categoria di pensiero in grado di fornirci delle risposte dotate di perenne validità, a fronte di un mondo in continuo mutamento.Una valida risposta a questo quesito, può venirci da una scuola di pensiero venuta alla ribalta con la grande crisi che il positivismo attraversa alla fine del secolo scorso, generando ombre , incertezze, dubbi, rilanciando così una concezione della vita fondata sulla prevalenza dell’elemento magico ed irrazionale; è un momento questo che vede affacciarsi sulla stessa scena dell’arte accanto a movimenti che fondano sulla dissociazione pluridimensionale delle forme e dei colori la propria essenza, le Avanguardie, movimenti che si rifanno alle esperienze del passato in un senso più romantico ed allegorico, si parte dalla pittura dei pre raffaelliti di E.Burn Jones, passando attraverso un genere artistico che anche in Italia avrà i suoi grandi seguaci, sino ad arrivare alla pittura di A.Bocklin.Varie correnti di pensiero, dal superomismo eroico di Nietzsche, all’individualismo di Stirner, dal volontarismo estremo di Michelstaedter al romanticismo di Novalis,da Otto Weininger al pensiero aristocratico di Joseph De Maistre e di Solaro dalla Margarita, daranno il loro decisivo apporto per la nascita di un indirizzo di pensiero che potremmo definire “tradizionale”, che in Julius Evola e Renè Guenòn avrà i suoi massimi esponenti.Essenza di questo pensiero è la constatazione dell’esistenza di una realtà metafisica che di sè tutto informa e da cui tutto promana; la maggiore o minore difficoltà nella conoscenza di tale realtà, determina una gerarchia, alla cima della quale starà solo chi sarà stato in grado di superare tutte le prove interiori che si frappongono tra la sua persona e la conoscenza.In Renè Guenòn questa ricerca si concentrerà sull’interpretazione delle innumerevoli simbologie esoteriche e le loro interconnessioni, che lo porterà ad entrare nel gruppo esoterico”sufi”, finendo così per l’assumere un carattere intimista.Del tutto diverso è il percorso di Julius Evola: nato nel calderone delle avanguardie artistiche e metafisiche degli anni successivi al primo conflitto mondiale,(da cui erediterà per un certo periodo la vena artistica Dada e la poetica futuristica), passerà da una fase iniziale incentrata sullo studio dell’individuo in rapporto alle varie dottrine esoteriche, cercando di dare a questo lavoro anche un’impostazione filosofica.E’ il periodo della collaborazione con i gruppi di UR e Krur, di scritti come Introduzione alla Magia o Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, periodo questo in cui, accanto all’analisi ed allo studio delle varie dottrine esoteriche(con maggior riguardo a quelle orientali) si fa strada in Evola l’idea base di superare ogni astratta speculazione intorno a questa o quella dottrina per tradurre la conoscenza in realizzazione del sè, che per arrivare a questo scopo di quelle dottrine si dovrà servire.Questo principio troverà presto in Evola la sua applicazione, quando dal piano meramente esoterico, passerà al piano della progettualità politico-filosofica, a partire da “Rivolta contro il Mondo Moderno”passando attraverso “Gli Uomini e le Rovine”, sino all’ultimo “Cavalcare la Tigre”, insieme a molti altri scritti.Comune a tutti questi scritti, è una considerazione: il mondo odierno è espressione di una decadenza epocale, il “Kali-Yuga”indù o “Età del Ferro”di classica memoria, unico per opporsi alla quale è il rimanere ”Uomini tra le Rovine”, ovvero saldamente ancorati a quei principi che da quella superiore realtà metafisica (“Tradizione”) discendono, andando a prefigurare un modello di Stato, quello Organico, che da questi principi attinge direttamente; poco importa se nel suo ultimo scritto di rilievo, “Cavalcare la Tigre”, Evola supera questa concezione di Stato, a causa della sua incompatibilità con la realtà attuale, l’importante è l’agire conformemente a quei principi superiori, aprioristici al mutevole contesto delle realtà umane.Evola come assolutizzatore dell’etica, ecco la grande novità di questo scrittore: l’essere riuscito a porsi oltre la sistematizzazione filosofica, oltre i vari Leibniz, Spinoza, Voltaire, Saint Simon, Blanqui, Marx, Proudhon ed altri ancora, per non essere caduto nel tranello della costruzione teoretica limitata, fine a se stessa, e quindi superabile in ogni momento.Un’etica che essendo superiore,diviene aprioristica a qualsiasi umana e provvisoria costruzione, informando di sè qualsiasi forma dell’agire che possa venire da una ristretta cerchia di persone a ciò adeguatamente preparate (elìtes).Conseguenza diretta di questo principio sarà la valenza di perfezione insita in coloro che delle “elites” fanno parte, e quindi in tutti i risultati del loro agire,frutto diretto di una realtà superiore, eterna e quindi aprioristica (Tradizione).Il superomismo insito nella visione evoliana presenta un vantaggio rispetto a quello di stampo nietzschiano o gentiliano che dir si voglia, poichè per accedere ad uno stadio di superiore coscienza del sè sarà necessario superare tutta una serie di prove La conseguenza diretta di questa impostazione avrà come risultato di rendere perfetto ed inamovibile, tutto ciò che dall’azione delle “elìtes”derivi sul piano pratico: tutto dall’organizzazione dello Stato alla politica spicciola, sarà frutto delle decisioni di un ristretto gruppo dirigente, diretta emanazione in terra di quella Perfezione elevata a metro e paragone di tutte le cose.Evola rappresenta quindi, non tanto una scuola ideologica, un prefabbricato teoretico,quanto una sintesi di stati d’animo, di percezioni aventi per oggetto l’inscindibile rapporto che lega il mondo dell’immanenza al mondo della trascendenza, in questo caso rappresentato da quello dei valori aprioristici  (Tradizione).Questa particolare visione offre un deciso vantaggio sui costrutti ideologici particolaristici: anzitutto può permettersi di informare della propria valenza qualsiasi forma politica, poichè fondata su un criterio aprioristico a qualsiasi transitoria realtà materiale; grazie a questa impostazione Evola in “Cavalcare la Tigre” potrà permettersi di abbandonare a sè stesso lo Stato Organico in nome della perennità del Principio rispetto alla Forma.Secondo poi, l’immobilismo di cui tanto si accusa questo autore, deriva da un’errata interpretazione della nozione di ciclicità della Storia: l’affermazione della decadenza dell’attuale contesto epocale, da cui deriva l’esortazione ad una battaglia di lunga durata, lontana da facili entusiasmi(e delusioni), imperniata sul costante mantenersi aderenti all’Ideale che ha fatto sì che questa visione sia arrivata sin qui ..................in perfetta salute, contrariamente a quanto successo con altri autori come Nietzsche, Sorel o Gentile.Può sembrar strano, ma la valenza iniziatica su cui tanto si insiste per la formazione dell’Individuo, altro scopo ha, se non quello di evitare lo slancio eccessivo di un Io sempre più slegato dall’oggettività e quindi tendente a relativizzare la realtà circostante, per questo più facilmente seducibile da interpretazioni anarcoidi o nihiliste.Questo pericolo è purtroppo insito in tutti quegli autori che in passato nel nome di una concezione vitalistica hanno voluto porre l’accento sull’elemento personalistico senza creare quei giusti contrappesi che un percorso iniziatico, naturalmente dotato di gradualità, viene ad offrire.Il pericolo di questa visione non è insito nella sua sostanza, ma nelle maldestre interpretazioni che di questa sono state date negli anni: se all’ambiente neofascista Evola è stato colui che ha dato alcune certezze ideologiche, evitandone un vergognoso scivolone nel folklorismo che caratterizza molte similari realtà all’estero, dal medesimo ambiente egli è stato fatto oggetto di quel ”rozzo evolismo” interpretativo (di cui giustamente già faceva notare il Freda in un libello di trent’anni or sono) caratterizzato da un’attaccamento letteralista al testo evoliano, per cui si è finito col dar risalto all’utopico tentativo di costruire uno Stato Organico, facendo affidamento ai cossiddetti “gruppi d’elìtes” delle forze armate , o, peggio ancora, coll’interpretare l’invito all’agire distaccato dalle conseguenze, come un incitamento alla lotta armata ed all’etica del ”beau geste”, sino ad arrivare ad un volontario appartarsi dal mondo, in una messianica attesa della fine del “Kali Yuga”.Ciò non toglie, comunque, che il pensiero evoliano, come tutte le scuole di pensiero fondate sulla percezione irrazionale di uno stato della realtà, possa far fatica ad entrare nel concreto della propositività a tutto campo, frutto com’è del particolarissimo percorso interiore di un’inizato, di un’artista, che alla fine si risolverà nella preferenza all’etica pura, slegata da qualsiasi forma di modello propositivo.A questo punto sarà necessario operare una distinzione a tutto campo per evitare quello che rischia di divenire il problema su cui si incaglieranno sempre di più le varie forme dell’agire politico antagonista: la sempre maggior contraddizione tra l’Ideale e la vita reale, in un’antinomia che sembra insolubile.Questo problema non rappresenta certo una novità, ma l’accelerazione dei tempi a cui stiamo assistendo dovuta alla globalizzazione impone una riflessione in questo senso.Il problema non è, a mio parere, il modello “socialista” o quello di un mercato più “libero”, nè quello tra Stato Centralista o Stato Federale, ma in quale rapporto essi vadano posti rispetto ad una realtà assoluta, atemporale, quale l’Etica Ideale o Mondo della Tradizione, che dir si voglia.I primi possiamo dire debbano esser posti nell’ordine delle Categorie Transitorie, utili strumenti concettuali per una corretta interpretazione della realtà socio economica del momento, i secondi vanno invece collocati nell’ordine delle Categorie Aprioristiche, dotate della capacità di informare della propria valenza qualsiasi Categoria Transitoria, senza comunque esserne coinvolti nelle mutevoli vicissitudini.Solamente in questo modo si potrà evitare quella pericolosa tendenza all’utopizzazione, che della filosofia e della sua funzione rappresenta la morte, andando in questo modo a spianare la strada alle dottrine “liberal”, molto più “concrete” a detta dei loro fautori.Un esempio per tutti la Scuola di Francoforte, che del complesso fenomeno ribellistico del ‘68 e delle sue energie rivoluzionarie, sarà la castratrice, proprio a causa dello stupido negazionismo portato avanti da Horkeimer ed Adorno prima, e da Marcuse dopo, in nome del quale per arrivare alla ”liberazione totale” sarebbe stato necessario negare continuamente tutto ciò che avesse la parvenza di un sistema organizzato, dallo Stato all’Arte sino all’ideologia, in quanto sistema di potere, offrendo così, sin troppo facilmente, il fianco al “concretismo” del modello di sviluppo occidentale.Questa problematica ci rimanda, tra l’altro, ad un problema che della filosofia occidentale costituisce il “leit motiv”: il contrasto tra idealismo e razionalismo.Dall’idealismo di Socrate e Platone deriverà la morale, la tendenza alla perfezione rappresentata dall’ideale, la Fede, ma anche il Dogma, l’intransigenza, l’indiscutibilità, la cui unica via d’uscita sarà l’agnosticismo, il relativismo, la perdita di ogni certezza.Da Aristotele deriverà la ragione, il voler confutare anche con i fatti ciò che si afferma, ma anche l’empirismo elevato a sistema d’interpretazione totale e quindi il meccanicismo, il materialismo, la cui unica via d’uscita sarà rappresentata dal relativismo e dalla perdita di ogni certezza.Questa considerazione ci pone dinnanzi ad un altro quesito: è possibile offrire una giustificazione razionale all’Assoluto? Sì a patto che si voglia scindere i due sistemi base originari, cioè platonismo ed aristotelismo dalle loro successive degenerazioni.Se il platonismo dà una definizione della ragione d’essere del mondo , cioè l’essere l’imperfetto riflesso della perfezione, l’aristotelismo invece si cura di disvelarne i razionali meccanismi di funzionamento; la definizione di Dio come “motore immobile dell’Universo”, è in questo senso, esemplificativa di ciò che di un nuovo modo di pensare dovrà costituire la base, cioè l’apriorismo razionale giustificativo della realtà assoluta del mondo delle idee.Coniugando la metodologia aristotelica con le finalità platoniche, si potrà uscire dal vicolo cieco del dogmatismo senza risposta e dalle secche dello scetticismo materialista, determinando così un pensiero in grado di rispondere colpo su colpo alle continue sollecitazioni che vengono da una realtà in continuo mutamento.Una forma di pensiero dotata di criterio di autogiustificazione razionale delle proprie Categorie Aprioristiche, darebbe al soggetto la facoltà di muoversi nel mondo come artefice di nuovi apriorismi o Tradizioni, fornendo così linfa vitale ad un “corpus” ideale che altrimenti rischierebbe di limitarsi alle sole radici senza sviluppi vitali.

Analitici e continentali.

Prospettive del pensiero contemporaneo.

 

All’inizio del nuovo millennio, di fronte all’incalzare della Globalizzazione e delle sue asfissianti logiche, sempre più urgente si fa la necessità della comprensione di quelli che, dell’attuale scenario del pensiero, rappresentano gli assi portanti in grado di influenzare ed orientare un intero assetto epocale; perciò la conoscenza delle contemporanee correnti del pensiero e delle prospettive da esse aperte ci può spalancare la prospettiva di operare una più incisiva e penetrante azione sull’attuale contesto. Con Analitici e Continentali, l’attuale storia della Filosofia intende due correnti di pensiero che, più che differenziate visioni del mondo, rappresentano due sistemi di approccio allo studio ed alla definizione della realtà. Questo perchè spesso e volentieri i motivi di riflessione o le conclusioni dell’una, vengono ripresi e sviluppati secondo i criteri di analisi dell’altra. Ma cerchiamo di procedere con ordine. La filosofia del Novecento porta sino alle conseguenze estreme la tendenza che, propria dell’intero ambito del pensiero occidentale dal 17° secolo in poi, fa dello smantellamento di qualsiasi visione superiore ordinatrice del mondo il proprio “leit motiv”. A partire dalle scuole di pensiero empiriste e razionaliste, passando attraverso le riflessioni di Kant e di Hegel, l’esistenza della realtà esterna e la logica domanda su “quale” sia la natura che ne anima l’esistenza, vengono sempre più trasposte sul piano dell’immanenza, ovvero della coincidenza tra il piano della percezione individuale e la realtà stessa che, in un certo senso, diviene un’emanazione di questi ultimi. Questo perché tutto il pensiero che dal Seicento arriva alla fine dell’Illuminismo, sempre di meno riesce a dare una spiegazione sull’essenza della realtà, portando Kant a definire la realtà “si et si” con il termine “noùmeno” che ne designa l’assoluta inconoscibilità, arrivando in tal modo ad affidare la definizione di quest’ultima ad una serie di concetti “a priori”, che della conoscenza rappresentano veri e propri elementi basali. Le intuizioni dello spazio e del tempo, gli schemi, i concetti, le categorie, le idee, sono definiti “trascendentali”, poiché debbono per l’appunto trascendere la realtà senza però rappresentarne l’essenza che permane dunque a noi ignota. Gli “a priori” kantiani permettono però all’uomo di adeguare a sé stesso quella realtà, che in tal modo risulterà impressionata e plasmata dalla mente umana e non viceversa. Hegel riprenderà questo tema portando a coincidere il piano della realtà esterna con il pensiero universale, eliminando definitivamente qualunque superiore piano della realtà che, sia pure inconoscibile, ancora sopravviveva in Kant. Credendo di risolvere il problema della definizione della realtà, scardinando la metafisica ed affidando al procedimento dialettico la determinazione di quest’ultima, Hegel ha involontariamente spalancato la strada al materialismo dei vari Feuerbach e Marx, dopo aver cercato di creare l’ultimo grande sistema di pensiero della storia occidentale. L’immanentismo hegeliano trova un logico sbocco nel materialismo, non senza esser stato accusato dai propri stessi discepoli di esser ricaduto in quella metafisica che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuta esser sostituita da una grandiosa costruzione del pensiero.

Il 19° secolo assiste ad una progressiva riduzione del ruolo di formazione universale che sino a quel momento era stato proprio della Filosofia, grazie all’impostazione del Positivismo che oltre a dare spazio e rilievo alle nuove scienze della società (sociologia, psicologia, antropologia, etc.), favorì non poco quell’ interazione tra Scienza e Filosofia che avrebbe di lì a poco portato a degli sviluppi di primaria importanza. Un primo abbozzo di quella che sarebbe divenuta la distinzione principe del quadro filosofico del Novecento, si verifica proprio con l’apertura del mondo della filosofia a studiosi provenienti da altre discipline che nella Filosofia vedono una disciplina di supporto e di riconferma ai propri studi. Da Mach ad Avenarius, passando per Brentano, Shuppe e tanti altri ancora, fisici, fisiologi, psicologi e matematici entrano di prepotenza nel mondo della filosofia influenzandone le coordinate di pensiero. Va così sempre più facendosi largo l’idea di un’esperienza immanente a se stessa che, mutuata dal criticismo kantiano viene stavolta radicalizzata, tramite l’ “introiezione” del soggetto osservatore all’interno di quella stessa esperienza.

Alla concezione di un mondo risultante dal continuo scorrere di un fluido di esperienze, percezioni, sensazioni si affianca la domanda su come definire “oggetti puri” quali numeri, enti geometrici ed altri, con i mezzi scientifici e filosofici a disposizione. In tal modo la logica matematica e la psicologia entreranno di prepotenza nel ruolo di comprimarie protagoniste del dibattito filosofico. Saranno Frege ed Husserl coloro che cercheranno di dare una risposta al tentativo di chiarire il modo d’essere di cose che, pur esistendo nell’ambito dell’astrazione trovano un’esatta rispondenza nel mondo reale.

Nonostante il comune punto di partenza, i due pensatori arriveranno a diverse conclusioni, gettando così le premesse per la futura dicotomia tra filosofi analitici e continentali. Difatti mentre in Frege l’intera realtà è il risultato di una serie di rapporti logico-matematici, per Husserl invece va sottolineata la genesi della realtà a partire dal “fenomeno” (da cui la nascita del termine “fenomenologia”) in cui essa si manifesta, sino al procedimento che rende tale nel suo “darsi” quella stessa esperienza, ritornando così al trascendentalismo kantiano e dando un rilievo di prim’ordine alla mente ed al suo modo di percepire l’ “esperienza”. Da una parte si fa strada un’idea della filosofia come branca del sapere strettamente interrelata alle scienze, dall’altra si fa sempre più strada l’idea di una rifondazione della medesima su basi autonome dalla scienza, cercando di accentuarne il carattere violentemente antimetafisico, tramite il recupero di motivi kantiani ed hegeliani. La ricerca di un motivo “a priori” da applicarsi anche ad altre branche della cultura quali la storia, l’arte, etc., porta però ad una contaminazione del risorto kantismo con motivi vitalistici ed irrazionali, quali quelli portati avanti dallo storicismo di cui i Dilthey, i Simmel, gli Spengler, i Troetsch ed altri ancora sono illustri rappresentanti. Qui la storia viene assunta come ambito di fondazione e vita della pratica filosofica, in grado di regolare con le sue leggi lo svolgersi degli eventi storici, politici, religiosi o sociali che dir si voglia. In questo modo, quelli che erano i presupposti per una rifondazione razionale e scientifica della filosofia, vanno sempre più confondendosi con i motivi dell’irrazionalismo vitalistico che, a partire da Nietzsche non avevano mai smesso di essere presenti nel pensiero occidentale, contaminandone di volta in volta i motivi. E’ quanto si ripeterà con la nascita dell’esistenzialismo, che vedrà nella figura di Heidegger colui che svilupperà gli insegnamenti neokantiani di Husserl su un piano di riflessione totalmente estraneo a quello originale, ovverosia quello del problema dell’Essere e più specificamente di quell’ “ex-sistere”, inteso come oscillare tra Essere e Nulla che caratterizza la vita umana. E’ dunque la necessità di assecondare l’irresistibile flusso del Divenire che sovrintende alle scelte di pensiero dell’ultimo secolo. La stessa filosofia scientifica nata in ambito viennese dalle riflessioni di Wittgenstein, Russell, Moore, Popper ed altri ancora, vede nella filosofia un semplice supporto logico-linguistico in grado di rendere più chiaro il percorso delle scienze che, ora sempre più settorializzate, rifuggono dall’offrirci qualunque visione di portata più elevata.

La tripartizione tra filosofie della ragione (marxiste e neoidealiste in genere), della scienza (Wittgwenstein e compagnia) e dell’esistenza (Heidegger, Sartre, Jaspers), in cui sembrava essere stato contestualizzato il pensiero verso gli anni Trenta del Ventesimo secolo, va incontro ad un’ulteriore “contaminatio”. Le filosofie marxiste di Lukàcs e della scuola di Francoforte (Adorno, Horkeimer, Marcuse), sempre più prendono coscienza dell’impossibilità di una ragione a senso unico, dando un colpo d’acceleratore alla crisi ideologica del marxismo e finendo con l’accomunarsi ai motivi delle scuole esistenziali. Lo stesso filone esistenzialista viene affiancato e superato dall’idea di “struttura” come fenomeno in grado di determinare la fondazione della realtà e per ciò stesso dotato di una propria scientificità, di cui antropologi come Levi-Straùss, epistemologi come Foucault, linguisti come De Saussure sono un eloquente esempio. Allo strutturalismo tocca il medesimo destino delle altre scuole di pensiero: ovvero quello di essere superato in nome di un post-strutturalismo che ne accentua il lato più dinamico ed antiscientifico di, ricollegandolo tramite Deleuze al vitalismo nietzschiano. Affiancato al pensiero strutturalista sarà la scienza dell’interpretazione del linguaggio, visto come mezzo per accedere all’interpretazione dell’essere nelle sue svariate manifestazioni. Ultima costola del pensiero heideggeriano l’ ”ermeneutica”, troverà in Gadamer (oltrechè in Pareyson, Vattimo, Apel, Derrida, Habermas) il proprio esponente di maggior rilievo. E sarà proprio Gadamer colui che rivaluterà la nozione di “tradizione” che, in quanto parte di quel “pregiudizio” che orienta il nostro modo di vedere la realtà, rappresenta il tessuto connettivo con cui dialogare con il passato; tutto questo sempre grazie alla propria eredità linguistica.

La filosofia scientifica, trasferite le proprie teste pensanti negli States all’indomani dell’avvento del Nazismo in Germania, si trasforma ben presto in Filosofia analitica. I vari Quine, Austin, Putnam, ed altri ancora raccoglieranno la staffetta dei Wittgenstein, dei Russell e di tutti coloro che avevano dato inizio alla scuola di pensiero della filosofia scientifica. Sorge così la distinzione tra una filosofia più legata ad un criterio di interpretazione scientifica del mondo, le cui basi saranno nel mondo anglosassone, ed un’altra invece legata ad un criterio di interpretrazione che risente della tradizione umanistica, rappresentata dagli altri indirizzi di pensiero di cui abbiamo poc’anzi trattato. Va detto che ambedue le scuole sono accomunate da un unico motivo trainante: quello della fine della metafisica e di qualsiasi teoria veritativa in grado di dare un’ordine al mondo. Non solo. Ad accomunare ulteriormente ambedue le scuole sarà l’uso della lingua come criterio di interpretazione o verifica della realtà che si tratta. La filosofia analitica, al pari dell’esistenzialismo del tardo Heidegger o delle interpretazioni strutturaliste ed ermeneutiche, hanno fatto del linguaggio un importante veicolo di trasmissione ed interpretazione delle modalità di espressione dell'essere. Sicchè alla contrapposizione analitici-continentali si è preferito parlare di una contrapposizione tra filosofia “continua” e filosofia “discreta”, laddove con la prima si intende un indirizzo di pensiero in grado di ragionare su grandi sistemi e problematiche (come nel caso dei “continentali”), nel secondo un indirizzo rivolto a tematiche settoriali, proprie di una filosofia più legata al sapere scientifico. Su tutto questo panorama incombe l’avvento della Post-Modernità, vista ed interpretata da autori come Lyotard come dissoluzione di quella logica, che in qualche modo aveva retto le sorti della Modernità. Il Post-Moderno è così percepito come una particolare combinazione di dialettica e differenza, con cui tutti gli autori che abbiamo menzionato dovranno fare i conti. Ad una realtà sempre più tecnologizzata, informata ed interconnessa, fa da contraltare un pensiero sempre più in difficoltà. La fine del Logos occidentale è percepita sia come avvento definitivo della tecno-economia che come nuova possibilità per la rinascita di un pensiero non scientizzato. All’insegna di un recupero di Marx, Freud e Nietzsche si inaugurano concezioni all’insegna di un “pensiero debole”, in cui accanto a riprese di motivi ermeneutici si riprende il pensiero nicciano sminuendone la carica vitalistica (Vattimo), in un contesto volto a ricuperare il pragmatismo (Rorty), arrivando a preconizzare un quadro caratterizzato dall’assoluta differenza e pluralismo delle visioni, che al massimo possono agire ed intercomunicare tra loro in un contesto caratterizzato da un assoluto rifiuto dell’universalismo (Kuhn, Quin, Jonas, Levinas, Habermas, etc.). La Post-Modernità da un lato ci si mostra come  età dell’informe: l’economia resa sempre più agile nelle proprie strutture dal sopravvento della tecnologia informatica avvolge il mondo in una totalità informe senza soluzione di continuità. Dall’altro si fa portatrice di un assoluto relativismo che, presentandosi come rifiuto di qualsiasi universalismo del pensiero spalanca però la strada a soluzioni sin qui inaspettate. La strada da percorrere sembra quella del procedimento dell’autoconfutatività, ovvero la possibilità che qualunque teoria o idea possa essere contraddetta in base a quelle che ne rappresenrano le premesse logiche. Il proclamare il relativismo di qualunque nostro assunto, per esempio, equivale a proclamare, di fatto, una verità assoluta. Con la fine dell’idea di verità si spalanca la strada all’autoconfutatività di qualunque asserto logico, mantenendo così aperta la prospettiva di una pluralità di punti di vista, riconfermando in parte quanto da Nietzsche e poi da Heidegger enunciato, riguardo al nichilismo come destino del Logos occidentale. Questo punto di vista non è unicamente frutto del percorso intellettuale delle scuole “continentali”, bensì è frutto di un’ottica sviluppatasi all’interno di quella stessa filosofia “analitica”, dalla matrice più scientizzante rispetto alla prima. Qui l’impostazione della scuola popperiana porterà ad una visione del progresso delle scienze inteso non tanto come il sedimentarsi di nuovi e più innovativi saperi sulle basi di precedenti scoperte, (impostazione questa, tipica della “forma mentis” illuminista) quanto sul  criterio di “falsificabilità” delle vecchie teorie scientifiche da parte di quelle nuove. Da queste considerazioni fuoriesce un panorama contrassegnato da un pensiero tutto all’insegna della contraddizione tra la molteplicità dei modi di vedere e l’invalidamento di questi ultimi, grazie alla natura di reciproca autocontraddizione che li caratterizza. Il quadro contraddittorio che abbiamo poc’anzi delineato, se da un lato paralizza il “logos” occidentale nella sua più intima essenza andandone ad invalidare le capacità di elaborazione concettuale, dall’altro sembra invece non toccarne la più esasperata applicazione nel concreto, di cui il pensiero Tecno-Economico rappresenta oggidì la più tangibile espressione. Caratterizzata da una crescita esponenziale negli ultimi tre secoli, tale forma di pensiero sopravvive e prospera proprio grazie a quell’autoconfutazione che le permette un continuo lavorio di sofisticazione ed affinamento. La divaricazione tra “Logos” occidentale e pensiero Economicistico si verifica quindi in virtù delle diverse necessità di cui questi si fanno portatori. Il “Logos” filosofico si rivolge indistintamente all’intera realtà come “res extensa” e finisce con il rispondere quindi ad una necessità ordinativa di tipo universale che, per quanto caricata di contenuti relativistici, finisce con l’impantanarsi nella palude dell’autoconfutatività, grazie alla possibilità di elaborare un’infinità di modelli teorici a carattere universale. Non altrettanto si può dire dell’economicismo il cui orizzonte  è limitato dalle leggi del profitto che rispondono ad una precisa esigenza, per cui la contraddizione di un qualsivoglia principio deve giuocoforza spalancare la strada alla possibilità di un sempre maggior godimento individuale, (che è poi il principio primo a cui fanno capo le leggi del profitto). L’esempio della Globalizzazione economica, la cui realtà dovrebbe teoricamente permettere il maggior fruimento di beni economici a minor costo in tutto il mondo, finendo invece con il restringere ad una ristretta oligarchia economica tale fruimento, dovrebbe esserci d’aiuto. L’unica via d’uscita verrebbe rappresentata da una nuova sintesi di pensiero, una vera e propria testuggine in grado di coniugare in sé tanto le spinte verso il divenire e la trasformazione, quanto le tendenze a dare un contenuto stabile e durevole a quanto di meglio appreso dalle nostre esperienze, investendolo di quella proprietà specifica, di quella dignità di “essere”, che mai più viaggerà disgiunta dal proprio opposto “divenire”. Il continuo autoconfutarsi e contraddirsi del Logos occidentale altri non è che il segnale di un pensiero che va sempre più aprendosi alla possibilità del nascere di nuove ed inusitate sintesi, portatrici di verità che ancora una volta sconvolgeranno e meraviglieranno il mondo. Nonostante il momento sconfortante dunque, Ia lunga marcia del pensiero è ben lungi dall’essere compiuta…

Il Nietzsche scorretto di Deleuze

Quella di Nietzsche è una figura la cui opera si è sempre prestata ad interpretazioni parziali, incomplete e troppo spesso all’insegna di una faciloneria interpretativa che, lungi dal chiarirne l’essenza, ne ha invece reso ancor più difficile una comprensione in sé già molto ostica, a causa della particolarissima prosa, molto spesso all’insegna dell’aforisma.

Nello scrivere “Nietzsche e la filosofia” nel 1963, Deleuze dà inizio ad una rivalutazione dell’intera opera del grande filosofo tedesco sino a quel momento vissuto in uno stato di quasi-rimozione all’interno della memoria collettiva europea a causa dell’accostamento del suo pensiero con l’avvento del nazional socialismo, considerato il suo grande erede spirituale. Nell’intento di portare Nietzsche dalla propria parte, Deleuze svolge un’eccellente opera di interpretazione e chiarimento del troppo spesso oscuro pensiero di quest’ultimo. Alla base della riflessione nietzschiana sta, secondo Deleuze, l’idea di un mondo visto come una perenne lotta tra forze, “attive” le une, “reattive” le altre. Le prime sono espressione di quella “volontà di potenza” creatrice e plasmatrice di una realtà priva di ordine o finalità precostituite, le seconde sono all’insegna di una passività e di una debolezza che rasentano l’autodistruzione. Le une all’insegna della gioiosa accettazione del divenire, le altre all’insegna dell’inerzia e di un esacerbato risentimento contro tutto ciò che è vita, bellezza, solarità. Risentimento, cattiva coscienza, ipocrisia, sembrano aver ragione sulle forze attive, assumendo via via una posizione di preminenza nell’incessante fluire della Storia. Tramite un lento, ma incessante lavorio, le forze reattive incarnate nel risentimento intaccano quella spinta vitale rappresentata dalla tragedia greca, quintessenza della civiltà ellenica, che andrà in tal modo a trasformarsi in una civiltà all’insegna della dialettica socratica, volta a negare con il suo continuo domandare “che cosa”, l’essenza della vita stessa. Ma ben presto quel contrasto nato tra Dioniso (le forze attive) e Socrate (le reattive forze della dialettica), si andrà man mano imperniando su quello, sempre più micidiale, tra lo stesso Dioniso e Cristo. Il sordido risentimento che trova la sua calzante personificazione nel “prete ebraico” (lontano mille miglia dai primi ammirati re delle Scritture che dovevano fare i conti con un dio vendicativo ed irascibile, egli stesso perciò oggetto da parte del Nietzsche di ammirazione) trasferisce e commuta la propria natura nel prete cristiano, personificazione di colui che tutto interiorizza, sinanche sofferenza, pathos e dramma, rendendo la vita una negazione di sé stessa, intrisa di un triste ed esacerbato pessimismo. Subire, farsi carico, nel nome di un qualcosa di consolidato ed esterno all’uomo: ecco ciò che man mano distrugge la volontà di potenza, invertita e soppiantata dall’uomo che grazie al supporto della “techne” sostituisce sé stesso ad un Dio miserello e tremebondo. L’uomo superiore è vittima anzitutto di sé stesso e del proprio attaccamento a quelle forze inferiori, reattive che lo trascineranno sino alla volontà di autoannullarsi nella propria dolce passività, dopo aver reso nulla sé stesso ed il mondo, oramai ridotto ad un vuoto guscio di esteriorità. Ma, proprio quando tutto sembra perduto, a soccorrerci interviene l’interpretazione deleuziana di Nietzsche. Il mondo è un caos la cui unica legge è quella del prevalere dell’una o dell’altra forza, mosse dalla volontà di potenza. Né morale, né valori, né concetti consolidati trovano posto in esso, se non per fermarne e deprimerne l’incessante flusso, manifestazione di un essere caratterizzato da una vitale molteplicità. La spinta della volontà di potenza fa sì che in tale mondo riescano a perpetuare e quindi a ripetere il proprio agire, solamente le forze all’insegna della più totale affermatività. In quell’infinito lancio di dadi che è la partita dell’Essere, la vittoria è destinata ad arridere ed a ripetersi in eterno per colui che lancerà i dadi con volontà affermativa. Il debole, il reattivo, il risentito, arrivati infine ad annullare sé stessi, si trasmutano in totale affermatività. La malridotta crisalide dell’uomo nichilistico attaccato ai finti valori, il perdente risentito che sfoga le proprie frustrazioni, interiorizzando ed attribuendo ad eteree sfere spirituali ciò che è nel mondo, dovrà così lasciare spazio a colui che, oltre l’umano, rinnoverà la propria volontà affermativa, creando nuovi valori, aprendo nuove prospettive, spalancando nuovi orizzonti, restituendo alla filosofia quella funzione creatrice in grado di rinnovare negli occhi di chi guarda il mondo, stupore e bellezza senza fine.

Tony Negri il confuso

Un testo denso, pesante, la cui lettura necessita di una facoltà di concentrazione fuor dall’ordinario e di una perfetta conoscenza del “politichese” di sinistra, gergo questo in cui “Impero”, l’ultima fatica intellettuale dell’arcinoto Antonio (per gli amici “Toni”) Negri, è scritto ed elaborato. Un testo che sicuramente non maca di offrirci degli interessanti spunti di riflessione, tutti destinati ahimè, a far da supporto a conclusioni che non condivisibili a causa della tara, per così dire, “genetica” che ne accompagna il percorso. Ma andiamo per gradi. Il testo negriano vuol essere un po’ una sorta di vademecum, un “Che fare” attualizzato ad un presente caratterizzato dalla problematica della Globalizzazione. Una Globalizzazione che Negri preferisce chiamare “Impero” e di cui ravvisa le origini in quei teorici come Grozio, Pufendorf, Locke e Hume, che dell’idea di un’equilibrio internazionale degli stati, sotto il profilo ordinamentale, si fecero in qualche modo portatori. Una concezione questa, che troverà negli scritti del Kelsen, una delle sue più attuali codificazioni, visto che questi partecipò ai lavori preparatori alla creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Impero è dunque per Toni Negri la formazione sovrastatuale che succede ai vecchi Stati nazionali; una formazione che, caratterizzata dall’assenza di confini o limiti statuali predeterminati, si snoda lungo un asse organizzativo orizzontale, alla stessa maniera della nuova forma di struttura economica che sta adesso profilandosi con  l’avvento della cosiddetta “economia dell’accesso”. Un Impero globale che, nelle vesti di un’entità amorfa ed onnicomprensiva, riesce a vivere grazie alla dinamica sfruttati-sfruttatori, per cui in base ad ogni sollecitazione delle masse scontente e sfruttate deve giuocoforza corrispondere un adeguamento nei processi e nelle strutture che sovraintendono al funzionamento dell’Impero medesimo. Un Impero le cui radici stanno in quel processo che nei primi secoli dell’Età Moderna, vede il trasferimento dell’oggetto del pensiero dal piano della trascendenza, a quello dell’immanenza e della secolarizzazione che, nello sperimentalismo scientifico ed in una concezione “costituente” della vita partecipativa, trova i propri principali punti di forza. Da Nicola Cusano a Pico della Mirandola, da Charles de Bouvelles a sir Francis Bacon, la riflessione si appunta dall’ “altro da sé” all’ “homo-homo”, l’uomo al quadrato come quintessenza di individualità e potenza. Ben presto il piano dell’immanenza e quello della politica vanno a coincidere, dando smalto alle teorie politiche di Marsilio da Padova, Tommaso Moro ed, in ultimo Spinoza, con il suo concetto di assolutezza della democrazia. Una Rivoluzione dunque, contraddistingue la nascita della Modernità, una controrivoluzione, da allora in poi, la seguirà, in nome di una concezione dualistica della Storia stessa. Una controrivoluzione tutta all’insegna del trascendentalismo e della metafisica dello Stato che in Hobbes, al pari di Rousseau con il suo “assolutismo repubblicano” troveranno dei valenti apologeti. Due tendenze sono lì, dunque, a fronteggiarsi: quella che vede nell’irrefrenabile processo di liberazione delle masse dal bisogno (e dunque da quelle sovrastrutture che del bisogno sono il motivo principale) ed un’altra che nella metafisica della “struttura” ha il proprio momento fondante. All’insegna della più totale inconciliabilità, queste due concezioni si batteranno lungo tutto l’arco della Storia, plasmandone vicende ed eventi.

E così sarà con l’avvento del capitalismo, seguito dal sorgere degli Sati-Nazione coloniali, veri e propri strumenti per l’espansione del modello capitalista. Un capitalismo che, alla fine, si dovrà sbarazzare degli Stati-Nazione coloniali, perché fortemente limitativi per lo sviluppo globale del capitale. E qui si fa avanti un altro di quegli elementi di dualità, che fanno da cornice all’intero quadro della storia: il contrasto tra la concezione della Nazione come limite mutuato dall’Illuminismo e la concezione imperiale del non-limite di cui le varie costruzioni imperiali succedutesi nell’arco dei secoli, sono l’esempio più pregnante. Ma il fondamento costituzionale dell’Impero è anche equilibrio, armonia, bilanciamento tra le esigenze di centralità e di localismo, in un ambito spaziale aperto, senza confini messi lì ad ostacolare l’aspirazione dell’individuo alla libertà. Tale pulsione trova in Età Moderna il proprio momento fondante nella nascita degli Stati Unitti d’America. E qui il Negri sottolinea la diversità dell’imperialismo americano rispetto a quello delle precedenti esperienze, in quanto quest’ultimo si fa portatore di un nuovo ordine giuridico sovranazionale. Lo stanno a dimostrare le miriadi di interventi effettuati in nome della “pace”, contro le violazioni dei “diritti umani” e quant’altro. Interventi quasi mai effettuati sotto l’egida del nazionalismo, bensì sempre e solo nel nome di quell’ordine mondiale che ebbe in Woodrow Wilson uno tra i primi e più sfortunati fautori (questo a detta del Negri!).

Gli Usa come strumento e non causa dell’Impero dunque. Gli Usa come contraddizione tra una concezione aperta alle istanze ed alle spinte alla partecipazione delle masse ed alla contemporanea negazione di questa.

Gli Usa come stato in continua espansione alla perenne ricerca di quella Nuova Frontiera, che ne rappresenta la benedizione e la maledizione al contempo, visto che di tale ricerca dovranno farne le spese i popoli di mezzo mondo. Il tutto in contrasto con la concezione degli Stati-Nazione, vera e propria iattura dei popoli, odioso veicolo di guerre e di distruzione che, per uno strano destino diverranno alfine il freno ad un capitalismo sempre più in cerca del superamento dei proprilimiti territoriali. E qui ritorna la concezione di Lenin e della Luxembourg sulla necessità primaria del capitalismo di espandersi all’infinito, pena l’implosione su se stesso. L’Impero rappresenta la più alta realizzazione del capitalismo, in quanto ne delocalizza centri decisionali e strutture, fluidificandone e velocizzandone le dinamiche grazie all’avvento delle reti informatiche, globalizzandone insomma dimensioni e portata. Ma, come abbiamo sopra accennato, lo stesso Impero è condizionato nel proprio sviluppo, alla dinamica sfruttatori-sfruttati. Terminata l’età del proletariato industriale, la qualifica di proletario è oggidì divenuta coestensiva: riguarda cioè tutti coloro che sono, in un qualche modo dipendenti e sfruttati dai processi della nuova economia. Non più masse, ma “moltitudini”, migranti, variopinte e multicolori. Moltitudini che hanno fatto della tecnologia una vera e propria irrinuciabile appendice della propria corporeità; di quella corporeità, espressione di quel principio di immanenza che deve rivestire la realtà in ogni suo aspetto. Corpi che si spostano, vivono, producono, in un contesto “comune” sempre più facilitato da una società strutturata in reti, e che favorisce il sorgere di una nuova solidarietà. Corpi che migrano ovunque e che, nel loro migrare hanno diritto a risiedere ovunque lo desiderino. Salario di cittadinaza e riappropriazione della conoscenza tramite la lotta sono le proposte cardine che dovranno portare in direzione di una democrazia assoluta autogestita dalle moltitudini, espressioni viventi di quel “comunismo ideale” che il Negri vede incarnate nelle figure della militanza antifascista ed anticapitalista di sempre, tra cui, molto incautamente, il nostro vede una premessa nella vicenda del Poverello di Assisi. Un’analisi senza dubbio interessante, se non fosse per un vizio di fondo che ne inficia sin dall’inizio la validità: il voler curare un male con un rimedio identico o addirittura peggiore di ciò a cui si vuole por rimedio.

Così è con il capitalismo globale, la cui cura viene dal Negri ravvisata proprio in quel materialismo che del capitalismo stesso costituisce la radice ed il fondamento primari. Se andiamo a ben vedere, il Negri ravvisa nelle spinte della prima Modernità occidentale, il momento “clou” di tutta la costruzione del suo libro. Una Modernità che parte all’insegna di un egotismo accentratore, di quella coincidenza tra dimensione immanente del pensiero e politica, che ben presto spalancherà le porte al sopravvento dei ceti mercantili prima, dei capitani d’industria dopo. Il tutto dimenticando che l’ “Homo-homo” altri non è che l’espressione di una visione tutta incentrata sul ruolo spirituale dell’uomo nelle vicende del creato. Un ruolo in armonia con un ordine universale misterioso, di cui le allegorie paganeggianti sono le più evidenti espressioni. Il Rinascimento come lo stesso Barocco, d’altronde, vivonola contraddizione di un’epoca le cui pulsioni più irrazionali e profonde, devono convivere con le prepotenti spinte della Modernità. Il nucleo individualistico ed egotistico della Modernità porta già in sé i germi del capitalismo globale, che quindi conoscerà uno sviluppo costante, di cui la tanto decantata costituzione degli USA rappresenterà invece un momento portante. La visione di una Storia tutta incentrata sul contrasto tra chi sfrutta e gli sfruttati, è sintomo di una visione pericolosamente unidirezionale, vecchia, che altro non fa che ripercorrere e ripetere i vecchi equivoci che hanno permesso al capitalismo globale i vincere. L’odierno approccio alla realtà deve eseere giustamente il più multidisciplinare possibile, prendendo in considerazione i molteplici aspetti dell’intera realtà, e non solo uno come in questo caso. La vittoria dell’immanentismo, il totale rifiuto di qualsiasi dimensione metafisica o trascendente, porta diritto all’economicismo; qualsiasi opzione alternativa diviene parte di quell’oramai inutile collezione di utopie, destinate anzi ad alimentare e rinforzare un sistema. La più recente dimostrazione di quanto detto ce la dà il ’68, trasformatosi in una semplice rivolta di costume, grazie alla carica di utopismo trasmessale dai vari Marcuse. Non solo. La concezione di una società imperniata sul “nomadismo” e la migrazione, sullo spazio aperto dell’Impero universale, finirebbe con il divenire il regno della cuccagna per un’economia, che potrebbe così finalmente rivolgersi ad un mercato aperto di sette miliardi di individui, esposti a tutte le sollecitazioni possibili ed immaginabili da un sistema mediatico oramai organizzato in reti globali di comunicazione. Oppressi e circondati dalla sfera dell’economicismo, gli abitanti dell’Impero dovrebbero autoindebitarsi ed impoverirsi per garantire un “salario di cittadinanza” a chi si trovasse a condurre una vita errabonda, migrando da un luogo all’altro. Non più luoghi, non più spazio, non più identità, ma solo pulsioni materiali all’insegna di una Globalizzazione, che assurta a fenomeno universale, deve poter continuare nella propria scellerata corsa al consumo ed allo sfruttamento, pena finire come l’altro imperialismo, quello marxista, oramai ridotto allo squallido ruolo di comprimario del capitalismo, per non essere riuscito ad affermare la propria utopia a livello universale. Per ironia ciò che Lenin aveva predetto per il capitalismo si è verificato invece per il marxismo, con buona pace per tutti coloro che, come Toni Negri, si fanno protagonisti di tentativi ora conditi in salsa di buonismo francescano, ora di squallido utopismo antifascista.

Una risposta a Costanzo Preve

Ho letto con attenzione e, lo confesso, con una certa dose di rammarico, la risposta del Prof. Preve alla mia non recente recensione sul suo libro “La filosofia alla rovescia”. Con rammarico, ripeto, perché una certa acredine nel linguaggio critico non può e non deve esser confusa per insulto; essa delle volte può derivare da una certa foga espressiva, sicuramente in grado di generare un linguaggio forte e colorito in cui taluni di noi si lanciano, quando trovano qualcosa di “curioso” e perciò stesso interessante, su cui creare quel continuo “polemos-conflitto” di idee, in grado di alimentare un sano e costruttivo dibattito. Se poi quella sana curiosità è determinata da un volume dalle ridotte dimensioni tipografiche e perciò stesso definibile come “volumetto”, anziché da uno smisurato trattato etico-politico, la cosa dovrebbe solo che costituire ragione di vanto visto che, in questo caso, a destare interesse non sono le dimensioni, ma quei contenuti sui quali desidero “hic et nunc” effettuare un quanto mai doveroso chiarimento, a scanso di ulteriori equivoci. Punto primo. Ha ragione il Professor Preve nel sottolineare la mia svista riguardo il discorso sull’applicazione di una pretesa aporeticità alla storia e non alla religione elleniche. Me ne scuso con i lettori, ribadendo però la natura di semplice svista terminologica e non di errore concettuale che non va minimamente ad intaccare quanto da me affermato a coronamento dell’intero discorso sulla grecità, e cioè sul fatto che la Grecia non ha mai conosciuto quella separazione tra dimensione razionale ed irrazionale, tra laicità e senso del sacro che invece caratterizza l’intera civiltà occidentale a partire dal Seicento. La peculiarità del modello classico è data proprio da questo senso di armonia e continuità tra dimensione mitica e dimensione razionale, espresse da quel senso del bello e dell’equilibrio che della classicità greca furono i canoni portanti. Ben lungi dall’essere all’insegna di una statica teocrazia, la civiltà greca nasce da una riflessione critica sull’assoluto, spinta e sostenuta dal primordiale mito prometeico. Quella stessa riflessione che porterà Edipo ad interrogarsi sui terribili enigmi della Sfinge o cercherà di dare un senso coerente alle oscure sentenze oracolari di Delfi, ispirate da un dio, Apollo, in grado di rappresentare al contempo la razionale luminosità del mondo greco, quanto ( come suggerito dalla stessa etimologia) la natura di totale distruttore, in grado di colpire da lontano, arrecando  spaventose calamità, come nell’Iliade. E’ la riflessione sul senso del mondo e su quel succedersi ciclico ed immutabile di eventi che tutto e tutti, Dei inclusi, travolge, ad accendere una riflessione sapienzale, creando in tal modo un definitivo spartiacque nell’ecumene indoeuropea: ad un Oriente volto a contemplare passivamente l’intero svolgersi dell’Essere farà da contraltare un Occidente, sempre più teso a realizzare il proprio dominio su quello stesso Essere, rivestendo di continuità e di senso di pienezza mito e ragione, comunità ed individuo, dimensione riflessiva e dimensione attiva. Prova ne sia che in Grecia l’individuo si identifica con quella città-stato (esente da quella contrapposizione-separazione tra laicità e stato, tanto cara quest’ultima, al mondo orientale ed all’Occidente cristiano), i cui cittadini, atleti, guerrieri e filosofi ad un tempo, vivono la realtà di un ordinamento al cui interno tutti si sentono attivi protagonisti, degnamente rappresentati, al di là della tipologia costituzionale (monarchia o repubblica che dir si voglia) la cui natura non altera una concezione profondamente comunitaria di un intero assetto. Una concezione che dà un senso all’intera storia, vista come il dovere di proseguire da mortali ciò che avi immortali iniziarono nel tempo senza tempo del mito. Dei, semidei e quant’altro fanno da capostipiti alla “polis” greca, che in tal modo riveste di senso l’esistenza del proprio cittadino, che da orgoglioso protagonista di un tale particolare contesto, potrà impunemente tacciare gli altri come “barbari”. E così il mito si fa metafora della realtà, spingendo l’uomo greco a creare, elaborare, sviluppare all’insegna di Prometeo e non di quei parametri di giudizio, troppo spesso influenzati da uno scientismo meccanicista di radice illuminista. Va dunque ribadito che l’idea di una qualsivoglia scienza o branca del sapere, fosse anche la storia, intesa come chiave di lettura autonoma e separata da qualunque altro contesto superiore, è totalmente estranea alla concezione del mondo greco. Lo stesso Aristotele, considerato dai più il progenitore della modernità a causa  del proprio razionalismo, è anzitutto un filosofo metafisico, la cui impostazione cozza vistosamente con quella dell’attuale Post-Modernità, questa sì portabandiera di una visione casualistica ed aporetica dell’intera realtà disgiunta da qualsiasi principio primo (che non sia quello del denaro!), come da W. Heisembeg ed altri teorici enunciato. Facciamo dunque attenzione a non applicare criteri d’interpretazione post-moderni all’antichità! Punto secondo.

Con i propri scritti, Hegel pensava di poter realizzare l’ambiziosa meta di un generale riordino del pensiero in grado di far fronte al turbinoso avanzare della Modernità e delle sue problematiche, senza però rendersi conto che proprio quell’immanentismo, messo a capo del proprio intero costrutto di pensiero, si prestava implicitamente ad una lettura ispirata ad un radicale ed antimetafisico antropocentrismo, così come poi accaduto con la vicenda di Feuerbach e dell’intera sinistra hegeliana. Punto terzo. Se Hegel, è uno di quegli autori il cui pensiero si presta ad una molteplicità di affermazioni spesso divergenti, così come la storia stessa ci ha illustrato con la nascita delle correnti hegeliane di Sinistra e di Destra, lo stesso non può dirsi per Marx. Questi fa proprie le istanze di un hegelismo addomesticato alle necessità del sorgente materialismo storico, coniugandole a quelle pulsioni utopistiche che attraversavano ripetutamente l’intero pensiero europeo e che grazie ad una corazza forgiata da una positivistica scienza economica, avrebbero finalmente preso corpo in un costrutto coerente nella propria univoca connotazione materialista.

Queste caratteristiche prenderanno corpo in quella pretesa validità universale, che connoterà il marxismo (al pari del liberal-capitalismo!) come vera e propria metafisica del materialismo, elevato a quel rango di assoluta ed incontestabile dogmaticità, sino ad allora unica ed indiscutibile prerogativa del sistema di pensiero religioso giudeo-cristiano. Una miscela di sicuro successo, ma poco permeabile a critiche e messe in discussione, generalmente bollate ed etichettate come “revisioniste” (termine questo, tra l’altro molto di voga tra gli apologeti delle letture della storia a senso unico, sic!).

Quella stessa rigidità interpretativa alla base del successo della dottrina marxista, al pari di altri costrutti imbragati in rigidi dottrinarismi, si verificherà in tutta la propria fragilità, quando dovrà confrontarsi con le spinte di quel divenire all’insegna della tecno-economia che ne vanificherà le istanze, facendo del marxismo stesso una semplice fase di passaggio dalla prima Modernità (caratterizzata da un processo di industrializzazione agli inizi) alla Post-Modernità (animata dalla tendenza a sostituire l’economia produzionista con quella dei servizi). Ben lungi quindi dall’essere un’invito al rinnegare le proprie radici ideologiche (come da me già affermato nel precedente articolo!), questa è solo un’analisi basata sull’osservazione di alcuni indiscutibili eventi verificatisi a seguito delle elaborazioni hegeliane e marxiste. In seguito a questi eventi

mi sembra più che lecito osservare che quanto dal Preve affermato, riguardo alla debolezza di un pensiero eterodosso (quello della cosiddetta “destra”) perché disarticolato in una miriade di autori senza un’apparente logica di continuità, (e quindi privo di un Profeta e delle sue  Sacre Scritture in grado di dare quella coesione che la Sinistra ha trovato in Marx), possa essere invece capovolto proprio grazie a quella discontinuità che, capace di esprimere conclusioni identiche partendo da presupposti ontologici opposti, rappresenta la forza di un percorso di pensiero più sfuggente e quindi più difficilmente attaccabile di un altro, tutto all’insegna di una manifesta univocità. Tutto questo senza voler negare le inevitabili “defaillances” di un pensiero, quello “eterodosso”, che parte con lo svantaggio di una “damnatio memoriae” che tanti equivoci e distorsioni ha contribuito a generare. Con questi presupposti 

di presunto intento “ratzingeriano” non si può certo parlare a proposito di chi critica l’uso strumentale al materialismo dell’immanentismo hegeliano. Questo intento è sicuramente presente invece, in tutti coloro che credono di poter curare un male (quale quello rappresentato dall’onnipervadente dimensione dell’economia turboliberista) con un rimedio della stessa natura (quale quello che prende le mosse dal materialismo storico di stampo marxista). Prova ne sia il “flop” del movimento No Global e la spasmodica crisi d’identità in cui versa l’intera Sinistra, che sinora si era autoattribuita la taumaturgica capacità di risolvere tutti i problemi del mondo. Il prendere atto di una simile realtà non significa né rinnegare, né pentirsi, né tantomeno l’assumere una quanto mai improbabile ed equivoca identità di “destra”. Né diffamazioni né offese, dunque, ma semplici osservazioni in salsa “piccante”, tanto per dar tono ad un dibattito altrimenti destinato a rimanere in un alveo di sterile e servile accademismo, questo sì ben lontano dalle intenzioni di chi scrive. Se a questo si aggiunge una naturale avversione da parte dello scrivente, verso i nostalgismi di tutti i tipi e tutte le salse, a maggior ragione ostenterò con una certa soddisfazione l’abbreviativo U.B. di cui sono stato dal Prof. Preve insignito, sperando di avere con il mio intervento di aver contribuito a quel processo di chiarimento oggidì necessario e non procrastinabile.

L’oscuro vizio di Zeev Sternhell

Zeev Sternell è sicuramente un grande autore ed uno studioso di prim’ordine ma trovandosi tra le mani la sua ultima fatica si ha l’impressione che, nonostante l’eccellente esposizione dell’argomento trattato, stavolta il nostro abbia peccato in leggerezza, traendo delle conclusioni molto affrettate, laddove invece sarebbe stato il caso procedere con grande cautela.

“Contro l’Illuminismo” ci mostra il lato più misconosciuto della Modernità, appunto rappresentato da quel pensiero che conobbe i suoi natali  contemporaneamente al sorgere dei Lumi, a cui si contrappose ed affermò come il loro esatto opposto. Quello proposto da Sternhell è un percorso attraverso la genesi e lo sviluppo della Modernità a partire dal 18° secolo. Ad essere oggetto delle prime attenzioni del testo sono due autori le cui teorie occuperanno la maggior parte dell’intera trattazione: il britannico James Burke ed il tedesco Johann Herder. A detta dell’autore, attorno a queste due figure inizia a prender piede quella rivolta contro lo spirito dei Lumi che si snoderà attraverso l’arco di tre secoli, producendo autori, teorie e, ciò che maggiormente conta, stravolgimenti politici dell’intero assetto europeo. Politico navigato e feroce polemista il primo, religioso luterano, ma anche e specialmente, uno tra i primi animatori del Romanticismo tedesco, ambedue attraverso le rispettive opere saranno i protagonisti dell’inizio di quel grande cambiamento di prospettiva nella visione del rapporto tra individuo e Stato che tanto assillava il pensiero illuminista a cavallo tra il 17° ed il 18° secolo. Va detto che, pur se marcate da notevoli differenze d’impostazione le scuole illuministe e proto illuministe trovano il proprio principio fondante nel mutuo e reciproco consenso nell’organizzare la vita in società, determinato da un patto tra i cittadini per darsi ordine, leggi ed istituzioni. L’intera costruzione statuale e societaria è quindi risultato di un accordo consensuale tra le parti; ne consegue che il potere statuale, nelle sue emanazioni esecutive e legislative, ha bisogno del consenso del popolo che ne rappresenta l’unico ed esclusivo controllore. Vi sono certo delle distinzioni tra i vari autori, ma in tutti è comune l’idea dell’universalità di alcuni principi, tra i quali primeggia quello della libertà individuale, accompagnato da quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini al di là di quelle che possono essere le logiche e naturali differenze sociali, razziali, antropologiche tra questi. Mezzo principe per raggiungere tali nobili scopi deve essere la ragione, che in questo contesto assurge al ruoo di luce in grado di “illuminare” i recessi della storia oscurati da secoili di superstizione, ignoranza, false credenze, che tutte portano inevitabilmente a miseria, corruzione, soprusi, ed è quindi alla base di tutti i tipi di ingiustizie che si verificano nel mondo. Protagonisti di questa rivoluzione sono Hobbes ed Hume nel Seicento, Voltaire, Rousseau, Montesquieu, D’Holbach ed altri, sino ad arrivare a Kant nel Settecento. Contemporaneamente a questo pensiero ne sorge uno di matrice opposta. A determinare l’esistenza di nazioni e società non è il razionale accordo tra gli uomini, ma il loro vivere assieme determinato dall’appartenenza etnica, razziale, culturale; ne risulta quindi che ogni nazione, ogni comunità, ogni umana società è un “unicum”, e perciò l’esistenza di valori universali è un controsenso ontologico. A guidare gli uomini non può quindi essere quella grigia razionalità che tutto ingrigisce e rende noia, accademia, scienza esatta, togliendo all’uomo quella creatività frutto di un millenario istinto che tanta parte ha avuto nell’edificazione delle grandi civiltà. L’idea tanto cara ai teorici dei Lumi sulla superiorità del Settecento rispetto alle altre epoche e, conseguenzialmente, quella della superiorità dei valori occidentali sul resto del mondo, incontra qui un rifiuto netto e deciso. In quanto corpo a sé ogni civiltà non è paragonabile alle altre, per cui ciò che va bene per uno mal si adatta ad un altro. La strada al relativismo culturale, al determinismo di tipo prima culturale, poi biologico è ora definitivamente spianata. James Burke e Johann Herder daranno il “la” a tutto questo. Il primo con le sue battaglie contro il suffragio universale ed i suoi scritti polemici sulla Rivoluzione francese, il secondo con i suoi scritti filosofici tra cui in primis l’ineguagliato “Ancora una filosofia della storia”. Ambedue fieri avversari del primato occidentale sul mondo, il primo difendendo le istanze di libertà dei coloni nord-americani (sempre in funzione degli interessi localistici del ceto mercantile britannico, fautore di un quieto vivere con i riottosi coloni d’Oltreoceano), il secondo condannando il colonialismo, si faranno inconsciamente latori di una concezione che deve moltissimo all’opera dell’allora semisconosciuto Giovan Battista Vico. Sarà il grande e geniale intellettuale napoletano ad elaborare per primo un concetto particolare della civiltà, qui vista come un organismo umano, soggetta a tutte quelle vicissitudine organiche, che ne determinano il divenire storico. Nascita, apogeo, decadenza e morte si presentano in un modo tale, da fare sì che da Vico in poi si possa parlare di una vera e propria “fisiologia” delle civiltà. Il filone di pensiero inaugurato da Burke, Herder e Vico, inizialmente vede nella religione cristiana l’unico motivo in grado di accomunare gli uomini nella lotta contro, il dilagante materialismo laicista, ma presto, nel secolo seguente, tale puntello cadrà proprio nel nome di quel tanto conclamato relativismo particolarista. Ad essere ulteriore oggetto della trattazione di Sternhell saranno autori come Joseph De Maistre, (ancora legato all’impostazione di Burke), Hyppolite Taine, Ernest Renan, Thomas Carlyle, Maurice Barrès, Charles Maurras, Oswald Spengler, Bendetto Croce e Georges Sorel, per quanto riguarda la prima parte del libro.Tutti questi autori sono, a detta dello Sternhell, accomunati da un profondo diprezzo per i Lumi e per il loro universalismo egualitario, livellatore e materialista, fornendo in tal modo il propellente ideologico per la grande tragedia totalitaria del Ventesimo secolo che, nella vicenda del Fascismo troverà uno dei suoi più significativi momenti. Qui anti egualitarismo, elitarismo, razzismo e quant’altro fanno prendere corpo alla sedimentazione di due secoli di un pensiero che lo Sternhell definisce molto semplicisticamente di “estrema destra”. Ma il vero e proprio svarione viene nell’ultima parte del libro dedicata ai teorici conservatori della seconda parte del 20° e degli inizi del 21° secolo. Dopo aver lungamente (e giustamente) trattato la figura di Isaiah Berlin, pensatore liberale eterodosso, il cui strenuo particolarismo individualista lo colloca accanto a pensatori come Herder, Burke e Vico, Sternhell deborda ed accomuna i pensatori neoconservatori USA al precedente filone facendo “di tutte l’erbe un fascio”, conservatore e reazionario, in cui tutto ed il contrario di tutto trovano spazio e dignità. Nell’ansia di voler prefigurare un percorso coerente del pensiero anti illuminista, Sternhell sembra dimenticare le sostanziali differenze che gli autori trattati presentano. Se nel caso di un Burke o di un De Maistre possiamo parlare di un atteggiamento decisamente più conservatore (per l’esattezza conservatore il primo, tradizionalsita il secondo, sic!), per quanto riguarda Taine o Renan parliamo di due personaggi che partono da posizioni di positivismo filosofico per poi approdare a ben altro. Altra posizione è quella dell’idealista Carlyle, poi divenuto fautore di un esasperato (e talvolta confuso) volontarismo, mentre per quanto riguarda Spengler va assolutamente sottolineata la sua appartenenza a quel pensiero “neokantiano” che è altra cosa sia dal conservatorismo che dal tradizionalismo  e che comunque assume con il tempo una partticolare connotazione. Personaggi come Barrès e Maurras sono più propriamente pubblicisti impegnati in politica che non pensatori veri e propri, influenzati da un contesto ideologico di cui recepiscono e rielaborano le istanze. Andrebbe altresì ricordato che Croce è, assieme a Gentile, uno degli ultimi neoidealisti hegeliani, fautore di una visione “immanentista” della realtà, e quindi non proprio inseribile in una posizione conservatrice “tout court”. L’assunzione di certe posizioni avviene dunque sempre nell’ambito del contesto filosofico d’appartenenza. Questo senza voler considerare la fondamentale ambiguità di Isaiah Berlin, fautore di un liberalismo “bloccato”, ferocemente individualista, ma al contempo affascinato da autori come Herder di cui finisce con l’accettare la connotazione di organicistico comunitarismo. A questa multicolore brigata Sternhell ha aggiunto Gertrude Himmelfarb, Irving Kristol e Theodor Phodoretz, ovvero il “think–thank” della destra religiosa e reazionaria americana, tanto ammirata e riverita dai nostrani politici di AN, ma molto, molto lontana dalle posizioni degli autori sin qui trattati. L’intera operazione sternelliana ricorda un po’ chi, nel nome di principi vaghi come l’anticomunismo, vorrebbe accomunare forze tra loro differenti ed incompatibili. Nulla di male che un determinato lavoro di ricerca intenda trattare ciò che accomuna linee di pensiero spesso diversissime tra loro, ma, per onestà intellettuale, bisognerebbe quanto meno indicare l’ambito di pensiero nel quale gli autori citati trattano, cosa che lo Sternhell evidentemente non fa. Alla base di questo atteggiamento sta una pericolosa unilinearità interpretativa del fenomeno Fascismo, dallo Sternhell frettolosamente identificato con un pensiero “destro-radicale” di cui i vari autori trattati nel testo (sino alla prima metà del 20° secolo, sic!) sarebbero gli unici ed indiscutibili padri nobili. Contrapposto a tale atteggiamento sta quello di autori come Jacob Talmon, George Mosse, Renzo De Felice, lsaiah Berlin  ed altri per i quali il Fascismo affonderebbe le proprie origini in parte nella variante giacobina e massimalista dell’Illuminismo; per autori come Berlin invece, addirittura nel pensiero di Voltaire, Rousseau o Montesquieu animato da quel concetto di libertà “positiva” figlia della stretta osservanza alle leggi risultanti dall’accordo tra gli uomini, e di cui il principio di “volontà generale” ( intesa come e vera volontà di massa) rappresenta la principale espressione.

Ridurre l’esperienza fascista ad una delle due varianti di pensiero è quanto di più semplicistico e superficiale si possa fare, visto che il Fascismo rappresentò invece la sintesi tra l’estrema sinistra e l’estrema destra del pensiero occidentale, ponendo anzi in essere il primo tentativo di superamento di tali antinomie, nate e sviluppatesi tutte sulla scia  dell’esperienza illuminista. Berlin ha definito il Fascismo come l'incontro tra il pensiero di De Maistre e quello di Voltaire; definizione inesatta, certo, ma che può rendere l’idea di pensiero di sintesi e congiunzione che, in qualche modo, il Fascismo ha rappresentato. Zeev Sternhell, generalmente considerato uno studioso serio ed attendibile, dimostra in questo caso un vistoso difetto:  quello di voler offrire un quadro caratterizzante puro, perfetto, esente da ambiguità, per quanto riguarda una delle più eclatanti esperienze del pensiero occidentale, quale quella appunto offerta dall’Illuminismo.

Eppure, lo stesso autore non manca di sottolineare come il concetto delle speficità etniche e nazionali fu per primo affrontato sia dallo stesso Voltaire (nel suo famoso “Essai sur les moeurs”) che dallo stesso Montesquieu, autore che rispetto a Voltaire (più propenso a sottolineare le differenze nel nome di un universale fine ideale), presenta più di un’ambiguità in questo senso, portando inizialmente lo stesso Berlin ad avvicinarne e ad apparentarne le istanze ideali con quelle degli Sturmer romantici alla Herder.

Così il pensiero occidentale nelle sue innumerevoli varianti ed esperienze finisce con il mostrarci un pozzo senza fine di ambiguità interpretative, in grado di disorientare anche un grande e stimato autore quale Zeev Sternhell sicuramente è.

Michel Onfray: l'ateo confuso

E’ proprio vero: i pregiudizi determinati da confusione, ignoranza, malinteso e malafede sono i più difficili ad essere estirpati e, nonostante da più parti si vada dicendo che oggidì il pensiero nelle sue elaborazioni post-moderne abbia assunto una maturità ed una consapevolezza prima impensabili, leggendo il “Manuale di ateologia” di Michel Onfray, vi renderete conto che così non è, anzi. Da più parti applaudito e considerato un salutare ritorno a posizioni di chiaro ateismo (così come da un Gianni Vattimo stesso incautamente affermato!), dimostra invece di essere un coacervo di inesattezze e sfondoni a non finire. Ad esser criticabile non è tanto la posizione atea di Onfray, quanto l’imprudente ed affrettato impianto ideologico che sta alla base dell’intero testo. Non sono pochi gli autori atei, scettici o agnostici che oggidì matengono nei riguardi della religione un prudente e costruttivo rapporto, più mirante ad un lavoro di confronto sulle tematiche della post modernità. Autori come Jurgen Habermas hanno intrattenuto con papa Ratzinger un rapporto di costruttivo confronto, lo stesso Massimo Cacciari (autore a cui non si possono certo imputare posizioni conservatrici!) ha recentemente presentato l’ultimo opera ratzingeriana sulla figura di Cristo; le posizioni di un Emanuele Severino, molto critiche nei riguardi della chiesa cattolica, possiedono una consistenza ed una profondità assolutamente non riscontrabili nel tanto osannato testo di Onfray. Ma procediamo per ordine. Il “Trattato” inizia con un distinguo tutto all’insegna della solita malcelata e smielata ipocrisia: lui, Onfray, è “buono”; non ce l’ha con chi soffre di quella strana patologia mentale, per la quale si crede che tutte le cose esistenti debbano fare riferimento ad un’origine superiore. Lui, il “buono”, lascia che costoro soffrano in pace, mentre pone i suoi paletti con quelli che da queste strane credenze guadagnano potere e posizioni di vantaggio. Religiosi, teologi e simili sono d’ora in avanti avvertiti: non credano di illudersi, dovranno fare i conti con il paladino di un nuovo ateismo, vera e propria panacea a tutti i mali del mondo d’oggi. A questo scopo il nostro traccia una serie di linee guida da cui partire in questa nuova ed appassionata avventura “ateologica”. L’Illuminismo, anzitutto; è sì necessario un ritorno allo spirito dei Lumi, ma non a quello di Voltaire, Rousseau, Kant ed altri, a detta del nostro troppo “buonisti” e moraleggianti e, come l’attuale filosofia post moderna, tutti troppo volti a sostituire alla vecchia religione una nuova forma di insipido devozionalismo moraleggiante. Al diavolo dunque la vecchia ed onusta morale kantiana, ed avanti tutta all’insegna di un sano e gaudente edonismo. Il mondo è materia pura, come diceva il buon Democrito, un vorticoso insieme di rutilanti palline (atomi). Dunque se Dio esiste, egli è fatto di atomi; la vita è qui ed ora. Nessun altro mondo, nessun principio trascendente, al diavolo Platone, Pitagora e tutta quella massa di gonzi bigotti venuti dopo. Il sapere di una filosofia laica e materialista è l’unico sano rimedio alla religione, il cui unico scopo è quello di creare illusori “oltremondi”, facendo dimenticare al povero fedele la vita di quaggiù, in tutti suoi molteplici aspetti. Quindi avanti tutta con Epicuro e Democrito, per un mondo in cui si goda e si viva “hic et nunc”, senza se e senza ma. Nell’iniziare questa nuova ed entusiasmante impresa, il buon Onfray parte a testa bassa contro le tre religioni del Libro. Ebrei, Cristiani, Islamici, sono tutti accomunati da una storia fatta di odio, guerre, intolleranza ed, in ispecial modo, esse sono tutte animate da un profondo dipsrezzo per la vita. Lo dimostrano tutte quelle mortificazioni e restrizioni inflitte al corpo ed a tutti i piaceri della carne, dalla pratica della circoncisione, all’odio per la donna eletta a simbolo di tentazione. Non solo. Il cieco devozionalismo mal si accorda con tutte le forme di sapienza filosofiche viste come fumo negli occhi dai sostenitori di un bieco devozionalismo ad oltranza. In questo titanico tentativo, Onfray passa in rassegna le tre religioni a cui accolla di tutto e di più. A partire dal Mosè genocida del Vecchio Testamento, alla storia delle violenze cattoliche dalla fine dell’impero romano alla tragica epopea della colonizzazione europea, passando per lo spirito guerresco islamico, da Maometto ad Al Qaida, nulla e nessuno viene risparmiato dall’impietosa analisi del filosofo d’oltralpe. La storia dei tre monoteismi è vista come un reciproco sterminarsi tra le tre confessioni senza esclusioni di colpi. Tanto per dare al proprio lavoro un pizzico di revisionismo, il nostro ci pone nelle orecchie il dubbio sull’esistenza della figura di Cristo. Nonostante piena di inesattezze e luoghi comuni, l’analisi dell’Onfray potrebbe offrire alcuni interessanti spunti di riflessione ma, ad un certo punto, il Nostro, come si dice a Roma, “sbrocca”. La parte finale del suo testo è integralmente dedicata a dimostrare che lo spirito violento ed intransigente dei cattolici si travasa nel Fascismo e nel Nazismo, di cui certo Islam sarebbe addirittura l’ideale prosecutore. Da analisi un po’ sopra le righe sulle umane degenerazioni dello spirito religioso, il suo testo diviene uno sgangherato tentativo di attribuire al Fascismo ed al Nazismo tutti mali presenti e passati ( e perchè no, anche futuri!) del mondo.

Fascisti e Nazisti furono antisemiti, dittatoriali ed intransigenti come quei preti con cui stipulavano concordati e da cui nell’immediato dopoguerra ricevettero ospitalità, e via dicendo. Il piatto del solito e melenso antifascismo d’annata è servito! Onfray sembra qui aver totalmente dimenticato che Fascismo e Nazismo nacquero e si svilupparono in un ambito laico, come estrema sintesi tra socialismo, nazionalismo e futurismo. L’ammirazione nei riguardi del cattolicesimo da parte di alcune figure-chiave del nazionalsocialismo (come nel caso di Himmler) riguardava più che altro la storia e la struttura totalitaria dell’organizzazione ecclesiastica, non certo il suo impianto ideologico. In questo caso, anzi, Hitler mostrò la propria ammirazione ed il proprio interesse per la religione islamica (si leggano a tal fine le testimonianze di Leon Degrelle…), affermando ripetutamente l’immaturo antropomorfismo del cristianesimo. La politica dei due totalitarismi fascista e nazista puntava ad una supremazia assoluta del partito o dello stato, in veste di vera e propria religione laica. Gli accordi con le singole autorità ecclesiastiche rivestendo, in tal caso, un valore di meri tatticismi. Non solo. Nella sua carrellata anti-monoteista Onfray parte a testa bassa nell’ammucchiare ed accomunare tutte e tre le religioni in un unico calderone di violenza ed intolleranza, dimentico delle fondamentali differenze teologiche e narrative tra i tre testi. Se nel Vecchio Testamento sono riportate le vicende militari di Mosè, conclusesi con il genocidio e la strage dei vari Cananei, Amorrei, Filistei e via discorrendo, con tanto di esortazione divina, con l’Islam la cosa è un po’ differente. Maometto dovrà affrontare “manu militari” coloro che lo perseguitavano (in primis le tribù ebraiche Quraishite) accordando a costoro, dopo la vittoria sul campo, un generoso perdono, permettendo ai fedeli cristiani ed ebrei la possibilità di continuare a professare la propria religione, a patto della corresponsione di un simbolico obolo. Maometto affermerà risolutamente la propria contrarietà alla morte di innocenti in guerra, al suicidio, ponendo in tal modo dei precisi limiti e prescrizioni alla pratica del Jihad o “Guerra Santa”, da intraprendersi solamente in caso di aggressione e pericolo di sopravvivenza dei sacri principi del Corano. Il Dio universalista degli islamici si contrappone così all’iroso ed etnocentrico Jahvè della tradizione ebraica. Quando si trova a trattare del cristianesimo, ci sembra che Onfray commetta un’altra leggerezza: Cristo per lui non è mai esistito, le testimonianze in questa direzione sono troppo frammentarie e postume, in tal modo va da sé che l’importanza del testo evangelico si sminuisce. Anzitutto, non vediamo perché Buddha, Mahavira, Zoroastro, Maometto sarebbero esistiti, mentre la figura di Cristo rappresenterebbe una colossale invenzione. Secondo poi, il nostro imprudente “maitre a penser” dimentica la natura metaforica dei testi religiosi; per farsi capire dai semplici fedeli, essi debbono usare un linguaggio fatto di immagini, segni e simboli la cui interpretazione ed esegesi rappresenta una vera e propria branca di studi. La figura del fanciullo divino (Zeus, Dioniso, Eracle, Mosè, Cristo, etc.) la risurrezione (Zeus, Dioniso, Eracle, Persefone, Osiride, Cristo, etc.), il paradiso (Eden, Campi Elisi, Walhalla, etc.) ma anche le semplici prescrizioni igieniche (divieto di ingerire determinati cibi o bevande, la circoncisione, etc.), l’apparizione di un personaggio dalle virtù o dai poteri miracolosi (Eracle, Tagete, Ermete Trismegisto, Esculapio, Buddha, Mosè, Cristo, etc.), fanno tutti parte di quel bagaglio di contenuti simbolici la cui valenza archetipica è comune a tutte le culture umane, di tutti i tempi, non solo quindi alle cosiddette “religioni del Libro”. Tutto questo anziché sminuire, rafforza la natura del messaggio religioso, imperniato sulla tensione dell’uomo verso l’infinito. Il messaggio religioso, nella propria fase di elaborazione non può non tener conto delle radici storiche e culturali del popolo a cui si riferisce, che informano di sé l’intero svolgimento di un determinato testo mitologico o religioso che dir si voglia. Per cui la natura dei vari messaggi religiosi non può essere sminuita più di tanto dalle vicende di un singolo popolo, né però questo fatto può comportare una automatica eguaglianza e fratellanza tra tutti i credi.

Una cosa è quindi la fisiologia del fenomeno religioso, altra le giuste e le- citissime differenze di contenuto tra le varie fedi. Ma di tutto ciò il nostro “maitre a penser” sembra non avvedersi, intento com’è a sparare a zero su tutto ciò che sa di religione, dimentico delle storture e delle tragedie provocate dalle nuove “fedi atee” quali marxismo o capitalismo le cui origini, anche se mutuate da precedenti schemi organizzativi monoteistici, proseguono su una strada del tutto peculiare ed originale, quale quella rappresentata dalla sintesi tra economia e tecnica. Nel rivalutare a tutto campo una filosofia di materialistico edonismo, Onfray non si rende conto che in un contesto dominato da una simile visione unilineare dell’esistenza, l’unico sicuro punto di approdo diviene giuocoforza l’economicismo più bieco. 

Nessuno nega l’importanza dell’esperienza estetica o estetizzante sul percorso esistenziale di ciascun individuo. Tale esperienza è però frutto di quella tensione volta all’affermazione del proprio sé sul continuo fluire della realtà circostante. Tale tensione è a sua volta l’espressione di un superiore impeto vitale, che fa dell’uomo un essere le cui potenzialità conoscitive ed interiori sono proiettate verso l’infinito. L’Onfray di tutto ciò dimentico, ha paradossalmente fatto del suo libello il manifesto di un nuovo intollerante e bigotto fideismo, imperniato su un materialismo ateo a buon mercato, qui e là condito di un rancido ed avariato antifascismo, nel miserando tentativo ( tra l’altro avallato da più di una voce della sinistra radical-chic) di accreditare le proprie deboli argomentazioni, come unica via d’uscita dalle secche del tanto deprecato relativismo frutto del dominio economicista sull’intero pianeta.

Nietzsche è di sinistra o di destra?

Lunedì19 si è svolta presso la libreria “Odradek” la presentazione del libro di Jahn Rehman “Foucault, Deluze e il postmodernismo: una decostruzione”, presenti oltre all’autore, Stefano Azzarà, il curatore, Vladimiro Giacchè, Augusto Illuminati, Domenico Losurdo ed Elio Matassi. Il libro in oggetto si propone l’obiettivo di smascherare quella che, secondo questi signori, è la falsa interpretazione di Nietzsche offerta principalmente da autori come Deleuze, ma anche dallo stesso Foucault, senza dimenticare un rapido accenno a Cacciari ed a Vattimo. Praticamente a tutti quegli autori che, a partire da Deleuze hanno, a partire dagli anni ’60, iniziato il recupero e la rivalutazione di Nietzsche, autore che con il dopoguerra era stato collocatonel dimenticatoio della storia. Un Nietzsche il cui superomismo veniva percepito come un costante “andar oltre” gli stretti limiti in cui la coscienza borghese e cartesiana aveva costretto l’uomo occidentale, prospettando l’idea di una realtà intesa non più come unilineare espressione di un’unica visione del mondo, bensì come infinita molteplicità di aspetti, di cui l’uomo è al contempo spettatore e creatore, in un rapporto tendente a ripetersi all’infinito,suggellato dalla suggestiva immmagine dell’ “eterno ritorno”. Un Nietzsche inteso Un Nietzsche quasi “progressista” che con le proprie metafore a sottolineare l’aspetto creativo e demiurgico dell’uomo, messo così in condizione di procedere con passo etereo sopra le grevitàdi un’esistenza permeata dal grigiore borghese. All’epoca, l’interpretazione di Deleuze, in seguito ripresa da altri, fece da detonatore alle ali più creative all’interno del vasto arcipelago sessantottino e non solo. Pensatori come Vattimo e Cacciari si cominciarono a render conto dell’insufficienza del pensiero categoriale di “sinistra”, ed iniziarono a prefigurare un lavoro volto a percepire le avanzanti tematiche della Post Modernità, tramite la definizione vattimiana di “pensiero debole”.

Ovvero un pensiero non dogmatico, in grado di regger meglio gli urti della tecno economia, rispetto ad un pensiero-monoliticamente attaccato alle propri schemi e per ciòstesso soggetto a superamento. Ma tutto questo i nostri protagonisti dell’incontro di lunedì sembrano proprio non averlo capito, anzi. Per loro quella di Deleuze è una lettura “eretica” di Nietzsche, autore cattivaccio e reazionario per eccellenza, di cui questi hanno fatto un periocoloso travisamento, tale da portare le pecorelle di quella sinistra tutta Marx, Hegel, Gramsci e l’Unità verso la dannazione eterna. Grazie ai post moderni, dunque, quella sinistra ha perduto posizioni. Ed allora dunque giùa demonizzare Nietzsche, giù con le solite boiate: reazionario, classista, violento, etc. Boiate contestate da qualche giovane ultrasinistro sicuramente, che ha lasciato rumorosamente il convegno durante l’intervento del Prof. Losurdo il cui intervento ha brillato per spirito veramente conservatore.

Così ancora una volta viene dimostrata l’inanitàdi certe categorie politologiche. Una “sinistra” aperta ed autocritica, che di Nietzsche ha forse dato un’interpretazione particolare, conforme alle istanze della Post Modernità, viene messa alla berlina, attaccata, demonizzata, dai reduci di un ideologismo deformato e oramai superato dalle dinamiche della storia.

Ilche ci fa capire come lospirito catto-inquisitorio non sia solamente appannaggio di certi ambienti, anzi. Esso, anche se portato avanti da pochi personaggi, permea di sé la società italiana come un viscido strato d’olio, rendendo difficile ed infido qualunque percorso di cambiamento, lasciando il nostro povero paese nelle secche di una situazione ancora senza uscita.

Lo Strutturalismo in Michel Foucault

Michel Foucault può, a buon diritto, esser considerato uno tra i più innovativi e complessi pensatori del secondo dopoguerra. Animatore assieme a Barthes, Levi-Strauss, Goldmann di quella corrente di pensiero definita “strutturalismo”, ne è anche il più vivace ed innovativo rappresentante, grazie ad una serie di complessi scritti volti a contrassegnare e definire in modo esaustivo quella che, del sapere umano e di tutti i suoi molteplici aspetti, vuol essere un’innovativa interpretazione. Un’interpretazione che prende corpo a partire da testi come “Storia della follia nell’età classica” (1963) ed arriva ad una vera e propria sistematizzazione in un testo come “Le parole e le cose” (1967), vero e proprio resoconto “archeologico” sul percorso del sapere a partire dal 16° secolo sino ai giorni nostri. Ben lungi dal rifugiarsi in analisi semplicistiche animate dall’intento di propagandare dogmi materialisti a buon mercato, lo studio di Foucault si incentra sul tentativo di descrivere le forme, le strutture, le percezioni del sapere umano attraverso quelli che dell’Età Moderna, rappresentano i tre grandi snodi, da cui si dipartono altrettanti momenti di cambiamento culturale. Il pensiero sino al 16° secolo, quello dell’età “classica” (dal 17° sino alla fine del 18°), sino ai giorni nostri vengono analizzati, dissezionati, interpretati in base alla relazione tra il linguaggio ( e la scrittura, che di questo rappresenta la più concreta testimonianza) e le cose.  

La prima fase del pensiero, da Foucault esaminata, prende in considerazione quell’enorme lasso di tempo che va dall’età “arcaica” sino al termine della Rinascenza, caratterizzata da una stretta interrelazione tra le parole e le cose, espressa dal criterio della somiglianza. Quest’ultima trova la sua più pregnante espressione in una forma di conoscenza simbolica, in cui ogni oggetto preso in considerazione rimanda ad un altro oggetto, e così via, sino ad arrivare al significato recondito di quest’ultimo. In un mondo così organizzato in una fitta rete di simbolismi e di similitudini, di conseguenza, il sapere si deve svolgere attraverso quattro distinte articolazioni semantiche, che forniscono un criterio di lettura ed interpretazione delle cose. Convenientia, aemulatio, analogia e simpatia, ci guidano nel nostro sforzo volto ad interpretare e conoscere il mondo, il cui ordine è basato sulla stretta interrelazione tra microcosmo e macrocosmo. A suggellare tale stato di cose è la parola che, espressa dalla scrittura ci riporta alla natura recondita delle cose. Ogni parte del linguaggio, dalla lettera, alla sillaba, alla parola, riporta

ad una proprietà intrinseca che spetta allo studioso disseppellire gradualmente. La stessa scrittura va in tal modo facendosi rappresentazione vivente della natura delle cose  in cui si riflette una delle manifestazioni della verità assoluta. Se quella ebraica è la lingua delle origini e della prima nominazione del mondo, il latino, in quanto lingua della Chiesa è universalmente diffusa per volontà divina. La direzione della scrittura, da destra a sinistra o viceversa, denota l’adeguamento dei vari popoli al corso o al moto dei vari cieli di cui è composto l’universo. Questi ed altri esempi non fanno altro che riconfermarci la valenza simbolica che si può rinvenire all’interno delle varie lingue e delle loro espressioni scritte. Questa prima fase viene da Foucault rappresentata dal dipinto “La famiglia di Filippo 4°”, il cui forte contenuto simbolico rinvia appunto ad una forma di conoscenza imperniata su tale criterio interpretativo. La seconda fase, che contraddistingue la cultura “classica” (ovvero quella caratteristica di un periodo a cavallo tra la metà del 17°e la fine del 18° secolo) è invece simboleggiata dal “Don Chisciotte” di Cervantes. Qui la scrittura ha cessato di essere la rappresentazione in caratteri grafici del mondo reale. Quell’antica intesa tra i simboli e le cose si è dissolta, lasciando spazio alla rappresentazione delle cose, così come esse sono e ci appaiono. L’interpretazione del mondo è ora fondata su precise identità e differenze, che si fanno beffe di qualunque segno o similitudine di sorta. Il sapere si riorganizza così attorno al concetto di Ordine. In breve l’intero creato si trasforma in un unico ed immenso insieme classificatorio, un reticolo in cui ogni cosa è connessa in una successione ordinata. A farsi portavoce di tale esigenza ordinatrice sono “mathesis” e “tassonomia”, l’una esprimente le nature più semplici tramite lo strumento algebrico, l’altra esprime le rappresentazioni complesse tramite l’uso di quei segni, ora non più investiti di una valenza esoterica, bensì di una stretta attinenza con l’oggetto trattato. Il linguaggio in questo contesto, perde quella connotazione di segnatura sulle cose, imposta all’inizio del tempo, per divenire il neutrale criterio in grado di tradurre in parole la realtà. L’Età Classica si presenta così come l’età della classificazione. In essa tutto deve essere inquadrato, incasellato, classificato, per meglio addivenire alla costruzione di quell’ordine che in una rappresentazione reticolare e continuativa della realtà trova il proprio motivo fondante. Un motivo, si badi bene, a cui il razionalismo cartesiano al pari dell’empirismo di Berkeley contribuiscono sicuramente, ( l’uno tramite la definizione e distintiva tra “res cogitans” e “res extensa”, l’altro sottoponendo ogni cosa ad un’attenta verifica sperimentale) ma non in modo decisivo, lasciando invece alle strutture del pensiero “si et si”, la facoltà di riordinarsi in una determinata direzione. Questa predisposizione del pensiero si traduce nell’apparizione di tre nuove branche del sapere: la Grammatica Generale, la Storia Naturale e l’Analisi delle Ricchezze. Tutte e tre sono accomunate dalla ricerca di un carattere che accomuni e renda funzionali le varie esperienze che si svolgono all’interno degli ambiti trattati, senza tener conto dell’ambito temporale in cui esse si svolgono, concretizzando in tal modo quell’esigenza di rappresentatività del sapere che, a partire del secolo 17° era andata tanto prepotentemente manifestandosi. Si passa così dalle elaborazioni sulle funzioni esoteriche del linuaggio di Alstedius, Christophe de Savigny e di La Croix de Maine alle ricerche di Destutt de Tracy, di Etienne Condillac e di Ugo Domergue su una Grammatica  intesa come studio dell’ordine verbale rapportato alla simultaneità che essa deve rappresentare, rispetto al pensiero.  Si passa dalle colorite descrizioni naturalistiche di un Belon, di un Duret, di un Aldovrandi agli studi classificatori di un Linneo, di un Tournefort e di un Buffon che creano una Storia Naturale, ovvero il dispiegarsi degli esseri viventi sull’immenso reticolo della natura, in una successione che tiene conto del fattore caratteriale di ogni singolo essere o specie. Stesso discorso vale per le scienze economiche, ove l’antica impostazione per cui a determinare le funzioni di misurazione e sostituzione della moneta era rappresentato dalla preziosità insita nell’elemento aureo, viene capovolta dal rendere la funzione sostitutiva il fondamento reale degli altri due caratteri. Si passa così dalle ingenue elaborazioni di un Antoine La Pierre agli studi di uno Scipion de Grammont o di un Nicolas de Barbon. L’economia “mercantilista”, nasce così contraddistinta da un monetarismo assoluto, per cui, regolando la massa del circolante monetario, si penserà di poter aumentare o diminuire i prezzi e, di conseguenza, venire incontro alle esigenze economiche delle popolazioni.

Da quanto sinora visto, per la cultura dell’età “classica”, a qualsiasi oggetto della nostra rappresentazione si può apporre un significato che gli consenta di entrare in un sistema di “identità” e “differenze”, sia che si tratti di linguaggi, che di esseri viventi, o ancor più di modelli economici. Sarà questa stessa spinta, volta a tutto classificare e rielaborare dunque, a spingere in direzione dell’elaborazione di un sapere enciclopedico, i cui protagonisti, da Condorcet a Turgot, da Du Quesnay a Buffon, da Montesquieu ad Holbach, da Voltaire a Rousseau, si faranno versatili portabandiera di tale sforzo, occupandosi contemporaneamente di economia, filosofia, scienza, storia e quant’altro.

Ma sarà proprio sul finire del 18° secolo che si verificherà un altro fondamentale cambiamento d’indirizzo. Lo sguardo del sapere non sarà più rivolto ad una liscia ed orizzontale concezione classificatoria, bensì comincerà a spingersi in quella dimensione del profondo, volta a determinare un’organizzazione verticale dell’intero essere. Tutto questo grazie all’irrompere sulla scena di due concetti sino a quel momento tenuti in disparte: la Storia, con il suo continuo succedersi di eventi e la Vita,che si manifestra in quell’irrefrenabile spinta dei viventi ad interagire, modificando e facendosi modificare, nell’ambito dei continui rivolgimenti dell’Essere. L’ultimo, disperato tentativo di una visione classificatoria continua allora a sopravvivevere nell’Ideologia dei vari Destutt de Tracy accanto al criticismo di Kant. Quest’ultimo indaga lo scarto tra essere e rappresentazione, cosa che invece la cultura classica non faceva, incentrando l’intera propria azione sulla seconda. Sempre secondo Foucault, grazie a Kant si fuoriesce dall’ambito rappresentativo per entrare in quell’ambito di indagine fondato sulla ricerca di un “a priori” universale, esterno a qualunque tipo di esperienza in grado di regalarci una rappresentazione. Una ricerca che porta inevitabilmente ad incentrare l’attenzione su quelle che sono le forme di conoscenza alla base delle rappresentazioni, ovvero le scienze della Vita, della Volontà e della Lingua. E così dall’Analisi delle Ricchezze si passerà ad Adam Smith ed a Ricardo, che del Lavoro e del Capitale faranno l’essenza dei processi economici. La Storia Naturale sarà sostituita dalla biologia di Cuvier e più tardi dall’evoluzionismo di Darwin. Parimenti nel campo della linguistica la filologia con Bopp, Grimm e Schlegel, con lo studio delle desinenze e dell’intima struttura degli idiomi indoeuropei, prenderà il posto dell’antica Grammatica Generale, fondata su classificazioni di tipo caratteriale e metastorico delle stesse. A questa rivoluzionario cambiamento se ne affianca un altro ancor più rilevante: quello del ruolo del linguaggio. Se tutte le scienze, con il 19° secolo subiscono un riordino ed un “raggruppamento” in base a quell’intima natura, a quell’ “a priori” che le contraddistingue o le accomuna, l’unica branca del sapere umano a non subire tale processo, sarà proprio quella del linguaggio. In quanto divenuto oggetto di studio, al pari di qualsivoglia altra branca del sapere essa è oggetto di studio, analisi ed introspezione, ma può anche divenire il mezzo potente per affermare pensieri e sensazioni, ma anche per la semplice riaffermazione della parola “si et si”, in quanto affastellato di suoni, sillabe, vocaboli. La letteratura si distacca e si contrappone in tal modo alla filologia, creando una “dispersione” non possibile per le altre scienze. Il sogno Positivista di un linguaggio “neutro” e perciò stesso depurato di qualsivoglia significato recondito o aperto, si scontra con questo ritorno del linguaggio ad un ruolo non più esoterico e di segnatura delle cose, bensì di imparziale veicolo di trasmissione concettuale o emozionale. Per tale ragione la filosofia terrà il linguaggio ed i suoi apporti in un cantuccio, sino all’arrivo di F. Nietzsche e di Mallarmè che riportano violentemente il pensiero verso quel linguaggio da cui sino allora era rimasto scisso. Il Nietzsche filologo, porta a far divenire il linguaggio uno strumento, anzi “lo” strumento per eccellenza per effettuare quell’esegesi, quell’interpretazione del mondo, a lui tanto cara. Al grande filosofo germanico non interessa tanto sapere cosa siano il bene ed il male, quanto di capire “chi” veniva designato o chi “parlava”, quando si designa se stessi con Agathòs\ Buono, e gli altri con Deilòs\ Vile. Chi detiene il discorso, detiene la parola; di conseguenza attorno a lui si raccoglieranno il linguaggio ed il senso del mondo. Un mondo, un Essere la cui conoscenza è oggidì attraversata da quel senso dell’Uomo, sino a due secoli fa, impensabile. Un senso che, a guisa di un nuovo antropocentrismo oggi attraversa e minaccia l’intero ambito della conoscenza, distorcendo, limitando, bloccando la portata e le possibilità di quest’ultimo. Alle Scienze umane quali psicologia, sociologia, storia, psicanalisi ed etnologia fanno da contraltare i tre grandi livelli della conoscenza, dal Foucault definiti “triedro epistemologico”, e di cui fanno parte le scienze deduttive, (matematica e fisica), le scienze empiriche (linguistica, biologia ed economia) e la riflessione filosofica. Pur differenziandosi le Scienze Umane dal triedro, esse finiscono con l’agganciarvisi interagendo con le varie branche del sapere. Il pericolo di quella che Foucault definisce con il termine di “antropologizzazione” si presenta non appena i rapporti tra il pensiero e le proprie estrinsecazioni, sia nel campo filosofico, che in quello economico o in quello scientifico, cessano di essere correttamente concepiti.

L’uomo come archetipo e problema culturale, sorge con la frantumazione del linguaggio ad oggetto; con l’avvento della Modernità ed il ricompattarsi del quest’ultimo in una rinnovata funzione di strumento di esegesi ed interpretazione del mondo, l’uomo è destinato a disperdersi ed a tornare a far parte di quel Discorso generale, che prima tutto avvolgeva ed includeva?

Il Foucault non sa risponderci a questa domanda, ma riporta la riflessione su Nietzsche e sul suo concetto di “morte di Dio”. Qui a morire non è Dio, o quantomeno non solamente quest’ultimo, bensì l’uomo che ne è l’assassino. Un assassino che di quello stesso uomo, di cui da secoli oramai non vi è più traccia, è solo una pallida ombra. Il mondo starebbe quindi per far posto, con la morte di Dio e dell’uomo, al ritorno scintillante di antichi Dei, nella veste di un pensiero archetipico, che “da millenni parla senza nemmeno accorgersene”? A prima vista, il complesso ed affascinante testo di Foucault ci pone di fronte ad una lettura di carattere nominalistico, puramente esteriorizzante della realtà, poiché poggia il proprio fondamento sulla correlazione tra il linguaggio (che rappresenta lo sforzo di dare una rappresentazione sintetica e concettuale della realtà) e la realtà stessa. 

Cosa questa pericolosissima, poiché può finire con il ridurre l’interpretazione dell’intero essere ad un semplice giuoco di parole, spalancando la porta ad un relativismo senza fondo, visto che il linguaggio, oggi sempre più, tende ad adeguarsi ad una società le cui uniche spinte al cambiamento sono di ordine meramente economicistico, finendo con lo svuotare in tal modo realtà e linguaggio di qualsiasi contenuto vitale e creativo, lasciando spazio ad un mondo inaridito. E’ altrettanto vero, però, che la medesima analisi può portarci a conclusioni ben diverse ed inaspettate da quelle che un da simile impianto “strutturale” ci si potrebbe attendere. Nel proporci la potenza evocativa di un linguaggio senza tempo, alla cui ricomparsa danno voce le suggestioni nietzschiane sull’Eterno Ritorno, accompagnata all’immagine di un sapere pre-moderno intriso di simbolismi e di significati reconditi in una successione senza fine, il Foucault ci ripropone il tema dell’involontario ricongiungimento delle più innovative forme del sapere con quel passato-archetipico, con quel millenario retaggio di pensiero, i cui invisibili legami con il mondo odierno, non sono mai stati completamente chiariti dal sapere ufficiale (perché scomodi!). E’ stato d’altronde lo stesso Popper a parlare in tempi a noi vicini di parmenidismo della Fisica, rimandando così a quell’ ordine immutabile dell’Essere, quale il grande filosofo greco Parmenide aveva a suo tempo preconizzato. Le due precedenti riflessioni ci portano diritti ad una terza riflessione, che delle ultime due può esser considerata “summa” e completamento. Il testo di Foucault con tutte le sue problematiche annesse e connesse, ci pone di fronte al problema della difficoltà a dare un’unica interpretazione ad un qualsivoglia frutto del pensiero. Questo perché, a partire dalla riflessione di Cartesio in poi, passando per Kant, all’interno del pensiero occidentale sempre più si è manifestata la tendenza a scindere la rappresentazione da ciò che di quest’ultima ne costituisce l’essenza. Cartesio rimarcando l’unica ed esclusiva certezza di ciò che anzitutto esiste nella nostra mente, ben distaccato da quella che noi presumiamo essere la realtà esterna, Kant sintetizzando le aspirazioni razionaliste e quelle empiriste attraverso la constatazione dell’esistenza di una realtà “a priori”, ben distinta dalla manifestazione, hanno di fatto spalancato la porta alla possibilità di attribuire un’infinità di interpretazioni riferite alla medesima rappresentazione, permettendo in tal modo una lettura strumentale della realtà, consona ai propri scopi. Qualsiasi evento della storia, qualsiasi teoria economica, qualsiasi ideologia o elaborazione teorica che dir si voglia, potrebbe conoscere una molteplicità di interpretazioni. A questo punto bene afferma Nietzsche, quando dice che non ha importanza il conoscere il bene od il male, bensì “da chi” provengano le parole in quel momento profferite. Tutto questo con buona pace dei gonzi del “politically correct”, e dei loro stupidi dogmatismi d’accatto. Il boomerang anti-metafisico a suo tempo lanciato con tanta proterva sicumera, ritorna indietro abbattendo idoli di cui si supponeva l’invincibilità e spalancando all’Essere ed al Pensiero delle nuove, quanto inusitate vie d’uscita, lasciando con un palmo di naso proprio coloro che tanto si erano fregiati di quella nuova metafisica tutta all’insegna di un frettoloso e rabberciato materialismo economicista.

Giordano Bruno: il pensiero al rogo

A chi oggidì capitasse di passare di fronte alla statua del filosofo Giordano Bruno, collocata nell’omonima piazza romana, non potrà sfuggire la ridda di strani personaggi che si accalca attorno alla statua del grande personaggio. Pseudo-hippies, radical chic, tossici, barboni, assieme ad orde di visitatori di mezzo mondo si accalcano in quella piazzetta, contribuendo a determinare quell’aria così “bohemiènne” che tutti vorrebbero attagliare alla figura del povero Giordano Bruno, in questo caso frettolosamente eletto ad icona di un ribellismo progressista che a lui mal si attaglia. Semmai quella di Bruno, fu una figura di ribelle sempre in fuga a causa delle proprie, anticonformiste opinioni. Le sue peregrinazioni lo portarono dalla natìa Nola, nel regno di Napoli, sino a Ginevra e da lì in Francia, in Inghilterra, sino agli inquieti principati dell’impero germanico e da lì di nuovo in Italia, a Venezia, presso il patrizio Mocenigo che, dopo averlo ospitato lo avrebbe fatto imprigionare a tradimento, consegnandolo nelle mani dell’Inquisizione che lo avrebbe messo a morte dopo ben otto anni di prigionia, angherie ed umiliazioni. Inizialmente vestito il saio dell’ordine domenicano, Giordano Bruno avrebbe via via sviluppato un particolare percorso di pensiero attraverso opere come “De umbris idearum”, “Sigillus sigillorum”, “La cena de le ceneri”, “De l’infinito, universo e mondi” ed altre ancora, che ne avrebbero definitivamente sancito il ruolo di protagonista scomodo sul proscenio culturale dell’epoca. Ma, a ben vedere, anche se eretico, il pensiero di Giordano Bruno non fu né ateo, né materialista e né tantomeno anticipatore di un qualsivoglia tipo di casualismo. Il suo pensiero costituì semmai l’ultimo disperato tentativo di dare uno scossone ad un ammuffito aristotelismo ingabbiato in un ancor più arrugginito sistema tolemaico. Ben lungi dall’essere materialista il pensiero di Bruno imprime un principio vitale all’intero essere, tale da far sì che forma e sostanza, anima e corpo qui coincidano perfettamente in una formidabile sintesi di pensiero. Giordano Bruno divinizza la natura a cui comunque non rinuncia a sovrapporre un superiore principio sconosciuto a cui tutto finisce con il fare capo. La sua è una concezione unitaria di universo, liberata dalle vecchie e paralizzanti suggestioni tolemaiche. Un universo unitario, infinito, eleatico dunque, a cui Bruno affianca comunque elementi della dottrina del divenire eracliteo ed elementi di pitagorismo per quanto attiene la dottrina della ruota delle nascite. In questo contesto l’uomo deve tendere a comprendere l’anima della natura per assumere il ruolo di novello plasmatore e demiurgo del mondo. Quanto alle religioni positive per Bruno esse sono appannaggio di un’umanità rozza ed ignorante; scopo e fine ultimo deve essere la comprensione razionale dell’ordine delle cose. Essere e Divenire, al pari di Pitagorismo, Neoplatonismo ed Ermetismo assumono in Bruno la veste di una complessa sintesi misteriosofica, al centro della quale sta un uomo, mago ed artefice strettamente collegato ad una natura, non più oggetto passivo dell’azione umana, bensì viva ed interagente con quest’ultimo. Ben lontano quindi da postume suggestioni materialiste, il pensiero di Bruno cerca di proiettare sulla nascente Modernità una luce diversa. Giordano Bruno percorrerà tutte le fondamentali posizioni del pensiero del proprio tempo, scontentandole tutte. Dal cattolicesimo al protestantesimo calvinista, dall’antico al moderno, le posizioni del grande pensatore saranno ovunque viste con diffidenza se non con un’aperta ostilità, sino alla tragica morte avvenuta a Roma nel 1600 per mano di una Chiesa che in tal modo avrebbe suggellato definitivamente l’avanzata del materialismo e dell’economicismo. A morire con Bruno sarà l’ultima possibilità di dimostrare che esiste anche un “altro” modo di concepire la metafisica e non solamente quello ammuffito e deteriorato dall’usura dei secoli, rappresentato da un aristotelismo di maniera. Con la morte di Bruno la metafisica occidentale farà il proprio “harakiri”. Da questo momento in poi, le cose in Occidente subiranno una robusta sterzata. Tematiche e prospettive del tutto nuove irromperanno sulla scena, travolgendo “in primis” proprio coloro che, con la morte di Bruno, credevano di riuscire a preservare in eterno le proprie posizioni di supremazia morale ed intellettuale.

Massimo Cacciari e la geofilosofia d’Europa

Un testo magistrale “Geofilosofia d’Europa”, scritto da Massimo Cacciari, professore di filosofia alla Cà Foscari e sindaco di Venezia.Un testo fondamentale per chi volesse addentrarsi nei significati reconditi dell’intera  plurimillenaria vicenda d’Europa, tutta imperniata sull’eterna lotta tra quelle differenze che, del Vecchio Continente costituiscono contemporaneamente il sale e la maledizione. E’ l’eterna lotta tra dualità che vivono perennemente in bilico tra il tentativo di un reciproco riconoscimento e la tendenza ad una lotta senza quartiere. Lotta che, in quanto tale è “polemos”, quando rivolta al nemico esterno, ma non esita a trasformarsi in “stasis”, ancorchè sia rivolta al nemico interno, al  proprio simile, concittadino, correligionario e, (perché no?)  anche a colui che, forestiero, viene da uno stato appartenente alla medesima realtà geopolitica continentale. Una lotta perenne, che ha anche la veste del dilemma ontologico, tra stasi e dinamicità, tra accettazione e ribellione, tra essere e divenire, magistralmente interpretato nei “Persiani” di Eschilo, in cui la madre del re persiano Serse, sogna il figlio intento ad aggiogare due cavalle Asia ed Ellade, mansueta la prima, ribelle ed indomabile la seconda. Ecco, è da questo momento in poi che i Greci si rendono conto della propria grecità, che ne fa un “unicum” peculiarmente distinto dalla antica e statica Madre Asia, senza l’esistenza della quale però, non si renderebbero nemmeno conto della propria. Di quell’esistenza fatta di un’inestricabile commistione di polemos e stasis, tanto ben incarnata dalla conflittuale realtà della polis e dalle sue infinite vicissitudini politiche.  Ecco allora che, l’aspirazione a liberarsi dal giogo assoluto di un monarca straniero viene compensata dall’idea di una forma di governo studiato in modo di conferire un’aura di assolutezza a  tale realtà. Una forma di governo alla cui base non può sovrintendere un principio meramente “politico” (così come nei “desiderata” filosofici che stanno alla base della lettura aristotelica di Platone), bensì dovrebbe stare quel “nomos”, quella legge divina a cui tutto rimanda, e di cui deve farsi altresì interprete quel saggio guardiano che sarà preposto alla illuminata guida della polis. Forte e bellicoso con il nemico esterno, il guardiano dovrà dimostrare di essere altrettanto fermo e persuasivo con il nemico interno, con il prevaricatore, l’ingiusto, l’oppositore, per non far cadere la polis nella “Ybris” della guerra civile e della violenza fine a sé stessa. Senza mai dimenticare però, che il governo giusto e perfetto, la “pacem in terris”, è appannaggio unico degli Dei. Agli uomini altro non spetta che esercitare la tirannide del comando, come magnificamente esemplificato dalla vicenda citata da Tucidide riguardante l’assedio ai Meli, in cui la legge del più forte trova negli interlocutori ateniesi, una giustificazione di origine divina. E guai se così non fosse, se alla suprema guida dello stato vi fossero persone animate da buona fede e buoni sentimenti, perché costoro verrebbero ben presto scalzati da una massa animata invece da mala fede e bassi sentimenti. Nel loro malgovernare, gli ingiusti ed i prevaricatori, compiono “bene” il loro lavoro poiché, dunque, a governare le azioni degli uomini è il principio dell’eterogenesi dei fini, che fa sì che le azioni differiscano dagli scopi inizialmente proclamati. Il problema del nomos, dell’origine divina del diritto, sembra dunque essere un’altra costante della narrazione di Cacciari, che va ad aggiungersi all’altra idea-perno del testo: quella cioè del continuo riaffiorare di dualità in conflitto coinvolgenti i concetti alla base dell’identità greca ed occidentale. E così se Ellade è ribelle e dinamica, quanto Asia sottomessa e statica, Asia incarna questa volta lo statico attaccamento alla Madre Terra, quanto invece Ellade manifesta quella dinamica irrequietezza che trova la propria compiuta espressione nell’andar per mare, cercando nuove terre da colonizzare ed incrementando scambi. Attraverso questa attività il nomos si fa errabondo, va perdendo progressivamente la propria natura di numinoso principio domestico, per assurgere a principio di cosmopolita irrequietudine, manifesta espressione di quella tendenza ad un costante auto superamento dei propri limiti che caratterizza l’intera vicenda occidentale e che sembra ripetersi via via in quella vicenda che va dalla scoperta dell’America, sino a quelle più recenti legate al volo umano ed alle imprese nello spazio. Attraverso le parole di Hegel e Nietzsche l’Occidente si fa metafora di una vicenda che, attraverso lo stesso nome, dalla continua spinta al superamento dei propri limiti finisce con il superare la propria stessa voglia di superarsi, banalizzandosi ed infine tramontando. E così il nomos ellenico che sembra trovare un sicuro approdo nell ’universale e cosmopolita diritto romano, verrà ben presto scalzato dall’agostiniana “civitas dei” che relega la grandiosa costruzione statuale romana ad un ruolo secondario rispetto all’ultraterrena civitas cristiana. E così da Hobbes in poi, da quando l’Occidente vedrà nello Stato unicamente un freddo Leviatano nel ruolo di arbitro tra quelle che sono le istanze spirituali dei singoli cittadini ed i valori di cui questo è, in qualche modo, titolare, si assisterà ad un continuo contrasto tra la sfera statuale, pubblica e quella privata, individuale. Questa natura doppia ed antinomica dello Stato, farà sì che gli organi delle democrazie parlamentari occidentali vadano oggidì svuotandosi di funzioni e significati, isterilite da infinite contrattazioni e discussioni, mentre le vere decisioni vengono prese altrove. E qui ritorna prepotente la domanda sulla possibilità di conciliare gli opposti e le risposte che ne danno i vari filosofi da Eraclito, a Parmenide, da Pitagora a Platone. L’armonia sta nel riconoscimento dell’opposto, ovverosia di ciò che si ritiene non veritiero. L’armonia è la ragione (logos) che mette accordo tra le parti che, nel conflitto, trovano però la propria ragion d’essere. L’armonia è comprensibile ed incomprensibile al contempo; essa è la composizione di un conflitto sempre latente e perciò stesso alla base della necessità d’essere dell’armonia stessa. Armonia è “palintropos” secondo l’accezione di Parmenide, ovverosia vagolare da uno stato all’altro, passando da stabilità ad instabilità senza alcuna soluzione di continuità. In base alle risposte della filosofia Cacciari pensa di poter ravvisare la soluzione al problema d’Europa e d’Occidente, a quell’aggregato di diversità ontologiche, in perenne contrapposizione tra loro. Il grande pensatore rinascimentale Niccolò da Cusa  distingue tra pace ed armonia facendo di quest’ultima un’opinione e chiedendosi invece ciò che i distinti in quanto irrimediabilmente tali possano avere in comune. La successiva risposta sta nel riconoscimento e nell’identificazione dell’altro come parte conflittuale di sé, e dunque come necessario completamento alla conoscenza della Verità, seguendo in tal modo una riflessione partita da Ibn’Arabi, Raimondo da Lullo, Abelardo ed altri pensatori medioevali. Essendo però la stessa Verità inattingibile, le opinioni e le varie congetture volte ad arrivare ad essa, altri non sono che mezzi che contribuiscono, ognuno per la sua parte, alla ricerca ma non al definitivo disvelamento della Verità stessa. E’ dunque quella della Verità una ricerca senza fine, che nell’essere promossa aumenta l’amore per ciò che si ricerca. Ed ecco che ora si staglia più nitida l’immagine di un’Europa come  “molteplice delle distinte congetture”, come unità di molteplicità in perenne conflitto, indifferente a qualunque direzione dei corsi storici, impotente di fronte all’eterogenesi dei fini che ne anima l’esistenza, in lotta con la propria volontà di conservazione, sopravvivenza ed identità. L’Europa è Occidente, poiché essa porta insita alla propria natura di continuo auto superamento, l’idea di un altrettanto continuo tramonto. Ecco, tra Nietzsche e Carl Schmitt, tra Hegel e Platone, Cacciari ci offre il primo spunto per l’elaborazione di una Geofilosofia d’Europa che, vera e propria geografia spirituale del Vecchio Continente, possa essere in grado di offrirsi e proporsi come valida alternativa all’ “isola” americana.

Il pensiero cinese: una realta’ che viene da lontano

 

​A guardarla, oggidì la Cina ci richiama alla mente una nozione di strano esotismo, frammisto all’immagine di un paese in perenne transizione tra arretratezza e modernità, manodopera a basso costo, liberismo economico e repressione poliziesca da stato sovietico dei periodi più ruggenti. Ma, a ben vedere, questa è un’immagine troppo spesso frutto di un quanto mai superficiale e raffazzonato colpo d’occhio su quella che è una realtà che porta in sé una plurisecolare stratificazione culturale di pensiero, che nulla ha da invidiare alla tradizione culturale occidentale ed europea. Anche qui, la genesi del pensiero filosofico viene fatta risalire più o meno attorno al V-VI secolo AC che, a dirla con K. Jaspers, rappresenta la fase aurorale della nascita del pensiero critico in un po’ tutte le civiltà del mondo, da quella greca con i presocratici ed alfine Parmenide, alla civiltà Indù con le Upanishad, sino appunto alla Cina con l’arrivo di Confucio e Lu Tzu. In Cina è un momento travagliato caratterizzato dalla presenza di vari staterelli principeschi in continua lotta tra loro. Un momento in cui la società cinese, nel suo insieme, avverte con forza la necessità di un pensiero in grado di offrire quell’ordine e quelle certezze che, da sola, la religione, sembra non esser più in grado di garantire. E’ in questo substrato che vede dunque la luce il pensiero di Confucio, funzionario, consigliere, precettore di principi ma anche di generazioni a venire di zelanti funzionari di stato, studenti alle prime armi, intellettuali e cultori del puro pensiero, tutti rigorosamente destinati ad essere inquadrati in un contesto caratterizzato da una forte etica sociale, quale quello rappresentato da questa filosofia, assolutamente improntata alla promozione dell’individuo all’interno della comunità, all’insegna della massima concretezza, ma senza mai dimenticare quella sfera del divino, le cui rigorose adempienze rituali rappresentano il momento centrale. La concretezza confuciana, è talora stata scambiata per una forma di arido ed agnostico formalismo, quasi un’edizione ante litteram di quel laicismo illuminista che qualcuno sente il bisogno di attagliar anche a civiltà altre da quella occidentale. Ma, per sua fortuna, Confucio ragionava da cinese ed in tal modo dette origine ad un filone di pensiero la cui eredità sarebbe arrivata a tutt’oggi, sicuramente adulterata da un cammino plurisecolare, ma in grado di influenzare comunque il modus vivendi tra individuo e comunità. La fortuna postuma del pensiero confuciano, determinerà l’elevazione di quest’ultimo ad un ruolo di semidio ( o profeta, sarebbe forse meglio dire, sic!), all’interno del già numeroso pantheon cinese, di cui il grande maestro fu prudente cultore. Non si può parlare di Confucio senza menzionare colui che ne rappresenta lo speculare alter ego, in totale opposizione, ovvero Lu Tzu. Questo grande maestro del pensiero cinese sembra esser ossessionato dall’idea del Tao, cioè di quel qualcosa che rappresenta la sostanza onnipresente delle cose. Quel qualcosa di cui tutto e nulla può esser detto; che è eppure non è; che è accanto a noi ma si situa al contempo a distanze siderali dalla nostro essere di ogni giorno. Il Tao non può non richiamarci alla parmenidea intuizione di Essere, a quella silenziosa ragione a base d’ogni cosa, la cui sola pronunzia verbale ha determinato l’anima di una civiltà, come quella occidentale. Tao ci riporta ad una concezione d’insieme, olistica, della realtà, da cui tutto parte ed a cui tutto ritorna, in un continuo ed insensato alternarsi, la cui unica certezza è rappresentata dall’esistenza di lui, l’ineffabile, il Tao. Lu Tzu è assialmente (e temporalmente) collegato a Parmenide, non meno di quanto non lo sia all’idea della Mokti, o “liberazione”, indù, al Brahman-Nirvana buddhista, all’Uno di Plotino, ma anche all’Essere di Meister  Eckhart o anche al Deus sive natura di Spinoza, ed a tanti altri ancora. Compito dell’uomo è dunque la propria identificazione con questa “mathesis universalis” attraverso un’azione che non sia azione, che porti cioè a farne coincidere le modalità espressive con quelle dell’Essere stesso, che sia perciò stesso Wu Wei “agire senza agire”. Un agire dettato dai principi dell’intuitività e della concretezza, di contro al raziocinante nozionismo confuciano. Un agire che impone al monarca la propria “non azione” affinchè tutto possa procedere in virtù dello spontaneo divenire della società e di uno stato, di cui costui rappresenta la immobile ragion d’essere, la fonte di comando dalla cui immobile quiete tutto promana. Taoismo e confucianesimo andranno così lasciando una profonda influenza sul pensiero cinese nei secoli a venire, talora mutando e adeguando le proprie coordinate di pensiero, in conformità con quelle che saranno le istanze del momento. E così, successivamente alla morte del proprio grande maestro, il confucianesimo conoscerà un’ ala “sinistra” ed un’ala “destra”, ambedue rappresentanti due differenti impostazioni: Meng Tzu fautore di un’etica tutta imperniata su una introspezione psicologica dell’individuo, Sun Tzu invece attento ad un’etica legata all’io guerriero, a quell’ “arte della guerra” che sarà poi il titolo dell’opera magna di questo autore. Lo stesso taoismo andrà assumendo connotazioni misteriosofiche, allorquando verrà in contatto con il pensiero naturalista rappresentato dagli scritti dell’ “I Ching”, il principale testo oracolare cinese, le cui origini vengono fatte risalire alla notte dei tempi, agli inizi della storia delle dinastie imperiali cinesi. Un testo che, in tempi recenti fu studiato e commentato dal grande psicanalista svizzero C.G.Jung che seppe rintracciare e riconnettere gli elementi che all’interno di questo testo riconducevano alla sfera dell’inconscio. Un testo che, per l’appunto, incontrandosi con il Taoismo, darà luogo alla variante “alchemica” di quest’ultimo, tutta protesa a realizzare l’immortalità fisica dell’uomo attraverso, appunto, l’antica arte dell’alchimia. Maggiori esponenti della scuola del cosiddetto taoismo alchemico saranno Huai Nan Tzu e Lieh Tzu.   Ma il pensiero sinico sarà altresì in grado di mostrare una sua peculiare duttilità e raffinatezza,  attraverso l’elaborazione di una sintesi di pensiero tra confucianesimo e taoismo, attraverso Yang Hsiung, senza dimenticarsi di passare attraverso una fase scettica con Wang Chung o una più dialettica con Hui Shih e Kun Sun Lung. L’arrivo del buddhismo, altri non farà che arricchire l’impostazione taoista in direzione di quel concetto di “vuoto” interiore, di distacco dal mondo sino a quel momento estraneo all’etica filosofica cinese. A partire da un certo momento il pensiero cinese verrà così assumendo una valenza triadica, di cui confucianesimo, taoismo e buddhismo rappresenteranno le principali coordinate. Dal 19° secolo in poi, la Cina inizierà il proprio graduale avvicinamento ai canoni di pensiero occidentali. Alcuni filosofi come K’Ang yu Wei ed altri avranno un approccio quasi deferenziale all’occidente, tentando di adeguare gli stilemi del pensiero sinico a quelli occidentali. Ma sarà con Mao Tze Tung  che il pensiero cinese opererà un vero e proprio salto di qualità. In lui marxismo e taoismo operano una sintesi originale. La Storia e le idee sono un unicum senza soluzione di continuità, alla cui base stanno le masse viste come un unico e massiccio corpo mobile. Le idee però non possono essere soggette a quella legge di platonica immutabilità a cui le si vorrebbero astringere. Mao afferma la fluidità dell’Essere della realtà totale di quel Tao, il cui aspetto muta con il dissennato correre del tempo, cosicchè la stessa ideologia marxista ed i suoi presupposti sono destinati al mutamento e ad un graduale stravolgimento. A ben vedere, la sintesi maoista, nella sua totale eterodossia rispetto al pensiero marxista classico di cui stravolge l’immutabilità concettuale, prefigura e prepara in estrema coerenza le future evoluzioni del sistema politico cinese. Da un esasperato collettivismo, venato da un culto della personalità che ha rasentato la divinizzazione della figura del Grande Timoniere, si passerà via via ad uno stato a dirigenza socialista, il cui modello economico sarà invece ispirato all’iperliberismo economico, in coerenza con quei canoni autoritari che rappresentano una deviazione dal confucianesimo, e di cui nell’antichità si fecero interpreti i filosofi della scuola legista. Possiamo quindi concludere che, il modello cinese, ben lungi dal rappresentare una scopiazzatura dell’Occidente è una coerente applicazione e riproposizione delle coordinate principali di un pensiero che, a partire da Confucio, non ha mai smesso di conoscere continui sviluppi e riadattamenti. In coerenza con quanto qui affermato, di fronte al momento di forte espansionismo economico cinese ed a tutti i timori sollevati, la cautela è d’obbligo. Nei lunghi millenni della propria storia, il colosso asiatico non ha mai travalicato i propri immensi confini salvo poi subire delle notevoli contrazioni. L’iniziale espansionismo mongolo incardinatosi nel sistema imperiale cinese, produrrà un’implosione che si protarrà per secoli, sino praticamente ai nostri giorni. La Storia di un popolo ed il suo pensiero, debbono a questo punto, offrirci dei fondamentali spunti di pensiero, in grado di allontanarci dalla tentazioni di quanto mai affrettate e superficiali conclusioni di qualsiasi ordine e tipo.

Il pensiero romantico

Accanto all’Illuminismo, il pensiero occidentale vedrà sorgere una corrente di pensiero che sorgerà sul finire del 18° secolo, in Germania, il Romanticismo.Sorto in concomitanza con l’esplosione del pensiero illuminista, sembra però rappresentarne l’esatto opposto; al ponderato razionalismo, di cui quest’ultimo è portatore, risponde con l’esaltazione della passione, del sentimento, insomma di tutto quell’insieme di modi di vedere la realtà che fanno parte della sfera dell’irrazionale.Ecco la divinizzazione delle forze della natura, libera e spontanea , ecco l’instintivo anelito verso le forze dell’infinito, ecco quindi la rivalutazione della Storia come passionale vissuto dei popoli e delle loro comunità, il tutto apparentemente contrapposto al cosmopolitismo Settecentesco.Ma facciamo un passo indietro, cerchiamo di vedere da cosa nasce tutto ciò e, specialmente, perchè abbiamo usato il verbo sembrare in relazione al porsi del Romanticismo rispetto all’Illuminismo.Come abbiamo detto, il Romanticismo nasce come Sturm und Drang, cioè un movimento letterario germanico che, facente capo ad Hamann ed Herder, farà da protagonista in Germania dal 1750 al 1780, e sarà incentrato sulla passionalità contrapposta all’Illuminismo dell’epoca, e per questo sarà chiamato preromantico, non avendo ancora ricevuto una definitiva codificazione.Strano a dirsi, ma sarà proprio l’Illuminismo il motore d’avviamento di questo fenomeno.La seconda metà del Settecento vedrà la comparsa del più importante riordinatore del pensiero occidentale di quel periodo, Immanuel Kant; costui cercherà di dare una codificazione teoretica a tutte le spinte razionaliste che avevano fatto la loro comparsa sulla scena del pensiero occidentale.Ribadendo la causalità come principio legittimatore del mondo fenomenico, afferma però l’inconoscibilità dell’essenza del mondo ( noumeno), e quindi l’impossibilità della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio e del contesto metafisico, riducendo il tutto ad azione conforme a dovere; questa azione dovrà relazionarsi in seguito con il mondo sensibile. Ma torniamo all’inconoscibiltà dell’Essere; questa sembra essere uno degli elementi che farà da detonatore allo Sturm und Drang ed il Romanticismo.La coscienza di un qualcosa di misterioso e sensuale, che si muove attorno all’uomo sembra discendere dal razionalismo kantiano sino alle profondità di un pensiero di segno opposto. Comunque da questa singolare miscela, fiorirà una corrente di pensiero eterogenea, che andrà dall’idealismo tedesco di Fichte, Schelling, Hegel, all’irrazionalismo di Nietzsche e Schopenauer, passando attraverso Schlegel, Novalis ed altri ancora.Una serie di correnti eterodosse, animate da un comune modo di percepire la realtà, un disordinato guazzabuglio di esperienze che, contrariamente a ciò che si può pensare, finirà con l’interagire con il pensiero Illuminista.Prendiamo il caso di Hegel; quello che fu un grande teorico dell’idealismo, diverrà un fiero battistrada di quel tanto avversato liberalismo, da essere considerato da Fukuyama e dalla sua scuola, uno dei massimi realizzatori di quella tanto auspicata castrazione della volontà di comando dell’uomo (thymòs).Strumento di ciò sarà lo Storicismo di Hegel, secondo il quale la storia finisce con il moderno liberalismo, perchè capace di condurre l’individuo in direzione di quell’autocoscienza assoluta, che della propria filosofia costituisce il fine ultimo; affermazione questa, di inaudita gravità perchè costituirà di fatto l’investitura ufficiale dell’ideologia liberale e di tutte le sue conseguenze.Se il Romanticismo sarà il rivalutatore dell’irrazionale senso di appartenenza ad una comunità d’origine, diverrà anche lo strumento di cui si serviranno i ceti commerciali nel realizzare le varie rivoluzioni liberali, sostenuto dal solito liberalimo, in tutta Europa.Lo stesso marxismo, in una certa prosopopaica esaltazione del proletariato e della sua Rivoluzione , risente delle influenze romantiche.Il Romanticismo rappresenta, quindi, quella rivoluzione estetica, che come un “fil noir” attraverserà tutti gli eventi del mondo occidentale a partire dal 18°secolo al 20°, con questi intersecandosi e compenetrandosi.Dalla filosofia all’arte sino alla scienza nulla o quasi, si può dire, sarà risparmiato da questo modo di sentire il mondo; un sentire che farà sì che da giuste e nobili premesse, si arrivi quasi sempre a conclusioni affrettate ed arrabattate, spalancando così la porta ai disastri del 20° secolo.Così sarà per il marxismo , partito con nobili scopi e giunto a conclusioni a dir poco tragiche, la stessa cosa sarà nelle scienze da Freud al Positivismo scientifico, che consolideranno definitivamente una visione scientifica del tutto materialistica.Questo perchè, il Romanticismo rappresenta la terza Rivoluzione estetica del millennio appena trascorso.La prima Rivoluzione, quella Rinascimentale, nasce intrisa di superomismo e muore con le Guerre di Religione, la seconda, quella Barocca, è informata dello spirito della Controriforma e muore con il neoclassicismo illuminista, la terza è quella Romantica, dionisiaca risposta del mondo germanico alle due precedenti di matrice prevalentemente italica, finirà col confondersi con l’ideologia mercantilista, sino ad essere da questa soffocata.Il Novecento rappresenterà il punto in cui, tutte le disordinate spinte che covano all’interno del Romanticismo, esploderanno in due fenomeni se vogliamo di segno opposto ed uguale: la Rivoluzione Russa del ‘18 ed il Fascismo.Ambedue partiranno da una base comune, costituita dall’insurrezionalismo di matrice romantica; ma mentre la prima si autocontraddirà, a causa dello sterile materialismo ideologico marxista, che ne appiattirà e deprimerà lo sviluppo, il secondo rappresenterà il tentativo di unire differenti forze (socialisti, nazionalisti, anarco sindacalisti, futuristi, tradizionalisti, etc.) sotto un comun denominatore, nel nome del superamento delle posizioni Liberali e Marxiste.Questo tentativo verrà vanificato dall’esplosione del secondo conflitto mondiale, ed il conseguente trionfo del modello liberal democratico.Il Fascismo ed il suo consimile germanico, il Nazional Socialismo, rappresenteranno quindi il punto di incontro di tutte quelle contrastanti tensioni che caratterizzeranno la vita culturale occidentale dalla fine del 19°secolo in poi; tensioni queste dovute alla crisi delle certezze del Positivismo, accompagnata con l’insorgere di movimenti di segno spesso opposto: si va dalle avanguardie artistiche (e politiche), all’avvento di concezioni sia artistiche che politiche, legate ad una visione magica della realtà, imperniata sul mito della razza, da Arthur De Gobineau e Richard Chamberlain in poi.Questo coacervo di concezioni, spesso opposte, troveranno nel Fascismo e nel Nazional Socialismo, gli elementi in grado di unificarne e sintetizzarne le pulsioni, conformemente al contesto in cui si troveranno ad agire; così se nel Fascismo, accanto al nazionalismo, sarà prevalente l’elemento di Avanguardia, costituito dal Socialismo e dal Futurismo, nel Nazional Socialismo, invece, accanto al nazionalismo sarà invece prevalente un Socialismo venato da quella concezione magica della realtà, che ha nella razza il proprio punto di riferimento principe; tant’è che la NSDAP(Partito Nazional Socialista Tedesco) sarà una filiazione diretta del Circolo esoterico”Gruppo di Thule” di cui tutti (o quasi), i padri fondatori del nazismo facevano parte.Quindi il Fascismo ed il Nazismo come momenti di sintesi estrema di differenti spinte, accomunate da quella sensibilità romantica, da quel disordinato dionisismo laico che presto verrà assorbito dalla società dei consumi. Per questo motivo Fascismo e Nazismo sono ad oggi irripetibili, proprio perchè rappresentano la sintesi di forze oggi non più presenti in una società come quella attuale.La spinta propulsiva del 1918, determinerà due momenti di sintesi: una perfetta rappresentata dal Fascismo, una imperfetta (perchè inficiata dal vizio di materialismo),dal Marxismo, ambedue questi momenti informeranno di sè tutte quelle esperienze insurrezionali che, in qualche modo, fuori d’Europa si richiameranno all’insurrezionalismo romantico; si andrà dal nasserismo al peronismo, dal guevarismo al baatismo arabo, sino al sandinismo ed altre esperienze ancora, che molto dovranno a questa impostazione che contraddistinguerà un’era, quella dell’ideologia rivoluzionaria.Qualcuno dice che la spinta propulsiva del 1918 terminerà con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989; questo evento sarà sicuramente uno di quei momenti simboli destinati a permanere radicati nell’immaginario collettivo, ma in verità la fine dell’insurrezionalismo romantico, inizierà dal 1975, con la Guerra civile libanese, che vedrà sempre più in competizione gruppi della stessa etnia, magari accomunati dalla stessa ideologia, per motivi economici o religiosi; l’evento che darà poi una spinta decisiva a tale impostazione sarà la Rivoluzione Islamica Iraniana, che metterà la parola fine al laicismo rivoluzionario di romantica memoria.La caduta del Muro sancirà quindi, uno stato di cose in avanzato svolgimento, per cui quelle che erano le componenti alla spinta rivoluzionaria del ‘18 verranno gradualmente attaccate dall’insinuarsi della logica del Mercantilismo Globale in ogni dove, provocando al massimo delle reazioni di integralismo religioso (vedi quello islamico, entrato però in una profonda crisi strutturale) o di etnicismo(vedi Ex Jugoslavia), spesso però inconsapevole strumento di interessi estranei alla propria causa.La società mercantilista riuscirà a confinare l’arte nell’astrattismo estremo, avendo saputo eleggere l’artificio tecnologico (legato al criterio di produttività economica) a canone estetico, e la politica ad una sottocategoria delle relazioni economiche.Il vizio insito alla Terza Rivoluzione Estetica, sta quindi nella propria universale confusionarietà, causata dal fatto di rappresentare una sorta di Dionisismo laico, laddove le altre due Rivoluzioni Estetiche erano sorrette da motivazioni di ordine metafisico, superiore, sia che si trattasse di allegorismo paganeggiante, come nel caso della Rinascenza, sia che si trattase di esaltare la religiosità cattolica, come nel caso del Barocco.Dunque, se il sentire estetico è un supporto fondamentale a qualsiasi cambiamento degno di nota, esso deve esser però dotato di un’anima, di una qualità interiore, altrimenti si rishia di passare dal sentire estetico, all’attuale “sentire esteriore”, che del primo è negazione e contraddizione in toto.La sfida al nuovo millennio, dunque, dovrà anche essere di natura estetica; la ricerca di un nuovo senso del Bello e dell’Armonia, in grado di dare una risposta all’esteriorismo ed all’astrattismo (vera ritirata dell’estetica dinnanzi al Globalismo), dietro cui si cela una concezione del mondo arida e pianificata.

Il Senso del Tragico in F.Nietzsche

A mio avviso “La Nascita della Tragedia”,una dei primissimi scritti di Nietzsche,costituisce una tra le opere ,senza dubbio, più interessanti ,tra quelle elaborate dal grande filosofo tedesco,a causa della grande intuizione avuta da questi tramite l’identificazione e la collocazione delle due categorie “Apollineo” e”Dionisiaco” in un preciso contesto,andando a stravolgere così ,quelli che erano i criteri interpretativi della filologia di allora che reagì sdegnata alle intuizioni di quest’ultimo per bocca dello stesso Wilamowitz.Già, perchè Nietszche non opera più un’analisi del mondo antico ,ammantandola dello stesso criterio che accompagna lo studio di un innocuo fossile,bensì ne vivifica l’essenza tramite l’inserimento di un dato di fatto ,che sino ad allora ,ad occhi esperti, era rimasto totalmente indifferente:la civiltà Ellenica,così come noi la conosciamo,non è stata solamente il frutto di splendide iperboli razionali che in Platone,Fidia e Pericle ebbero i loro più fulgidi esempi;essa in tutte le sue espressioni (in primis in quelle artistiche ) è anche il risultato di una spinta oscura ,irrazionale,per dirla con il nostro, Dionisiaca,che affonda le sue radici,nell’intreccio dei culti pre indo europei della fecondità(di cui quello della Grande Madre Terra è il più famoso), che si perdono nella notte dei tempi,e che possedevano come caratteristica principale l’annientamento dell’individuo e dei suoi vincoli comportamentali ,tramite l’ebbrezza,con la conseguenza di riportare quest’ultimo ad uno stato di estatica Unità e Riconciliazione con la Natura;questo tipo di cultualità può essere identificata in tutto il mondo precedente a quello ellenico,dalle feste bacchiche dell’Asia Minore(preistoria della grecità), alle Sacee orgiastiche Babilonesi,durante le quali l’uomo regrediva a scimmia ed a tigre,in un atteggiamento di totale sfrenatezza sessuale ,in cui crudeltà e piacere si univano in un tutto inscindibile.Il mondo Dorico,non ancora contaminato da queste ritualità,cominciando però ad essere pervaso dagli stessi sussulti,operò una sintesi tra i due modi di percepire il mondo :l’Apollineo,algido e razionale ,ed il Dionisiaco,sensuale ed irrazionale.Questo nuovo patto fa acquistare alla natura ed alla sua mescolanza di piacere e crudeltà un aspetto di fenomeno artistico,che si concretizza nella tragedia ,ove grazie al “principium individuationis”,lo spettacolo altri non è che un sogno,un sogno che sotto la guida di Apollo finisce col confondersi con la stessa vita quotidiana,investendo così lo spettatore di una forma di conoscenza che gli preesiste,e che lo illumina sulla reale natura della vita,in un misto in cui accanto al lato delle spaventose sofferenze causate dagli uomini e dalla loro insubordinazione “Dionisiaca”alle leggi degli Dei,convive Apollo ,incarnazione dell’Arte e dell’Ordine Cosmico che finisce sempre con l’essere ristabilito.Apollo ,quindi tramite la narrazione tragica ,traccia quelli che sono i limiti ,le misure dell’uomo,ma nel fare questo sente il bisogno di Dioniso e della sua azione “eccessiva”,la natura della quale costituisce il vero punto di discrimine ,secondo Nietzsche,fra mentalità indoeuropea e mentalità semitica:infatti ,mentre per quest’ultima il peccato originale è frutto di una mentalità meschina ,di raggiro ,attribuita alla donna ,nella prima si parla invece di “peccato attivo”,come espressione di virile volontarismo che vede nella figura di Prometeo, la volontà di superare con la propria azione i limiti imposti dal mondo degli Dei ,per cercare di essere egli stesso l’unica essenza di un mondo,costituito invece ,da una natura contraddittoria risultante dalla combinazione degli opposti(per esempio, divino ed umano,razionale ed irrazionale,giusto ed ingiusto)e per questo soffrirne ed esserne punito.Quindi Prometeo, e tutti gli altri protagonisti della Tragedia Greca (non a caso chiamati eroi),sono essi stessi costituiti di una duplice essenza Dionisiaca ,per quanto riguarda gli impulsi ad un’azione di tipo titanico, Apollinea ,per quanto riguarda la finalità di giustizia che li guida .Non ostante questa considerazione,in Nietzsche permane forte l’idea che la Tragedia sia ilteatro delle sofferenze di Dioniso,e che i suoi protagonisti ,altri non ne siano che le varie maschere.Fintanto che questa combinazione durò ,l’Ellenicità ebbe nella Tragedia il massimo strumento di espressione del patto tra Apollo e Dioniso;ma è con Euripide,che le cose cambieranno:l’uomo finisce col divenire l’assoluto protagonista della vicenda tragica, senza che gli Dei ne prendano più parte,in uno spettacolo sempre più incentrato sul risvolto psicologico ed esistenziale della vicenda,anzichè su quello divino come in Eschilo e Sofocle.Di questo Nietzsche attribuisce le colpe al vuoto perfezionismo estetico,proprio della morale socratica capace di mettere in fuga lo stesso Dioniso,in nome di quel realismo individualista che romperà l’incantesimo divinatorio della tragedia per andare a finire nella commedia di Aristofane,in cui si afferma un nuovo tipo umano,il “greculo”che, tutto ammmantato di bonario e scaltro ottimismo,contrapposto alla tragica grandezza del tipo umano precedente,simboleggia la caduta della società greca dalla libera polis ,protagonista della grandezza ellenica,alla mediocre vita nel contesto della satrapia ellenistica.Tutto questo ci porta inevitabilmente a porci una domanda :è ancora presente nella attuale società occidentale qualche momento Dionisiaco?E se sì ,come si pone di fronte al contesto attuale?Eccezion fatta per qualche rara festività ,come quella di San Vito in Puglia ,ed altri simili episodi presenti sporadicamente in qualche località dell’Europa Mediterranea ,momenti del genere non sono più presenti nell’Occidente attuale.Qualcuno potrebbe ravvisare una rimanenza “dionisiaca”nello smodato uso di alcool e droghe ,o in determinati episodi di “trasgressione” sessuale caratteristici della nostra società ,cadendo però in un grave errore d’interpretazione, dovuto al fatto che nella società antica certi atteggiamenti non erano fini a se stessi,ma rivolti a collocare l’adepto in una perfetta comunione con l’Essere ,con la Natura Primordiale;la violenza di sentimenti e passioni sprigionata da questo stato di mistica ebbrezza ,finiva ,nel caso dei Greci,col costituire la base di una creatività artistica formidabile.Episodi questi a cui possiamo ancora assistere in certe realtà del cosiddetto Terzo Mondo dove la musica, in un contesto di festività religiose finisce col fornire il necessario supporto a stati di inebriamento mistico,come accade nelle realtà Afro Latine ,nell’Africa Nera o nel Sub Continente Indiano ,accomunate da questo aspetto.Cose queste che non possiamo certo ravvisare in certi fenomeni caratteristici dell’Occidente attuale ,che essendo fini a se stessi, costituiscono solo un segnale di disagio da parte di una società di castrati,la cui addomesticazione ad una morale ligia al più bieco materialismo,ha sterilizzato qualsiasi irrazionale slancio creativo sottomettendolo inesorabilmente alle leggi del Mercato ,che finiscono così con lo svuotare di contenuto ,con l’inaridire, qualsiasi forma di espressività artistica. Siccome l’Arte vuole essere l’espressione più idealizzata ed allo stesso tempo più irrazionale dell’esistente, in questo modo finisce col divenire l’espressione di una società malaticcia che ,sbarazzatasi oramai di quel sentire inebriato della possenza dell’Essere ,che ha costituito la base dello stesso Romanticismo,(che in questo modo può essere consideratouna versione più attuale del Dionisismo), finisce con l’ammantarsi di un sentimentalismo smielato,le cui parole d’ordine, solidarietà ,fratellanza ,umanitarismo,riempiono la bocca di un’umanità asessuata i cui modelli di riferimento sono rappresentati dagli stessi campioni di mediocrità che già nell’antichità classica contribuirono a spazzare via la Tragedia Greca e la Civiltà che l’aveva partorita.L’odierna civiltà è caratterizzata da un’umanità di Alberto Sordi versione 2000,tutti fast food e telefonino,griffati e firmati all’ultima moda,grandi divoratori non solo di cibi trans genici ma di qualsiasi cosa venga loro propinata sotto il nome di Arte:tanto basta che una testa di cazzo qualunque si svegli una mattina ,faccia due schizzi su un foglio (ed è già troppo!!),o esponga un qualsivoglia pezzo di plastica ,ed ecco là che la critica griderà tutta commossa al miracolo ,parlando di nuova avanguardia artistica o di trans avanguardia ,che dir si voglia .Ecco ,dunque la malattia di questa civiltà :la mediocrità che genera l’incapacità di riappropriarsi del senso dell’Estetica come creatrice di nuove dimensioni interiori,senza il supporto dell’artificio Tecnologico ,e la mancanza di quei momenti di follia creativa in grado di spezzare l’ordinarietà convenzionale dell’esistenza e che coniugati con la tendenza alla Perfezione ideale ,dovrebbero costituire la base per lo sviluppo di una Civiltà, espressione quest’ultima dell’Armonia del singolo con l’Universo circostante.

Comunitari o Liberal?

E’ recente, l’uscita del saggio di Marcello Veneziani “Comunitari o Liberal .La prossima alternativa?” a cura della Laterza.Punto forte di questo saggio ,è il totale abbandono delle due categorie di pensiero meta -politico,costituite da Sinistra e Destra,in favore di una ,se vogliamo più agevole ed attuale distinzione tra pensiero Liberal e pensiero Comunitario,il primo mirante allo scioglimento dell’individuo da qualsiasi legame familiare ,sociale,tradizionale,in nome dell’individualismo più sfrenato,concezione questa che vede nell’esistente solo il frutto di un’insieme di casualità,non governato da alcun Ordine Superiore a cui fare riferimento(le più recenti dottrine cosmologiche sul disordine entropico sono un’evidente dimostrazione di questa impostazione),il secondo invece punta al solidarismo sia culturale che sociale,e qui Veneziani distingue tra un solidarismo cosiddetto “freddo”che fa capo alle scuole “communitarian”americane rappresentate dai vari Macintyre,Sanders,Taylor,Etzioni,e di provenienza sia radical che neo coservatrice ed un solidarismo “caldo”,intriso di umanismo e spiritualismo ed i cui capi fila vanno daS.Weill a G:Gentile,daT.S.Eliot a E.Mounieri ,i cui fili conduttori sono il primato del noi,l’attaccamento alle radici ,la visione religiosa della vita politica e sociale.L’analisi del Veneziani si conclude con l’affermazione che comunitario è chi assegna valore primario all’identità ,alle origini e quindi a quei legami sociali,familiari ,nazionali,religiosi,che dell’individuo costituiscono l’humus ,la linfa vitale.Se l’analisi del Veneziani da una parte è perfetta dal punto di vista sociologico, dall’altra,cioè dal punto di vista della specificità ideologica,pecca di un pericoloso sincretismo ;difatti il voler accostare differenti scuole di pensiero sotto un comun denominatore, quello “comunitaristico”rischia di confondere non poco le acque di una corrente di pensiero ,quale quella della cosiddetta Destra Radicale,già di per sè propensa al sincretismo ideologico,con la conseguenza di annacquarne irreparabilmente i contenuti .Non solo,la definizione di “Comunitario “pecca di una pericolosa genericità ,perchè rischia di far confluire in un’unico calderone dottrine e stili di vita che nulla hanno in comune se non una pretesa propensione alla vita comunitaria:difatti se è corretto definire “Comunitario”colui che assegna valore a legami umani di tutti i tipi traendone una perenne risorsa di vita,allora perchè non arruolare in questa brigata anche la Massoneria o le varie lobbies finanziarie anglo americane di cui le famiglie alla Rotschild sono la più fulgida espressione?Oppure ,senza bisogno di andare Oltreoceano,le nostrane Mafia ,Camorra e ’Ndrangheta ,con la loro organizzazione strutturata sui clan familiari, forniscono un perfetto esempio di “Comunitarismo”quanto mai vitale ed attuale.Questi piccoli e goliardici esempi ci mostrano però quanto labili, elastiche e facilmente deformabili siano certe confutazioni frutto di categorie sociologiche non assolutamente applicabili al pensiero meta politico ,se non a gravissimi rischi.D’altronde ,però ,lo sforzo in direzione del superamento dialettico delle categorie Destra e Sinistra rimane attuale con tutte le problematiche ad esso connesso,e quindi sarà necessario rivedere un momento i concetti base da cui partire per effettuare questa analisi.Come abbiamo già visto,le categorie sociologiche “Individualista” e”Comunitario” non sono sufficienti a dare una valida risposta al nostro problema,perchè inficiate da un vizio di basale genericità,quindi la nostra analisi dovrà spostarsi sull’elemento che tra questi due termini può essere il collant o il discrimine ,andando così ad informare di una valenza ,di un peso specifico una concezione che altrimenti rischia di essere carente di una solida base teoretica.L’elemento in questione è il binomio Assoluto-Relativo che giuoca un ruolo di primaria importanza nella determinazione dei rapporti tra esseri umani ,sia visti come individui che organizzati in comunità di vario tipo.Così per il mafioso il rapporto con il proprio clan d’appartenenza improntato a cieca obbedienza dovuta alla completa identificazione negli interessi e nelle finalità di quest’ultimo sarà di tipo Assoluto,mentre per lo stesso individuo il rapporto verso lo Stato costituito da ostilità e opportunismo, sarà di tipo Relativo.Per un bravo militante Cattolico il rapporto con la Chiesa è di tipo devozionale,indiscutibile quindi Assoluto,mentre il proprio rapporto con lo Stato ,anche se improntato a rispetto è di tipo Relativo,poichè parte da una considerazione di provvisorietà temporale di quest’ultimo.Si potrebbe continuare con un’infinità di questi esempi,ma la conclusione rimane identica per tutti i casi:la discrasia totale ,tra i due elementi in ordine ad un medesimo contesto(quello del relazionarsi tra individuo e le varie forme di organizzazione della società) vanifica qualsiasi sforzo di riordinamento delle categorie del pensiero meta politico,perchè lo inficia con un vizio di incoerenza sin dalle fondamenta.Questo vizio di incoerenza ,è ciò che oggi caratterizza la società attuale,che comunque sia è sempre più orientata verso il Relativismo totale sia per quello che riguarda le scelte Universali(politica,economia,etc.),che per quanto riguarda le scelte Particolari(morale,relazioni interpersonali,etc.).Il nodo del problema non è quindi il rapporto “Individualismo” “Comunitarismo”,bensì il riuscire a capovolgere l’attuale impostazione della società in favore della categoria Assoluto,riallineando il rapporto Individuo Comunità sotto il comune denominatore di questa fattispecie ,in questo contesto rappresentata dallo Stato,che, dotato di questa nuova valenza sarà così in grado di veicolare le aspirazioni dell’individuo in rapporto alle esigenze della Comunità e viceversa ,in un rapporto di perfetta osmosi.Chiaramente anche questa concezione può presentare dei punti deboli :anzitutto qualcuno potrebbe obbiettare sulla reale valenza del concetto di Assoluto rapportato per esempio alla realtà Stato,ma trovandosi dinanzi ad una concezione forte ,ben difficilmente potrebbe accusarla di genericità o relativismo,al massimo potrà parlare di una concezione eccessiva,“estremista”;il secondo punto su cui si potrebbe obbiettare potrebbe essere costituito dal carattere statico di una simile concezione,che potrebbe rivelarsi inadeguato ad affrontare i mutamenti e le sfide che via via si presentano con il tempo.E siccome la Storia ci ha insegnato che ogni qualvolta la società sia stata dominata da pulsioni Assolutiste queste finivano inevitabilmente con lo sfociare nel più totale Relativismo(così come accaduto dal Medio Evo ad oggi),proprio a causa del vizio di staticità che molto spesso si annida dietro a certe concezioni,la soluzione andrà cercata sì nella prevalenza dell’elemento Assoluto ,ma in armonia con la sua controparte ,il Relativo ;così si potrà avere uno Stato sì proteso ad essere espressione della Comunità al suo massimo livello,ma al contempo anche tutore dell’Individuo e del suo libero e disarticolato esprimersi di energie creative che contribuiranno a rinnovarne continuamente la linfa vitale costituita dalla sua Assolutezza.In questo modo si potrà realizzare nelle cose umane quel perfetto equilibrio caratterizzato dall’Armonia tra Unità e Molteplicità ,Assoluto e Relativo che governa l’Universo in tutti i suoi aspetti.

Tra comunità e comunismo

Il nuovo millennio appena iniziato si apre all’insegna del tentativo di adeguare le ideologie all’inesorabile avanzata di un modello, quello tecno economico occidentale, che nulla e nessuno sembra risparmiare nella sua inesorabile corsa verso il dominio assoluto ed incontrastato del mondo. Nel caso qui trattato, in particolare, il dibatttito va incentrandosi sulla rifondazione di quel particolare settore del pensiero antagonista alla cui base sta l’ideologia marxista. Uno tra i più autorevoli esponenti di questa tendenza è rappresentato da Costanzo Preve che, assieme a nomi quali Gianfranco La Grassa, Marino Badiale ed altri ancora, vanno da non poco tempo procedendo in questa direzione. Attraverso la rivista “Comunismo e Comunità” Costanzo Preve, in particolare, va facendosi portavoce di un’istanza tutta incentrata sul binomio “comunismo-comunità”, (titolo-simbolo dell’impostazione della rivista) volto a ricontestualizzare e rivedere l’intero impianto idelogico marxista sotto la luce di un’etica comunitaria, vivificata e confortata dall’analisi hegeliana da cui il Preve attinge nei suoi scritti. Ma procediamo per ordine. Nel suo ultimo scritto (“Comunismo e Comunità” apparso sull’ultimo articolo dell’omonima rivista) il professore torinese inizia proponendo una netta distinzione tra i differenti significati filosofici del termine “comunismo”. Comunismo nel senso di Marx, comunismo effettivamente esistito e, dulcis in fundo, il comunismo nella sua accezione ideale e metastorica più completa e profonda di “comunismo eterno”, quale vera e propria metafora di una tendenza insita allo svolgimento  della storia, tutta volta a ribaltare lo status quo tra sfruttati e sfruttatori. Non più la solita unilineare e “teologica” interpretazione di un’intero percorso di pensiero, dunque, bensì un risguardo critico che, animato da osservazioni  apparentemente ovvie, stabilisce invece una sottile, ma inesorabile cesura tra le più o meno ufficiali interpretazioni e qualcosa di molto differente. Nella fase successiva Preve passa ad analizzare il passaggio dalla società pre-capitalista a quella capitalista, offrendoci degli ulteriori spunti di riflessione:

qui comincia a manifestarsi la doppia natura dell’intera vicenda del pensiero occidentale, e questo proprio a partire dall’analisi del fenomeno dell’individualismo. Quest’ultimo può esser visto come causa prima della natura alienante del capitalismo, in quanto causa prima di quella ”libido” materialista ed economicista tutta alla base del fenomeno capitalista. Allo stesso tempo, però, l’individualismo può esser inteso in un’altra accezione che guarda diritta al cuore dell’occidente, animato da quella spinta prometeica che lo porta ad esaminare, conoscere, dominare la realtà circostante, partendo proprio dalla prospettiva dell’individualità cosciente.

Anche qui si può ravvisare la tendenza a porre in termini di dialettica hegeliana una questione, la cui interpretazione non può assolutamente esser letta all’insegna di un’unilinearità castrante. Il passo successivo consiste nell’applicare il concetto hegeliano di Assoluto alla visione marxista del capitale. Nel far questo, viene integralmente applicato il principale strumento di interpretazione del pensiero hegeliano che, per addivenire alla definizione di un qualsivoglia oggetto della realtà, usa un preciso schema di pensiero, impostato sull’alternarsi ed il succedersi di una serie di fasi, e per ciò stesso definito appunto “dialettico”. Tesi, antitesi e sintesi, sono le tre fasi principiali di tale schema che, nel caso della definizione di Assoluto vengono trasposte nei tre momenti di astrazione, dialettica e speculazione. Ma prima di procedere ulteriormente, va ricordato che il concetto di Assoluto in Hegel differisce sensibilmente sia da quello della teologia delle religioni rivelate, inconoscibile e distante dalla dimensione umana, sia da quello del Logos panteistico e polimorfo, razionalmente comprensibile (e perciò stesso non necessitante di rivelazione) proprio delle religioni classiche, del tao cinese, dell’aristotelismo, di Spinoza ed altri. La grande innovazione hegeliana sta proprio nella sua idea “immanentista” di Assoluto, tutta innestata sul concetto di “Pensiero universale”. Qui dimensione umana e dimensione divina coincidono in quanto ambedue frutto ed espressione di una comune matrice ontologica da cui, attraverso una graduale presa di coscienza, si diparte uno degli aspetti presi in considerazione. L’Assoluto si manifesta quindi, a seguito di una fase costitutiva di tre momenti fondativi, sino a che, raggiunta la piena coscienza della propria “ipseità”, arriva a rispecchiarsi in sé stesso. La medesima operazione Preve fa con il Capitale, di cui va a distinguere un momento “astratto”, ovvero quello consistente nell’instaurazione a livello universale dell’intero impianto teorico fondativo del capitalismo. I precedenti ordinamenti corporativi e feudali vengono soppiantati dall’alienante urbanesimo industriale, la morale discendente da un ordinamento metafisico superiore di tipo religioso viene soppiantata da un modello di morale eteronoma, cioè decontestualizzata da qualsiasi logica superiore. La natura umana viene conformata alle aspettative economicistiche che vedono nel lavoro la forza trainante dell’intera umana esistenza. L’unilinearità temporale tipica delle religioni monoteiste si trasmette al capitalismo la cui realizzazione in terra soppianta la precedente Gerusalemme Celeste. L’unificazione dello spazio in un “unicum” materiale, privato di qualsiasi superiore dualità “cielo-terra”, permette la mercificazione dell’orbe terracqueo senza impedimenti metafisici di sorta. La seconda fase “dialettica” inaugura il contrasto “proletari-borghesi” ben ipostatizzata nel concetto di lotta di classe. La graduale scomparsa del proletariato, oggidì sostituito da una variegata categoria di precari di classe medio-bassa, ci fa oggidì parlare di una dialettica tra sfruttati e sfruttatori. L’ultima fase, propriamente “speculativa”, ci pone dinnanzi alle tre categorie ontologiche del pensiero marxiano, inerenti al capitalismo e cioè all’astrazione, all’alienazione ed alla contraddizione. La mercificazione dell’uomo, porta inevitabilmente ad un processo di alienazione, le cui coordinate possono esser rinvenute all’interno di un sistema globale, dentro il quale possono esser rinvenute, in forma sicuramente adeguata al presente, quelle contraddizioni (o sarebbe meglio dire contrapposizioni) già rinvenute e studiate dall’analisi marxiana. Al termine di questo percorso sta, a detta del Preve, quel Comunitarismo, quale immagine vivente di quel “comunismo eterno”, che si ripropone continuamente nella storia quale archetipo eterno della rivolta contro l’ordine sociale costituito. Terza via tra il contemporaneo individualismo e qualunque tipo di organicismo comunitario, la Comunità si pone come espressione dell’istanza di un neonato universalismo razionalista, assolutamente disancorato dall’ idea di stabilizzazione di un qualsivoglia idealtipo. Ciò che in questa analisi ci preme sottolineare maggiormente, non è tanto la singolarità del metodo d’analisi, né tantomeno le varie confutazioni sulla natura dell’Assoluto, né tantomeno l’intima natura di universale razionalismo del comunitarismo previano, (spunti che comunque meritano un commento a parte) quanto il fatto che, in questo contesto il marxismo subisce una silenziosa, ma significativa destrutturazione. Senza clamori, né ripensamenti di sorta, ma anzi continuando a proclamare la propria adesione al marxismo, il Preve opera un clamoroso cambiamento di prospettiva all’interno dell’intero corpus ideologico di riferimento. Alla fine dello scritto viene in chiare note affermato che, tra i tre idealtipi di comunismo, a riproporsi nel futuro non sarà tanto il marxismo scientifico di Marx (né tantomeno le sue applicazioni “storiche”), quanto il “comunismo eterno” che, in veste di perenne archetipo di rivolta sociale va ripresentandosi via via in forme diverse nei vari momenti storici. Comunismo eterno la cui prossima manifestazione immanente sarà di natura più propriamente “comunitaria”, a cui si vorrebbe frettolosamente appiccicare un’etichetta di razionale universalismo, senza rendersi conto che qualunque tendenza che oggidì si ponga in un reale antagonismo con il pensiero globale, non potrà non essere, per un motivo di intima coerenza ontologica, se non all’insegna di un forte afflato di relativismo culturale, animato da una rinnovata struttura organicistica, tutta imperniata su un concetto etico di comunità e stato. Questo perchè gli sfasci dell’universalismo occidentale, nato con il Proto Illuminismo e sviluppatosi nell’arco di tre secoli e passa, sono inesorabilmente sotto gli occhi di tutti. Resta comunque il meritorio tentativo di fare i conti con la propria storia ideologica, dando vita a quell’opera di destrutturazione di uno dei grandi schemi totalitari del Novecento, che altro non potrà esser foriero se non di nuove sintesi ideologiche antagoniste all’attuale “nuovo ordine”. L’applicazione del concetto hegeliano di Assoluto assieme al metodo dialettico alla genesi ed allo sviluppo del capitale, ci pone dinnanzi l’immagine di una realtà che, nel prendere gradualmente coscienza di sé, lascia intravedere che l’intera dimensione dell’oggettività dipenda dall’io e dalla coscienza individuale, a tal modo assurta a vero e proprio catalizzatore della realtà. In tal modo il processo di assolutizzazione del Capitalismo, assurge al ruolo di vera e propria metafisica, nel solco di quella tradizione monoteista occidentale che a partire da Plotino, passando attraverso la teologia di S. Agostino, ed arrivando sino ai giorni nostri, cercherà sempre di operare una “reductio ad unum”. Si passerà in tal modo dal tentativo di dominare l’intera realtà, riconducendone le coordinate ad un principio unitario la cui natura, inizialmente teologica, andrà in seguito ad immedesimarsi nel nuovo principio di carattere puramente economicistico che, a partire dal 17° secolo andrà ad animare il percorso dell’Occidente. Il tentativo di destrutturare una delle grandi ideologie totalitarie del 20°secolo, rientra in un quadro caratterizzato appunto dall’insufficienza costitutiva di queste ultime a fornire delle risposte in grado di reggere il confronto con un modello Tecno Economico, dinnanzi al quale lo stesso linguaggio filosofico perde il proprio senso compiuto. E’ quanto si può constatare attraverso la lettura di un grande interprete del disagio per il trapasso epocale alla Post Modernità, quale Gianni Vattimo. Riprendendo le tematiche nietzschiane ed heideggeriane, Vattimo procede ad una destrutturazione del marxismo, “disossandolo” della sua corazza scientifica e lasciandone intatta la forte carica messianica e libertaria, avvicinando le proprie posizioni a quelle di un cosciente anarchismo comunitario. Si ritorna sempre, dunque, al “comunismo eterno” che è altra cosa dall’elaborazione teoretica marxista. In tutto questo permane, a mio parere, un problema di fondo anche qui dato dalla valenza del termine “comunismo”. Una valenza irrisolta su cui nessuno sembra voler discutere nel timore di urtare chissà quale suscettibilità.

A questo proposito mi sovviene un autore come Oswald Spengler che, nel suo “Il tramonto dell’Occidente”,  nell’intento di tratteggiare una fisiognomica della storia e delle civiltà, ci pone dinnanzi alle due formazioni sociali “originarie”, ovvero in grado di dare un contenuto all’intera civiltà a cui queste si riferiscono, a suo parere rappresentate dal sacerdozio e dalla nobiltà. In Spengler, infatti, ambedue le due caste assurgono a vera e propria metafora ideologica rivolta, in particolare, al problema della proprietà privata. Il sacerdozio rappresenta l’istinto al dominio di un piano puramente spirituale, astratto, da cui non si può esser distolti con tutti quei problemi inerenti alla proprietà, affrontati con la più radicale e sbrigativa delle soluzioni: mettendo cioè in comune, tramite la suddivisione in parti eguali tra gli appartenenti alla comunità. Alla casta sacerdotale appartengono tutti coloro che esercitano la speculazione pura sia essa religiosa, filosofica o artistica che dir si voglia. Alla seconda categoria, alla nobiltà, appartengono tutti coloro che aspirano ad un effettivo dominio sulla realtà concreta. Legata all’informe contadinato (di cui è figlia nobile) da un rapporto di osmosi con la madre terra, di cui aspira ad essere figlia prediletta, attraverso l’esclusivo  possesso dei suoi frutti. In tale contesto, l’esercizio della proprietà diviene l’espressione di quella volontà di potenza in grado di condizionare la storia del mondo, muovendo popoli, edificando nazioni, scatenando guerre, in un grandioso alternarsi e susseguirsi di civiltà. Alla nobiltà si affiancano tutti coloro che aspirano a “possedere” politicamente od economicamente che dir si voglia. Il suddividere, il metter radicalmente in comune, o ”comunismo”, è fenomeno storico di nicchia. Comunisti furono gli Spartiati, i Moisti cinesi, gli Esseni, gli indio Hopi e tanti altri esempi noti e meno noti. La volontà di potenza, legata al concetto di proprietà è più diffusa, ma altrettanto difficile a realizzarsi nelle sue espressioni più pure e grandiose, rappresentate da imperi, nazioni, condottieri, leader politici, magnati, etc. Sacerdozio e nobiltà, comunismo e proprietà, visione verticale eterea e dominio orizzontale materico, rappresentano archetipi egualmente presenti nell’animo umano e nelle sue più grandiose espressioni civilizzatrici. Imporre uno dei due in regime di esclusiva, determina una carenza nell’azione formatrice di una civiltà o di una comunità ad essa legata. Il grande problema determinato a partire dal Proto Illuminismo e dalla nascita della civiltà industriale sta nell’aver reso “scienza” (il “socialismo scientifico” di marxiana memoria, per fare un esempio appropriato, sic!) ciò che invece appartiene al regno dell’archetipo e, cosa ancor più grave, di aver determinato un’ulteriore scissione all’interno della civiltà occidentale determinando un’antinomia irresolubile tra due polarità caratteriali egualmente fondamentali. L’essere umano è una sintesi di volontà di potenza che nasce in un contesto orizzontale, protesa in direzione del piano verticale, infinito dell’essere. Se vogliamo uscire dalla via senza sbocco di una competizione con la Tecno Economia, effettuata con le armi spuntate di un determinismo ideologico invalidato dalla propria natura “parziale” (e perciò stessa incompleta ed insufficiente), allora bisognerà addivenire all’elaborazione di una nuova sintesi di pensiero, in grado di conciliare al proprio interno quelle antinomie tuttora insuperabili. A partire da Essere e Divenire, sino ad arrivare a proprietà e comunità, la strada della conciliazione e del superamento delle antinomie è appena all’inizio. La ricerca heideggeriana di un linguaggio estatico, il riappropriarsi gadameriano di determinate categorie del pensiero, accanto alle più recenti elaborazioni del Preve e di altri autori, contribuiscono significativamente ad aprire la strada in direzione di una nuova sintesi di pensiero. La strada è ancora lunga, il superamento delle antinomie comporta la coscienza delle loro limitatezze; il tentativo di risuscitare o di rielaborarne i termini è destinato a sicuro fallimento, come i più recenti insuccessi dei movimenti antagonisti occidentali vanno mostrandoci.

Un secolo noioso lo si sarebbe potuto definire l’Ottocento, con i suoi pensatori tutti animati da una protervia e da una sicumera derivanti da quel pensiero “positivo”\“positum-imposto”, che in una visione del mondo incentrata su un sicuro e preordinato meccanicismo informava qualunque aspetto, anche il più insignificante, dell’intera esistenza dell’universo. Tutto sembrava procedere in una gioiosa marcia verso un radioso e preordinato avvenire di banalità, quando ecco apparire Nietzsche. Figlio di quel pensiero che a partire da Schlegel arrivando a Schopenauer, ha nella forza della vita il proprio perno fondante, Nietzsche ne capovolge radicalmente le prospettive.

Non più, come per Schopenauer, motivo a giustificazione dell’insensatezza dell’esistenza, che finisce con il ricadere irrimediabilmente nella ricerca di un quanto mai vano e sterile “consolamentum” di tipo metafisico, per Nietzsche la forza vitale è alla base di un mondo che, lungi dall’essere un preordinato svolgersi di eventi, si rivela come insensato affastellarsi di suoni, colori e sensazioni, da cui l’uomo deve saper trarre ciò che per lui è più atto a perpetuarne la forza vitale. Questa è la “volontà di potenza”. In questa nuova prospettiva è l’uomo ad esser misura delle cose, non più un originario ed astratto costrutto metafisico, visto anzi come un qualcosa che ferma, imbriglia, castra le energie vitali dell’individuo. Queste debbono così confrontarsi in un mondo all’insegna di una tragica insensatezza, di cui l’uomo deve saper eroicamente accettare e sopportare il peso, con un atteggiamento di sprezzante irrisione nei confronti di qualunque morale, credo o ideale, veri e propri scarti di quella tanto aborrita metafisica.

In Nietzsche la morte di Dio, altri non è dunque che l’espressione dell’affermarsi di una innaturale morale, tutta in contrasto con quel fluire della vita e con quella volontà di potenza, questi sì alla base di autentici valori di vita. Ma nell’inarrestabile percorso volto alla più completa destrutturazione della metafisica, l’analisi di Nietzsche viene a sua volta fatta oggetto di critica da quel Martin Heidegger che, nel ruolo di figlio dello stesso Nietzsche e di quell’Edmond Husserl, dal cui fenomenologico (da “fainòmenon”) indagare il manifestarsi delle cose, prende spunto per intraprendere un’ulteriore percorso di pensiero. Qui ad essere privilegiata è una riflessione tutta imperniata sulla aristotelica distinzione tra essere ed ente, dove quest’ultimo in quanto evidente manifestazione delle cose, è definibile in una grande varietà di espressioni, mentre il primo, in quanto sostanza delle cose, lo è molto più difficilmente. La domanda sull’essere in Heidegger parte dalla considerazione che l’uomo è l’unico ente in grado di interrogarsi sull’essere e che quindi l’intero sforzo speculativo vada compiuto proprio a partire di quest’ultimo. L’uomo si pone rispetto all’essere non più come una sostanza tra le altre (una goccia in un bicchier d’acqua), ma come un “Da-sein\esser-ci”, vera e propria apertura al mondo che attraverso la cura e l’opera di quest’ultimo trova la propria definizione. E qui viene fuori con tutta la sua forza la concezione soggettivista del grande filosofo tedesco che prosegue nell’opera di ribaltamento della metafisica, iniziata molto tempo prima. L’essere delle cose dipende dunque dall’uso o dalla cura che ne ha l’uomo, essere per altro limitato proprio da questo suo rapportarsi unicamente in dipendenza con il mondo, che in tal modo ne segna l’indelebile finitezza.

Elemento cardine per capire l’azione dell’uomo è quella “temporalità” , intesa come unità estatica di passato, presente e futuro, attraverso i quali l’essere umano definisce il proprio progetto del mondo. L’intendere la temporalità come un succedersi di eventi cristallizzati al presente, rappresenta per Heidegger un cadere verso quella “deiezione” o banalizzazione dell’esistenza umana che, sempre più dimentica della dimensione onnicomprensiva della temporalità, relega l’uomo ad un ruolo sempre più limitato e banale. Unica soluzione per uscire da questa situazione è la coscienza dell’ineludibiltà della morte che, in tal modo spronerebbe l’uomo a vivere un’esistenza più autentica, al di là cioè di chiacchiere ed opinioni precostituite. Ma ben presto Heidegger si rende conto dell’insufficienza del linguaggio metafisico, dominato dal concetto greco (e più esattamente platonico) di presenza, ovvero l’essere come “ousìa” o stabilità viene frettolosamente identificato con l’ente, nascondendo così al mondo la vera essenza delle cose, in un progressivo processo di “nascondimento” che dell’occidente rappresenta il destino. Un processo che trova nella civiltà tecnologica la massima realizzazione di un sistema di pensiero incentrato sull’occultamento dell’essenza della realtà. La seconda fase di Heidegger si apre così all’insegna di una ricerca volta a destrutturare la metafisica ed il suo linguaggio, sia tramite la reinterpretazione dei pensatori presocratici e

di Nietzsche, cioè dell’inizio e della fine del pensiero metafisico, sia tramite la ricerca di un nuovo ruolo del linguaggio, non più visto come sterile strumento informativo. Qui il linguaggio assume la connotazione di ciò che permette l’incontro dell’uomo con il mondo, in quanto modalità del suo rapportarsi con  quest’ultimo. La poesia come espressione di temporalità estatica, l’etimologia come interpretazione rappresentano le più illuminanti esemplificazioni di tale concetto del linguaggio. Ma ben presto Heidegger si rende conto dell’insufficienza di tutte le proprie concezioni, a partire da quella dell’occultamento della realtà delle cose, da parte di quella metafisica, le cui tracce si finiscono per rinvenire anche in quei tentativi volti a differenziare nel corso della storia l’ente dall’essere, con il riportare alla luce la memoria archetipica (qui intesa come ulteriore espressione di metafisica) di quest’ultimo. A questo punto sarà dunque necessario andar oltre il concetto di essere, in favore di uno all’insegna dell’immediatezza e dell’intuito, quale quello rappresentato dalla parola “Ereignis-evento”. La tecnica assume qui una natura bifronte: negatrice della vera essenza delle cose, da un lato, premessa per quel tanto desiderato “eventuarsi”, dall’altro. A questo punto è però necessario effettuare una correzione di tiro: ad esser bifronte non è la tecnica, bensì un pensiero la cui natura si rivela d’improvviso ai nostri occhi

flessibile, mutevole ed in grado di trascinarci verso conclusioni a cui non saremmo mai arrivati, lasciandoci così a bocca aperta. Così è con Heidegger che, rivendicando un’ideale paternità nicciana, credeva di poter demolire la metafisica, senza dover fare i conti con la natura multiforme, dall’infinita variabilità geometrica, a cui molto spesso il pensiero occidentale approda, spogliando le cose del loro senso originario e portandoci a quel nichilismo da Nietzsche ed Heidegger stesso definito alla base dell’ Occidente.

Ma quella stessa natura variabile, contraddittoria e nichilistica offre il volano al sorgere di nuove sintesi di pensiero, in grado di ridare alle cose quel senso precedentemente perduto. Solo allora, e senza cadere in nuovi e ridicoli bigottiosmi del pensiero, si potrà nuovamente rivestire il concetto di metafisica, della valenza di luminosa e razionale proiezione di un ordine superiore, di contro all’idea di grigia ed ottundente cappa ordinamentale di cui era stato sinora rivestito.

…..Ma il fascismo è anarchia

 

​Giusto qualche tempo fa, ho avuto modo di assistere ad un’incontro organizzato presso il circolo l’ ”Universale”, sull’esperienza dell’ Orologio, rivista eretica sorta nei primi anni della calda decade dei Sessanta quando, tra le ansie di cambiamento generazionale e le solite rigide contrapposizioni ideologiche, il cosiddetto “ambiente”, si sarebbe giocato le carte per il futuro. Di quel travagliato momento, l’Orologio fu una delle più interessanti e pregnanti espressioni, proprio perché voce di un ambiente che dagli anni immediati del dopoguerra sino ad allora, aveva avuto una vita non proprio facile, anzi, aveva assunto a vero e proprio serbatoio di marginalità ideologica e sociale. Animata da Luciano Lucci Chiarissi, veterano della RSI, attivista, coinvolto nei FAR, ma comunque scevro da nostalgismi di ripiego, la rivista rimette in discussione i parametri che allora (come oggi, d’altronde!) animavano la composita galassia del neofascismo, in primis un rozzo anticomunismo, troppo spesso accompagnato ad uno smaccato filo americanismo, qua e là macchiato di coloriture “sociali”. La simpatia verso le allora sorgenti espressioni del più vivace antimperialismo, dai combattenti Viet Cong ai Palestinesi, l’appoggio alla contestazione studentesca, l’idea di un’ “altra” economia, fanno di questo vivace laboratorio politico, un vero e proprio “unicum” che finirà con l’ispirare esperienze come FS, Lotta di Popolo, Lotta Studentesca, Terza Posizione ed altri ancora ed i cui precedenti si possono forse ravvisare nella Jeune Europe/Giovane Europa di Jean Thiriart, anch’essa dei primi Sessanta. A Lucci Chiarissi va inoltre riconosciuto il merito di essere per primo voluto andare oltre ed al di là del neofascismo e delle sue parole d’ordine, al di là di quelle stesse fascinazioni evoliane, da cui non si lasciò mai coinvolgere. La validità dell’esperienza dell’Orologio è indiscutibile ma, fatti i dovuti conti, siamo tutti sicuri di saper interpretare queste esperienze alla luce di quello che noi siamo?Ovvero, ci siamo mai posti la questione sul reale senso e significato della nostra avventura umana, politica e ideale alla quale in qualche modo ci sentiamo tutti avviluppati? Domanda sterile, si dirà, eterei vagheggiamenti di qualche malriuscito filosofastro in cerca di ascolto, ma a vedere i fatti d’oggi, l’assottigliarsi di qualunque espressione politica antagonista, vien fatto di porsi questa domanda con urgenza e senza ulteriori indugi. Il problema è determinato da una linea di demarcazione storica che sembra inequivocabilmente separare le esperienze d’anteguerra, da quelle del dopoguerra. In Europa le esperienze totalitarie ante ‘45 (fascismo e marxismo-leninismo) sorgono animate da uno spirito di positivo “costruttivismo “ determinato dal clima di novità da queste ultime rappresentato. I Totalitarismi in qualche modo edificano, creano, costruiscono dei reali modelli di sviluppo alternativi ad un liberalismo vetusto e messo in crisi dalla ventata di irrazionale vitalismo che, a partire dalla fine della Grande Guerra, sembrava aver trovato in queste nuove rappresentazioni dell’agire politico la propria compiuta realizzazione. Con la fine dell’ultimo conflitto mondiale, in Europa Occidentale e negli USA sembra affermarsi in via definitiva uno status quo imperniato sull’inscindibile e consolidata sintesi tra   liberal-democrazia e sviluppo tecno economico, con quest’ultimo sempre più riconfermato al proprio ruolo di assoluta supremazia, di contro ad una politica ridotta a ruolo di notarile comprimaria nell’assecondarne le sempre più incalzanti istanze. Il neonato ordine occidentale non può più contemplare l’insediarsi al proprio interno di realtà antagoniste, e questo proprio grazie al fatto che quella tra Tecno Economia e modello demo-liberale è una sintesi in grado di auto contraddire continuamente i propri assunti, salvo poi ripresentarli perfettamente riadattati e coniugati ai nuovi scenari che lì lì vanno presentandosi. L’onnipervadente modello occidentale, avvolge in sé rendendo superflua ed antiquata qualunque narrazione ideologica tendente all’assolutizzazione, quale quella rappresentata dalle grandi esperienze totalitarie del 20° secolo, quali marxismo e fascismo, proprio grazie al proprio intrinseco relativismo. In un simile quadro, l’insorgere di realtà antagoniste nel contesto occidentale, non potrà più essere caratterizzata da una positiva spinta progettuale, bensì dal più completo nichilismo. E qui bisogna un momento chiarire quale valenza dare al termine “nichilismo”. Usato ed abusato sino alla noia, “nichilismo” è, in realtà, un termine che, oltre a possedere una serie di valenze e significati facilmente intercambiabili, è anzitutto portatore di uno stato d’animo che alligna da tempo immemorabile nelle compagini della storia del pensiero occidentale, facendo qua e là la propria comparsa. Nichilismo può essere inteso come l’avvento di quel regno dell’apparenza che, frutto di una forzosa interpretazione del platonismo, ne capovolge gli iniziali “desiderata”, facendo di quell’ “idea”, frutto di “idèin/vedere”, la causa prima della graduale obnubilazione e perdita del senso intrinseco delle cose che, via via, porterà quella occidentale ad essere la civiltà dell’Ente, dell’apparenza, di quel “nulla”, che qui il termine nichilismo porta in sé. Ma nichilismo è anche quella spinta alla perenne contraddizione, alla distruzione fine a sé stessa, a quella universale disarticolazione delle coordinate del pensiero occidentale, sulle ceneri del quale edificare un nuovo modello, fondato magari sull’ideale di un’universale “felicità”, sull’avvento di quel regno dell’Utopia che tanto ricorda il mare magnum del Caos primordiale, quello stato di indistinta felicità in cui disperdere la propria individualità e che, generalmente viene posto anche dalle dottrine tradizionali all’inizio di qualsiasi teodicea o narrazione cosmica che dir si voglia. Ed infine una terza variante, che vede nella contraddizione , nella continua e dilacerante tensione al superamento di se stessi e della realtà, in un continuo sforzo di adattamento e riaggiustamento di quest’ultima ai propri opportunistici fini, la base ed il principio primo dell’umano agire. E’ il nichilismo di matrice nietzschiana che punta attraverso un lavoro di disarticolazione e distruzione della metafisica a creare un nuovo tipo umano, ricadendo al contempo nell’errore iniziale della metafisica, quale quello rappresentato dalla creazione di un ulteriore modello (qui rappresentato dal nicciano “ubermensch/oltreuomo”), ma conferendo, comunque, una nuova direzione al pensiero occidentale. Da una parte le aspirazioni neotestamentarie a realizzare la “Gerusalemme celeste”, il regno della felicità su questa terra, con tutto il suo corollario di contributi dai messianisti millenaristi del13°e del 14° secolo, dai Thomas Muntzer passando via via per Tommaso Moro, sino ad arrivare a Saint Simon, Fourier, Marx, Engels ed oltre. Dall’altra la coscienza della contradditorietà della realtà e quindi la possibilità di volgerla ai propri fini, partendo in questo dalle prime e contraddittorie riflessioni di Eraclito e Platone sulla natura dell’Essere, passando alla sofistica dei Gorgia e dei Protagora, attraverso i nominalisti medioevali quali Roscellino o Guglielmo da Occam, sino ad arrivare a Machiavelli, Rousseau, sino al vitalismo scientifico-filosofico dei Barthez, dei Driesch, dei Von Uexkhull, dei Bergson, ma anche alla elaborazioni dei vari Schopenauer, Stirner e Nietzsche, passando attraverso il pensiero politico dei Proudhon e dei Bakhunin . Due sensibilità, due risposte, due vie ambedue vicine, ma radicalmente incompatibili. L’Occidente spinge se stesso alla contraddizione e quindi alla propria autodistruzione, rendendo in tal modo più chiara e leggibile la vicenda degli antagonismi ideologici della seconda metà del secolo passato, gettati sul proscenio della storia da quel Nichilismo che come un impetuoso fiume sotterraneo, percorre l’intera storia dell’Occidente. A sinistra non meno che a destra, ci si farà portatori di modelli che si riveleranno in tale contraddizione con la realtà socio politica di riferimento, da poter essere realizzati solamente attraverso la totale disarticolazione e distruzione del presente. E così un Evola non potrà non essere visto meno nichilista di un Marcuse, e chi, in buona fede, penserà di costituire un Nuovo Ordine in Europa, non sarà meno utopista di chi penserà di instaurarvi la dittatura del proletariato. Pensare oggi, di riuscire a proporre o ad edificare qualcosa sulle basi delle istanze antagoniste Sinistra/Destra o Marxismo/Fascismo e via dicendo, è totalmente illusorio. Gli spunti forniti da Lucci Chiarissi hanno dalla loro la giusta pretesa di voler guardare il mondo, con un’ottica nuova rispetto ad una realtà avvelenata dall’unilateralità ideologica, ma non tengono conto della vicenda epocale dell’Occidente da cui sono avulse, perché impregnate di un sano ottimismo. E comunque, qualunque sia l’opzione che si intende prendere in considerazione, bisogna partire dalla basale considerazione che la frattura ideologica Destra/Sinistra venutasi a creare all’indomani della Rivoluzione Francese e sviluppatasi attraverso percorsi di pensiero non sempre lineari, (quali quelli per esempio, legati ai successivi sviluppi dell’hegelismo nelle sue varianti di destra e di sinistra), vada invece risolta e superata in favore di una complementarietà insita alla realtà delle cose stesse e, per ciò stesso, arrivare all’edificazione di un movimento antagonista totale, un fronte antagonista unico, collocato oltre gli antichi schemi ideologici. Idea vecchia, si dirà, ma oggi più che mai d’attualità, vista la sempre maggiore necessità di unificare forze ed anime differenti di fronte all’irrefrenabile avanzata del Globalismo, questo sì uniforme e compatto.  Una simile idea cozza però con il generale clima di paralisi che sembra abbia colto le forze antagoniste in Occidente, malate tra l’altro di un attaccamento a stereotipi , quali quello antifascista (per dirne uno tra i tanti, sic!), con la sola e rimarchevole eccezione di alcuni paesi dell’Est europeo, connaturati da forti spinte nazionalistiche. A questo punto, l’unica via percorribile rimane quella legata alla riscoperta delle antiche radici nichiliste, mai morte e mai totalmente obliate che, ora più che mai, dovrebbero riportare l’antagonismo a rappresentare un momento di rottura con le logiche omologanti e normalizzatrici in atto. Individualismo, spontaneità, ribellione, rappresentano le coordinate da cui partire per innescare un processo di disarticolazione dell’intero sistema capitalistico. Al diavolo dunque gerarchie, ordini e tradizioni, se non come strumenti interiori utili a riorganizzare le identità all’insegna di quella complessità culturale, attraverso cui rispondere colpo su colpo alle sollecitazioni del globalismo. La riconversione nell’economia delle micro imprese, a dispetto delle concentrazioni oligopolistiche, la fine dell’economia finanziaria sostituita da quella dei beni reali, un modello di graduale decrescita, la disarticolazione dello stato in comunità autosufficienti, micro o macro regionali che dir si voglia, le già percorse orme dei Proudhon, dei Communitarians americani, o dei teorici alla Charles Nozick (per citarne solo alcuni) potrebbero essere un inizio ma non sono sufficienti, se non corroborati  dalla coscienza della radicalità di un conflitto che, non limitato al solo e stanco riproporre modelli o metafisiche più o meno intercambiabili, non può conoscere alcuna soluzione se non quella rappresentata dalla volontà primaria di annichilire, eliminare in modo definitivo l’economicismo ed il suo più avvelenato frutto, il capitalismo. Ecco, qui  Nichilismo e Anarchia dovrebbero ritrovare il proprio senso d’essere in una volontà titanica di azzeramento dell’intero Occidente, muovendo da quella irrazionale volontà di vita, da quel “disagio della civiltà” che da tempo immemorabile cova nell’anima dell’uomo occidentale, al di là di ideologie, schemi preconcetti o metafisiche che dir si voglia, senza scappatoie, né “alternative” di sorta.

Attualità del pensiero di Gentile.

Cade quest’anno il sessantesimo anniversario della morte di Giovanni Gentile, rappresentante di punta del neoidealismo italiano, nonché ministro ideatore di quella riforma scolastica (quella Gentile, per l’appunto), guarda un po’ sfasciata proprio da coloro che a parole strizzano l’occhio a certi periodi del passato ma poi, nei fatti, non esitano a sfasciarne le realizzazioni più intelligenti, per scopiazzare gli asineschi modelli educazionali d’Oltreoceano ( Moratti docet…). Giovanni Gentile fu vigliaccamente assassinato sotto casa, da un “commando” di “eroici liberatori” che, nel far ciò, aveva voluto applicare alla lettera quanto dal magnifico Togliatti proclamato a proposito del grande pensatore, più volte indicato come fascista e “traditore della nazione”. Ma perché tanto odio? Giovanni Gentile aveva chiaramente mostrato come il pensiero idealistico ben poteva essere attagliato al Fascismo, alla faccia di chi cercava, tramite una lettura distorta dai paraocchi dell’ideologia marxista, di attribuire a quest’ultimo una pura e semplice valenza reazionaria, agli ordini  dei padroni di turno. Ma qual è l’esatta connotazione del pensiero gentiliano, e quali sono i suoi collegamenti con le altre correnti di pensiero che, in qualche modo, troveranno il proprio riferimento e punto di partenza nell’esperienza fascista? Va detto, anzitutto, che Gentile si colloca a buon diritto, in quel filone di pensiero che vede nella dimensione metafisica, al pari della trascendenza, un simbolo di quella “episteme” \ “conoscenza” di cui va eliminata ogni parvenza dalla vita dell’uomo, poiché in contrasto con il perenne ed incontrollabile flusso del Divenire. Questo impostazione trova una sua prima codificazione negli scritti di G.W.Hegel, il quale nel suo “idealismo” afferma la coincidenza tra dimensione trascendente e dimensione immanente, tra Dio e Uomo, ed in particolare tra Pensiero e Realtà. Il Pensiero viene da Hegel elevato a dimensione assoluta il cui “autoprodursi” determina la realtà stessa, che in tal modo viene inquadrata ed interpretata in varie “categorie”. Alla base della creazione dei vari concetti o idee, usate per determinare la realtà sta un processo esemplificato dai tre momenti di Tesi, Antitesi e Sintesi. Se l’intenzione primaria di Hegel era quella di creare un sistema di pensiero connotato dalla presenza immanente di un Pensiero elevato a criterio trascendente, in grado di reggere all’incessante spinta del Divenire, i suoi allievi, a partire da Fuerbach e Marx, trasferiranno il Pensiero

da un piano trascendente ad uno decisamente immanente e coincidente con la Storia dell’uomo e dei suoi bisogni. Il pensiero gentiliano si inserisce in quella corrente detta “neoidealista” che, a partire da Bradley, toglierà qualsiasi dualismo al pensiero hegeliano, trasferendone il campo di riflessione su quell’immanente che non verrà interpretato nè in chiave esclusivamente economicistica ( come da Fuerbach, ma specialmente da Marx ed Hengels compiuto, intepretando la storia come lotta tra classi) nè in quella chiave esclusivamente scientifica sviluppata dal Positivismo, bensì in una vera e propria accezione ontologica, ovverosia di sistema di pensiero compiuto, dalla valenza superiore a qualunque altra categoria. In questo il neoidealismo italiano rappresentato da Croce e Gentile si contrappone a tutto l’idealismo tedesco, poiché vede riproporsi al suo interno quel dualismo tra Pensiero ed Essere, Spirito e Materia, retaggio di un sistema metafisico di cui, nell’intenzione dei due (di Gentile in particolare) va cancellata qualsiasi parvenza. Per il neoidealismo, la Realtà coincide con la coscienza “attuale”, che pensa la realtà ed include il tempo. In tal modo la coscienza viene identificata con il Divenire, dando così un nuovo senso alla Storia ( ed all’uomo!). Per Gentile la realtà coincide con la coscienza, con lo spirito, il quale a sua volta coincide con la Storia, la quale diviene così autoproduzione della realtà, ovvero individuazione dello spirito, non più confinato in un’astratta universalità. Alla base di tutto vi è un concetto di Io trascendentale, nel ruolo di Pensiero assoluto in cui è contenuto “in atto” di tutto ciò che noi ancora non abbiamo pensato. Coincidendo ed interagendo tale Pensiero con la nostra individualità, tramite il principio di “attualità” esso è intrascendibile, troncando così qualsiasi tentativo di riproposizione metafisica.

In tal modo la stessa idea di eternità coincidente con il Pensiero Trascendentale, non trascenderà il tempo poiché essa stessa coscienza del tempo. Arte e religione frutto di un’ingenua soggettività, in lui trovano il contemperamento nella filosofia, che fa riferimento al Pensiero Trascendentale. In politica Gentile applica gli stessi principi. Qui il ruolo di contemperamento e collegamento al Pensiero Trascendente è rappresentato dallo Stato, la cui funzione etica è primaria. In lui conoscenza e volontà coincidono alla perfezione, quindi il pensiero si fa attività perpetua, la conoscenza si traduce in prassi, la filosofia in vita e viceversa, dando ad ogni azione umana ( lavoro incluso) un senso profondo, mistico, alla base di quella “mistica dell’azione” che contraddistinguerà il pensiero fascista. Sin qui abbiamo fatto una rapida carrellata sul pensiero neoidealistico che, del Fascismo, ha sicuramente rappresentato uno degli aspetti più trainanti, grazie alla mistica dell’azione ed al concetto di stato etico, di cui si fa portatore. Ma il neoidealismo non è l’unica componente filosofica ad aver attraversato e caratterizzato il clima culturale da cui è scaturita l’esperienza fascista ed in genere tutte quelle realtà caratterizzate da quell’ “eterodossia” di pensiero, caratteristica di chi, con la propria riflessione filosofica, ha contribuito alla creazione di percorsi umani, politici, esistenziali, non allineati agli stilemi del pensiero dominante.

Queste componenti sono spesso colte in un’ottica di superficie, limitata ad alcuni aspetti, di cui si finisce troppo spesso con l’ignorare l’importanza e la portata, rapportati ad un più ampio contesto. Come abbiamo detto, il neoidealismo è frutto di quella tendenza volta a delegittimare qualsiasi dimensione metafisica della realtà e della conoscenza, una tendenza questa che all’interno del pensiero occidentale, a partire dal 19° secolo, non troverà una risposta univoca, anzi. All’idealismo hegeliano  (che si scinderà in hegelismo di “destra” e  di “sinistra”) si contrapporranno le “filosofie della vita”, il cui primo rappresentante è A.Schopenauer.

Caratterizzato dal mantenere ferma la distinzione kantiana tra fenomeno e “cosa in sé”, finisce con l’attribuire a quest’ultima un carattere che lo porta ben lontano dalla riflessione kantiana. La “cosa in sé” si traduce in Schopenauer in quella Volontà che anima tutti i fenomeni e le determinazioni dell’Essere, uomo incluso, che sulla Volontà non ha alcun potere. La Volontà si traduce quindi in una continua sofferenza da cui ci si può distaccare solamente tramite l’autonegazione del volere ripercorrendo, in questo, quanto prescritto dalle Upanishad (le scritture sacre degli Indù), tramite il distaccarsi dalle cose del mondo, ferma restando una concezione filosofica e non religiosa della realtà. La Volontà è quindi la rappresentazione di un incalzante Divenire a cui Schopenauer cerca di trovare un rimedio. Sebbene inserita nello stesso filone “vitalista”, la riflessione di F. Nietzsche si contrappone a quella di Schopenauer in quanto rifiuta qualsiasi rimedio al dolore causato dal Divenire, rimarcando anzi il concetto che i rimedi cercati dall’uomo durante i secoli sono stati peggiori del male che si voleva curare. Per Nietzsche qualunque rimedio frapposto tra l’uomo ed il Divenire, a partire dalla religione, alla morale, alle scienze è un’illusione creata per rendere più sopportabile il dolore dell’esistenza. Vero Superuomo è colui che sa portare sulle proprie spalle, con gioia tutti gli aspetti, anche i più tremendi, dell’esistenza, portando ad esempio l’esperienza della Grecia pre-socratica, in cui tramite la tragedia veniva sottolineata l’accettazione totale del Divenire. Per Nietzsche concetti, idee, morale, religione, sono frutto degli istinti di dominio connaturati all’essere umano. La stessa realtà non si presenta con un carattere univoco, bensì come un testo misterioso, soggetto di una miriade di interpretazioni, tutte egualmente mosse da una volontà di potenza e sopraffazione. L’essere umano quindi si muove in base a quella “volontà di potenza” che, ben lontana dalla passiva accettazione del Divenire, si traduce nell’interpretazione di quest’ultimo, mirando ad immedesimarsi al massimo grado nel continuo flusso di eventi da questo generato. Tale interpretazione si manifesta nella dottrina dell’Eterno Ritorno, espressione della volontà del superuomo che tutto ritorni e si ripresenti come la prima volta. “Imprimere al Divenire il carattere dell’Essere-è questa la suprema volontà di potenza. Che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione.” Alla base dell’Eterno Ritorno, vi è la volontà di distruzione di tutto ciò che è immutabile. La considerazione che il Divenire non deve quindi essere ingabbiato in forme e strutture innaturali che facilitano l’ “errore utile”, è comune anche al posteriore pensiero di H. Bergson, che vede la realtà come un continuo fluire di cui l’uomo cerca di cogliere quà e là qualche aspetto “fissando delle prospettive stabili sull’instabilità”. In alternativa all’immobilismo del sapere Bergson propone l’intuizione con cui si arriva ad abbracciare la realtà stessa. L’intuizione si fa così organo di una metafisica rovesciata, in cui, anziché passare dall’instabilità del Divenire alla stabilità dell’Immutabile, si passa dalla stabilità dell’Immutabile (espresso dal tentativo umano di fissare punti fermi al flusso degli eventi) allo scorrere del Divenire stesso, lo slancio creativo del quale tende ad arrestarsi, ricadendo su sé stessi e creando la materia, animata da uno slancio ed un entusiasmo universali, che dovranno quindi caratterizzare la vita dello stesso uomo. Bergson vede Dio nello stesso Divenire, dando a quest’ultimo un carattere consolatorio inesistente in Nietzsche, sempre però animato ad una concezione del tutto casuale e non finalistica di quest’ultimo (tornando in tal modo a riavvicinarsi a Nietzsche). Il casualismo, come d’altronde l’intera impostazione di pensiero nicciana che delle “filosofie della vita” rappresenta la pietra miliare, il salto di qualità, avrà i propri riverberi sul pensiero del Novecento andandosi ad innervare nelle riflessioni di M. Heidegger, allievo di Husserl ma fedele esegeta di Nietzsche. In Heidegger è ancor più radicalmente espresso il rifiuto di qualunque metafisica o tentativo di dare un senso metafisico o “nascosto” al concetto di Essere. L’Essere è per lui la luce, il manifestarsi (anche visivamente) dell’Ente, ovverosia di “ciò che è”. Perché l’uomo possa quindi vivere autenticamente è necessario che  porti la propria esistenza al di fuori di ciò che entro e fuori di se stesso è già dato, per scegliere in direzione di qualsiasi possibilità. L’esistenza dell’uomo è qui concepita come trasformazione e divenire storico. La “storicità” dell’esistenza umana è possibile solo se essa è comprensione dell’Essere, che rappresenta l’orizzonte che apre lo spazio a qualsiasi sviluppo storico. Heidegger ritorna con forza sulla questione dell’Essere, sulla falsariga di quanto affermato da Nietzsche, affermando che, ogni qualvolta questo si eclissa, l’umanità entra in un’era di crisi ed oscurità, rappresentata dal dominio della metafisica, un processo questo verificantesi a partire dalla grecità. L’attuale età è caratterizzata dalla tecnica, metafisica per eccellenza, occultatrice dell’uomo e dell’Essere. Ma Heidegger, sempre sulle orme di Nietzsche, comincia ad interrogarsi sul “senso” del linguaggio connesso alla vicenda del verbo Essere che caratterizza lo sviluppo dell’intero Occidente.

Non solo. Nel suo radicalismo anti-metafisico Heidegger ci prospetterà il superamento dello stesso Essere e del suo continuo eclissarsi, in nome di quell’ “ereigniss-evento” che, nel ruolo di “ciò che si eventua”, dovrà prendere il posto di quello stesso Essere, supportato in questo dal nuovo ruolo della Tecnica, assurta ad ulteriore veicolo di accettazione dello svolgersi dell’esistenza. L’influenza delle “filosofie della vita” e di Nietzsche in particolare, si fanno sentire anche nella filosofia francese dagli anni Sessanta in poi. In G. Deleuze il concetto di Eterno Ritorno fa da base per la rivalutazione del concetto di “ripetizione” in opposizione a quello di “originario”, frutto di una concezione metafisica che premia l’originarietà rispetto alla ripetizione. A dimostrazione di quanto affermato Deleuze parte dalla psicanalisi con la vicenda edipica, nel libro “L’Anti Edipo”. Il tema nicciano del mondo, inteso come un immenso e confuso testo, dà lo spunto alle riflessioni di M. Foucault sulle connessioni tra il linguaggio e le cose. Dal rapido percorso sin qui tracciato ci troviamo di fronte ad un pensiero “eterodosso” da una parte animato e percorso da quelle che possiamo definire le “filosofie della vita”, da Schopenauer a Nietzsche a Bergson, le cui tematiche verranno mutuate da vari pensatori del Novecento come Ortega Y Gasset, Heidegger, Foucault e molti altri ancora. Parallelamente a queste, abbiamo il filone neoidealista, in posizione di superamento ed opposizione sia nei riguardo dell’hegelismo classico che (cosa più importante) di quello “di sinistra”. Tale scuola annovera teorici che vanno da Bradley a Gentile, influenzando le riflessioni della corrente storicista dei vari Dilthey, Simmel e Spengler. Anche se caratterizzate da notevoli differenze, ambedue le correnti sono caratterizzate da un forte rifiuto della metafisica e da un forte senso del Divenire che si manifesta in una concezione “storicista” dell’intero svolgersi della vicenda umana. All’opposto di quanto sinora illustrato sembrerebbe porsi quel pensiero “tradizionale” che, in un R. De Lamennais, in un A. De Bonald, in un J. De Maistre, sino al più recente J.Evola, ha i suoi principali cantori. Un pensiero caratterizzato dalla preminenza di quel punto di riferimento archetipico, sottolineato dal termine Tradizione e che, per ciò stesso, si colloca in una valenza opposta e contraria a chi, del punto di riferimento metafisico, fa un idolo da abbattere. A questo punto, sorge inevitabile l’interrogativo sulla conciliabilità, all’interno di uno stesso contesto ideale, di correnti di pensiero marcate da così profonde differenze. La risposta a questo problema ci viene data da due piani di valutazione differenti. Il primo si fonda sulla natura del pensiero filosofico stesso, che nasce in Occidente come volontà di conoscenza e dominio sull’intero Essere. Un pensiero il cui primario mezzo di espressione è rappresentato dalla scrittura che, in tal modo, fa sì che la realtà ci si presenti come un immenso testo la cui lettura è tutt’altro che univoca, anzi. Essa si presta a quel criterio di decifrazione e di esegesi che nel lavoro dell’interpretazione trova il proprio momento fondamentale. Essa si fa dunque espressione di quella “volontà di potenza” che anima alla radice il pensiero filosofico. Di conseguenza uno stesso testo può prestarsi a più interpretazioni utilizzabili al fine della vittoria dell’una o dell’altra causa. La “mistica dell’azione” che caratterizza le concezioni vitaliste in genere, quella spinta dell’uomo ad immedesimarsi con il flusso del Divenire, finisce con il tradursi in un’atteggiamento eroico, che si riconnette con lo spirito eroico che anima “in primis” l’esistenza dell’uomo tradizionale. L’Eterno Ritorno nicciano, finisce con il rivalutare una concezione ciclica dell’ordine cosmico propria delle dottrine tradizionali. La stessa idea di superuomo, come colui che sa sopportare con spirito lieve il flusso delle cose, ci rinvia giuocoforza all’idea di una manciata di spiriti eletti, in veste di una vera e propria “elite” dello spirito. La seconda valutazione riguarda il contesto epocale delle singole elaborazioni filosofiche. A tal proposito va detto che quelle pulsioni alla base delle correnti vitaliste ed idealiste,  hanno rappresentato la risposta “eterodossa” alle spinte della Modernità che, al tempo in cui venivano elaborate, andavano manifestandosi, trovando in seguito un parziale contemperamento nello spirito della società tecno-economica, tutta all’insegna della più totale e continua innovazione senza posa. Di fronte ad una società che, del divenire materiale ha fatto il proprio asse portante, è chiaro che la ricerca di punti fermi, di un Essere, portata avanti da un pensiero tradizionale, va coniugandosi con quelle istanze di eroica accettazione del perenne flusso del Divenire che idealismo e vitalismo hanno sempre proclamato. Ecco dunque che all’insegna di un pensiero differenziato, “eterodosso”, due lati apparentemente inconciliabili, finiscono con il saldarsi per dar luogo ad una testuggine dal guscio dalle molteplici sfaccettature, ma dall’unica anima. Ecco, perché oggi più che mai, non dimenticare la coerenza ideale sino all’estremo sacrificio di Giovanni Gentile, filosofo, ministro, ma anche militante di un’idea senza tempo, non è solo un passeggero fatto di moda, ma un preciso dovere per ognuno di noi.

Il problema della Techne

 

E’ da un po’ di tempo a questa parte che nel dibattito filosofico ha fatto ingresso di prepotenza il termine “techne” (dal greco antico-“tecnica”), trovando un uso disinvolto da parte di molti pensatori attuali come Severino, Cacciari, Galimberti ed altri ancora che ne hanno fatto l’elemento portante dell’intera condizione umana, finendo però con il sopravvalutarne il ruolo, il tutto a detrimento di altri non meno importanti aspetti. E’ un po’ quanto accade con U. Galimberti ed il suo “Psiche e Techne-l’uomo nell’età della tecnica”. Ma cerchiamo un momento di focalizzare meglio la questione. Mutuando l’antica narrazione mitica greca, Eschilo ne “Il Prometeo incatenato” ci narra del prezioso dono fatto dal Titano ribelle ad una razza umana interamente soggiogata al capriccio degli Dei. La possibilità di realizzare un’infinità di scopi o “Techne” è ciò che emancipa la razza umana e segna il passaggio da una fase puramente passiva, totalmente in-cosciente, ad una totalmente attiva e cosciente; dal subire incondizionatamente la realtà esterna, introiettandone gli stimoli, ad un modificare a proprio uso e consumo quella stessa realtà, arrivando ad interagire con quest’ultima, pervenendo così allo stadio della coscienza, vera e propria espressione di un sapere volontaristico, attivo, in grado di agire disgiunto da qualsiasi realtà esterna. L’uomo esce quindi da uno stato di totale indifferenziazione, a cui il divino sottomette con violenza l’intera realtà, per pervenire ad un vero e proprio mutamento antropologico che nella “Techne” trova quella potenza in grado di piegare il tempo ai voleri dell’uomo, raccordando la memoria degli eventi del passato ad un futuro funzionale ai propri interessi. Ma il Galimberti non si ferma qui. Nel suo studio fa propria la vecchia analisi di quanti, antropologi, filosofi e neurofisiologi, hanno sostenuto la debolezza della specie umana dinnanzi al regno animale causata dalla totale “genericità” della natura istintuale umana rispetto a quella animale, perfettamente adattata ad un determinato ambiente naturale accanto al quale vive ed agisce in osmosi e sinergia, rispondendo agli stimoli di questo con un predeterminato e definito codice istintuale. Nell’uomo tutto questo non esiste: creatura debole e prematura, per non essere schiacciato da un ambiente esterno i cui molteplici stimoli potrebbero confondere i sensi, è costretto ad affermarsi come dominatore. La linea assoluta di discrimine tra uomo ed animale non è, come a qualcuno verrebbe da pensare, la coscienza o l’anima, bensì il corpo e la sua motricità. Quella particolare motricità che, espressa dalla statura eretta e dall’uso della mano, è il veicolo per eccellenza della “Techne” e fa sì che l’uomo sia azione pura, volta ad un dominio totale sul creato, modificandone i vari aspetti a proprio uso e consumo, marcando in modo irrevocabile la propria differenza con il regno animale, unicamente animato da una ferina ed automatica istintualità. La coscienza in tale contesto, non è ciò che muove l’uomo, bensì il risultato del suo muoversi ed agire sul mondo. Da questa considerazione derivano tutta una serie di conseguenze. Prima fra tutte, la riflessione, ora non più considerata momento fondante dell’intero agire umano, bensì momento di “scarto” tra la recezione di nuovi stimoli e l’azione. Il dualismo tra anima e corpo, al pari dell’intera prospettiva delle scienze viene totalmente capovolta a favore di un’ottica “corporeista”. L’uomo aprendosi al mondo, raccoglie e riordina quegli stimoli che a lui sono più confacenti a costruire un mondo artificiale, fatto a sua immagine e somiglianza. La cultura dunque, lungi dal rappresentare il principale risvolto e sovrastruttura del mondo interiore, è parte integrante e complementare dell’agire umano, di cui anzi rappresenta la concreta realizzazione in questo mondo. L’irresolubilità del dualismo anima-corpo blocca qualsiasi sviluppo delle scienze umane a partire da Cartesio e dalla sua scissione dell’intera realtà umana in “res cogitans” e “res extensa”. La tanto deplorata alienazione dell’anima umana che trova in Marx e Freud i concordi apologeti di una armonica ricomposizione, viene qui esaltata ed elevata al rango di fattore primario nello sviluppo dell’uomo. Tutte le manifestazioni attinenti all’interiorità umana vengono viste unicamente come il risultato della maggiore o minore inibizione dell’uomo di fronte agli stimoli esterni. A partire dall’analisi della morale, passando attraverso il rito religioso, sino ad arrivare al linguaggio ed all’immaginazione, tutto viene passato sotto la lente di un continuo giuoco meccanico tra recezione-scarto-inibizione di stimoli, estrapolati, riorganizzati e contestualizzati un’ottica confacente alla sopravvivenza ed al dominio dell’uomo. L’idea stessa di evoluzione è qui considerata insufficiente, a causa della peculiare condizione di “dominatore carente” di cui l’uomo è portatore, e che lo pone in una totale estraneità rispetto rispetto all’intero mondo animale. Se per Platone ed il suo conclamato dualismo, viene qui profferita un’inesorabile condanna, per Aristotele arriva invece una frettolosa investitura “ad hoc”. Fichte, Schopenauer e Nietzsche, sono invece fatti oggetto di lode, purchè si mantenga ben chiaro il concetto della fonte meccanica, utilitaristica, di qualsiasi tipo di azione umana e così via, per il resto dell’intero sapere umano. L’analisi del Galimberti è, però, inficiata però da un grave vizio di fondo: quello cioè di elevare il mezzo a fine e viceversa, ricadendo in tal modo in quella spirale confusionaria oggi all’origine di tanti mali del nostro mondo. Degna di nota, è sicuramente la definizione dei meccanismi di interazione tra stimoli esterni e psiche, che non può esser però elevata a generale criterio di interpretazione dell’intera realtà. Il tanto condannato meccanicismo evoluzionista ottocentesco, viene qui riproposto in una versione pragmatica, utilitarista che poco o nulla lascia alle più profonde istanze dell’uomo (tra cui la volontà di potenza!), al massimo viste come “residuo” dell’azione meccanica. La distinzione netta ed intransigente tra uomo ad animale ci riporta ad un oramai datato antropocentrismo, che non tiene conto della plurimillenaria sedimentazione di cui è costituito il complesso prisma dell’animo umano e che affonda le proprie radici in un complesso contesto filogenetico che ha come teatro l’evoluzione ed il succedersi delle specie. Nell’elevare la “Techne” a fine ultimo della razza umana, se ne svilisce invece il contenuto di meraviglioso strumento, la cui possibilità di realizzare un’infinità di scopi è stata invece degradata ad un ruolo di totale asservimento all’economia, oggidì assurta a ruolo di incontrastato dominio sul genere umano. Ben lungi da un agire meccanico ed istintuale l’uomo, essere dotato di coscienza e responsabilità proprio a causa di quella sua capacità di incidere volontariamente sulla realtà esterna, è invece chiamato a rispondere delle proprie azioni di fonte ai propri simili ed all’intero creato.

Dal Moderno al Post Moderno. Problematiche.

Qualcuno, una volta, faceva notare “Dio è morto”, intendendosi con tale concetto, l’ assoluta mancanza di valori superiori nella moderna società occidentale. Parimenti noi dovremmo dire “La modernità è morta”; intendendo con tale espressione, la fine di una serie di spinte propulsive che, dalla fine del 19° secolo in poi, hanno rimodellato il mondo, portandolo ad essere così come oggi ci appare. Ma per capire meglio perché la modernità è morta, e quali sono le problematiche a tale evento connesse, bisogna cercare di

reinterpretare la stessa modernità, tenendo conto di tutti i suoi aspetti.

Anzitutto, la modernità è la figlia di uno stato di cose che, venutosi a determinare dal 18° secolo in poi, porterà l’Occidente ad uno sviluppo industriale animato da un ritmo impetuoso, senza precedenti nell’ultimo millennio. A concorrere a tale sviluppo, saranno le scoperte scientifiche messe al servizio totale dei ceti mercantili di mezz’Europa; i pensatori proto liberali da una parte ( Locke, Berkeley, Hume, etc.), la religiosità calvinista dall’altra forniranno una valida impalcatura ideologica a questo stato di cose.

Il 18°secolo, con la Rivoluzione Americana e quella Francese, assisterà alla consacrazione di quanto sopra detto, in quanto rappresenteranno la vittoria degli interessi mercantilistici sopra quelli politici propriamente detti. Scuole come quella fisiocratica e pensatori come Voltaire o Rousseau, contribuiranno ad imprimere quell’impronta liberale, che caratterizzerà lo sviluppo della società occidentale a venire. La modernità nasce come coscienza dell’ineluttabilità di un processo di sviluppo, quello industriale, accompagnato da un continuo rinnovarsi delle tecnologie, non ostante tale fenomeno crei anche dei momenti di accentuata conflittualità sociale, come quello dei moti del 1848. Si arriva, così al periodo a cavallo tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo; un periodo travagliato dalla crisi dello stesso Positivismo e delle sue certezze, ma, al contempo, dalla sempre più netta presa di coscienza di tale modernità, accentuata dall’impressionante crescita industriale di quel periodo. Facciamo attenzione, però, la coscienza della Modernità non sarà né uguale, né uniforme in tutti i paesi occidentali.In Gran Bretagna e, generalmente, in tutti i paesi a cultura calvinista o a vocazione Mercantilista, la crescita di tale coscienza sarà graduale, perché accompagnata dalla creazione, secoli addietro, di strutture politiche idonee a

fare della Modernità lo strumento principe dello sviluppo del mercantilismo.

Questo non avverrà in contesti come quello italiano o quello russo, protagonisti di primo piano di quel balzo traumatico verso la Modernità che furono la Rivoluzione Bolscevica del ’18 e la Rivoluzione Fascista del ’22, seguite dall’avvento in Germania del Nazionalsocialismo. Non per niente, l’Italia sarà al centro di correnti culturali come il Futurismo, volte ad esaltare, della Modernità, i lati più creativi. Questo, perché paesi come l’Italia o la Russia, o la stessa Germania, rientrano in un’area geopolitica il cui sviluppo è stato superficialmente toccato dalle istanze Illuministe. A dimostrazione di ciò, lo sviluppo recente delle coscienze nazionali di Italia e Germania, frenata dalla Mitteleuropa Asburgica, potenza imperiale a vocazione continentale, come la stessa Russia. Tutte e tre queste realtà nazionali, saranno, quindi, nel corso dei secoli, caratterizzate da una profonda propensione all’Assolutismo. Le due Rivoluzioni di Mosca e di Roma, si differenzieranno a causa del sostrato socio-economico che a tali Rivoluzioni farà da detonatore.

Quella Bolscevica del’18, sarà una Rivoluzione che andrà a spazzar via una struttura, quella dello Stato zarista, ormai decrepita sia dal punto di vista politico, che da quello economico, cosa che si ripeterà puntualmente con la Cina nell’immediato dopoguerra. La Rivoluzione Fascista del’22 andrà, invece, ad impiantarsi in un Paese le cui strutture socio-economiche avevano già cominciato a svilupparsi, portando a quelle contraddizioni ed a quelle tensioni, di tali momenti caratteristiche. La Rivoluzione Fascista come Rivoluzione Modernizzatrice, in grado cioè di adeguare e piegare le energie della Modernità alle esigenze sociali. Non è un caso, se, quasi tutte quelle istituzioni pubbliche, create con la finalità di assistere e coordinare lo sviluppo economico e sociale in Italia, abbiano avuto i propri natali sotto il Fascismo.

L’Italia attuale deve tutto o quasi, in termini di strutture, al Fascismo, primo movimento, tra l’altro, in grado di dare al cittadino italiano un senso di appartenenza nazionale, retaggio precedentemente, di quei ristretti circoli intellettuali, legati al Liberalismo. Contrariamente a quanto il pensiero liberal-progressista va cianciando, il Fascismo fu la forma più Moderna ed attenta alle esigenze del sociale che il nostro Paese possa aver avuto, contrariamente al Marxismo, modello nel nostro Paese irrevocabilmente perdente, a causa della presenza di quel substrato di realtà economiche e sociali che, (assenti invece in Russia o in Cina), non avrebbero mai potuto accettare un qualsivoglia regime collettivistico. Sia pur con le loro varianti, Fascismo e Nazismo avranno la funzione di modernizzare i rispettivi Paesi, spingendo su una mai sopita vocazione all’economia industrializzata. All’indomani del Primo Conflitto Mondiale, Wilson, Lloyd George e Clemenceau commetteranno il fatale errore di toccare le strutture industriali della Ruhr e di cercare di bloccare in ogni modo lo sviluppo industriale germanico, favorendo, in tal modo, la politica di colossale riarmo hitleriana. Un errore, questo, che gli USA, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale si guarderanno bene dal ricommettere, lasciando, anzi, che le ex Potenze dell’Asse, usufruendo delle istituzioni create dai rispettivi regimi prima del conflitto, portassero a pieno compimento uno sviluppo industriale senza precedenti, ferma restando la subordinazione politica e finanziaria, dell’intero vecchio continente. Il risultato sarà che, a distanza di quindici anni dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, Germania ed Italia fruiranno di uno sviluppo economico tale, da consentir loro di trattare da pari a pari con le altre potenze europee. Questo elemento costituirà la base per la nascita della Comunità Europea, che, sebbene ammantata di ideali federalisti, sorgerà ,in verità, per ragioni puramente economiche. La Russia, o Unione Sovietica che dir si voglia, impianterà lo stesso mito dell’industrializzazione su una società a quasi totalità rurale, adoperando i criteri del marxismo che, nell’arco di settant’anni, si riveleranno fallaci e la porteranno ad una rovinosa  caduta.

Mussolini e Stalin sono dunque accomunati dalla spinta Futurista, che costituirà l’innegabile base per due diversi modelli di sviluppo, il cui unico comun denominatore sarà costituito dalla presenza di uno Stato dirigistico.

La Modernità, esaurirà le proprie spinte rivoluzionarie, con il progressivo avvento del Capitalismo Globale, manifestatosi con l’ingresso del lavoro Terziario e con la conseguenza della nascita di nuove categorie produttive, che scalzeranno ed invalideranno la vecchia bipartizione marxista Proletari- Capitalisti. Lo stesso concetto di Capitale, a causa della Globalizzazione, perde quella caratteristica di staticità che lo contraddistingueva, per acquisire elasticità e mobilità, prima sconosciute. Lo spostamento di masse di denaro da una parte all’altra del globo in tempo reale, fa sì che il capitale acquisti oggi una natura virtuale che, ben si adatta ad una società che va progressivamente impostandosi a guardare il mondo in base a quegli stessi parametri virtuali, conseguenti all’inarrestabile processo di informatizzazione che riveste oggi, ogni campo dello scibile. La Modernità è stata tutto uno stridere di acciaio in direzione di utopie immerse nella concretezza. La Modernità muore nella virtualità, ovvero nella trasposizione dei concetti in immagini derivanti da astrazioni, che degli stessi concetti rappresentano la morte, poiché ne riducono l’essenza a vuota immagine. Il Post Moderno assiste all’uso della tecnologia informatica, volto a fare dell’essere umano un alienato, proprio in quanto tende a sostituirsi ed a scavalcare quel procedimento di sintesi tra immagine e pensiero, che costituisce la base di crescita di qualsiasi elaborazione concettuale. Tale dato di fatto, da una parte, potrebbe rappresentare per i gruppi di pressione economico-finanziaria un notevole vantaggio, in quanto permetterebbe loro di agire su un materiale umano totalmente decrebrato, un’immensa “tabula rasa” abituata a ragionare per immagini, senza più alcuna capacità di sintesi e quindi più facilmente assoggettabile al martellamento mediatico, dietro al quale, si celano gli interessi di tali gruppi. D’altra parte, tale processo porta in sé un fattore di rischio dalle conseguenze imprevedibili. Oggi la globalizzazione dei mercati finanziari fa sì che, un qualsiasi elemento di destabilizzazione che abbia a verificarsi in un punto qualunque del mondo, faccia, in breve, risentire le proprie conseguenze su tutte le economie locali, in una specie di effetto “domino” su larga scala. Tale elemento, da innegabile strumento di pressione nelle mani dei gruppi finanziari, può trasformarsi, nel tempo, in un elemento in grado di destabilizzare gli attuali assetti di potere economico, in un crescendo di colpi di mano tali da rendere, alla fine, impossibile lo sviluppo economico stesso. Tutto questo, altro effetto non avrebbe, se non quello di compromettere, in modo irreversibile, il tenore di vita delle popolazioni sottoposte agli oramai incontrollabili umori di un mercato, ormai privo di regole e superiori punti di riferimento. La risposta a tutto questo, non può non venire se non da una Sintesi, in grado di agire su vari piani, riconciliando immagine e pensiero, finalità ideali e giustificazioni razionali, creatività e senso dell’estetica. Una testuggine in grado di dare una risposta su più piani alla Globalizzazione dei valori virtuali, il cui unico sbocco è il nulla. Premessa di tutto questo dovrà essere la morte della Modernità ed il conseguente esaurirsi delle sue spinte propulsive. L’unica risposta possibile al Post moderno sta nel riaccentrare il ruolo dell’uomo come “summa” di tutte le Sintesi, perché inscindibile unione di anima e corpo, (così come fu per la civiltà ellenica). L’errore alla base dell’odierno modello di civiltà sta proprio in questo: nel progressivo accentuarsi, cioè, della frattura tra i domini della Materia e quelli dello Spirito, con un alternarsi di periodi in cui l’uno o l’altro degli elementi di tale antinomia la fa da padrone, finendo inevitabilmente con lo spalancare le porte alla morte dei valori ed alla mercantilizzazione della vita delle comunità. Non per nulla, la storia dell’Occidente ha assistito molte volte al disinvolto passaggio da momenti di accentuato “spiritualismo” ( spesso contrassegnati da un profondo disprezzo della corporeità) ad altri permeati da un profondo materialismo; il tutto senza escludere la contraddittoria convivenza di ambedue gli elementi nel medesimo alveo.

Il passaggio dall’Evo Medio all’Età Moderna rappresenta una valida testimonianza di tale dato di fatto. Ma, un esempio che ancor più rende l’idea di questa realtà, è rappresentato dalle società mercantiliste nate a seguito della Riforma Protestante. Intrise di un forte bigottismo e di un profondo letteralismo al testo biblico, sono portatrici di un modello di sviluppo del massimo ateismo, quello mercantilista per l’appunto. La stessa ideologia liberale ha, tra i propri principi fondanti, la separazione tra Stato e Chiesa, principio questo, di cui il Cavour fu un acceso sostenitore. La civiltà Classica, invece, si fece portatrice di un modello in cui, la Religione costituiva parte dello “ius publicum”. Questo perché, la grecità e, di conseguenza, l’intero mondo classico, furono beneficiate da un’impostazione che faceva della perfezione fisica e dell’estetica, un tutt’uno con l’armonia divina. Sarà la creazione della morale socratica a generare la prima frattura tra ideale e ragione, tra corporeità e spirito, frattura questa, che andrà nei secoli divaricandosi paurosamente, sino alle odierne conseguenze. Il superamento delle attuali discrasie, dunque, nel nome di una Sintesi che riesca a operare su tutti i piani dello scibile, dall’Estetica al Pensiero, oltre le suggestioni del Novecento. Questa è l’unica risposta possibile all’ alienante sfida della Post-Modernità.

La distruzione della Metafisica

Per una nuova oggettività: spunti e riflessioni

 

Sabato 16 Aprile, ho seguito con attenzione il convegno svoltosi presso la sede de l’ “Universale” organizzato da Sandro Giovannini e gli interventi a tale evento legati, tutti appunto accomunati dalla volontà di dar vita ad un nuovo laboratorio meta politico che, nell’intenzione dei suoi organizzatori, dovrebbe prendere il via proprio con la pubblicazione di un libro-manifesto, incentrato sulle più varie tematiche, con la maggior libertà interpretativa possibile, finalizzato però a ri-orientare, andando a ricercare, un comune indirizzo di azione sotto il comune denominatore di olismo, comunitarismo, partecipazione, differenzialismo, anticapitalismo ed antiglobalismo. Una delle tante iniziative editoriali si dirà, oppure l’ennesima nascita di un altro tra i tanti piccoli gruppi che aspira a fare da nume ispiratore per qualche ambito politico-culturale e via discorrendo. E invece no. Stavolta la questione è totalmente differente, perché interessa il destino di un’intera area, quella della cosiddetta “estrema destra” a sua volta interconnessa alla più grande vicenda delle realtà dell’antagonismo politico occidentale. Una vicenda che ha visto sempre di più assottigliarsi i margini per una più decisiva azione di influenza all’interno della società occidentale, proprio a causa dell’impossibilità da parte delle forme-pensiero (sia di matrice progressista-marxista che di matrice neofascista o destro estremo che di si voglia) espresse dalle realtà antagoniste in oggetto, di tener testa all’impetuosa avanzata della Tecno Economia. Prova ne sia, la completa stasi, la quasi totale paralisi di queste forze di fronte all’ennesimo e gravissimo atto di arroganza imperialista anglo-francese nei riguardi della Libia, che ha, tra l’altro, definitivamente messo fine a qualsivoglia velleità europeista, lasciando alle varie formazioni antagoniste le briciole di sempre più insensati e melensi slogan solidaristici. Fine degli antagonismi? Forse sì, forse no. Certo, ad oggi per riorganizzare una qualsivoglia forma di pensiero-azione si necessita di chiarezza e lucidità d’analisi, riandando a dissotterrare il vecchio e mai sopito interrogativo sul “chi” e “cosa” siamo e da dove, quindi, veniamo. Avevamo già trattato in un precedente articolo questo argomento, andando ad identificare nel mare magnum del nichilismo e dell’anarchia le radici profonde di una certa area, radici tornate a farsi sentire con più vigore nelle sue vicissitudini degli anni dal dopoguerra in poi. Ma quale può essere il senso compiuto di tale riscoperta e quale specialmente, l’utilità ai fini dello sviluppo di un qualsivoglia progetto metapolitico? Semplice, offrire un potente indirizzo di azione in grado di chiarificare in modo definitivo e senza alcun dubbio, quale debba essere l’obiettivo primario di una futura azione meta politica e cioè il concepire il nichilismo come coscienza compiuta della precisa volontà di “annichilire” il modello globale occidentale, attraverso la disarticolazione del suo strumento principe, ovvero il capitalismo. Ma per arrivare a questo, non si può e non si deve commettere il micidiale errore di ricadere nei “memento” ideologici del passato. Il rincorrere gli anni ’20, ’30, ’40 o, finanche ’70, rappresenterebbe un passo che altro non farebbe che trascinare nel ghetto del velleitarismo nostalgico ed utopistico qualsiasi tipo di iniziativa. Il passo successivo dovrebbe essere quello di definire la modalità dell’azione meta politica in oggetto, ovvero il chiedersi in quale modo possa essere recepito il messaggio nichilista. A questo punto di fronte a noi si presenteranno due scelte. Da una parte il continuare un’azione disarticolata, attraverso gruppi e gruppetti accomunati questa volta da una rinnovata coscienza sulle ragioni e sulla precisa valenza del proprio “esserci”, ovvero sulla finalità nichilista, dell’intera azione politico culturale di cui questi si renderanno protagonisti. La seconda strada dovrebbe invece avere per oggetto la creazione “ex nihilo” di un movimento, la cui caratteristica dovrebbe appunto essere quella di avere come premessa il totale superamento delle posizioni ideologiche del passato, capovolgendo l’impostazione filosofica di tipo “gnostico” caratterizzante sinora aree politiche come quelle dell’estrema destra, in particolare. In base a questa impostazione, a farla da padrone sarebbe un esasperato dualismo ontologico  che vedrebbe la netta contrapposizione tra mondo della materia e mondo dello spirito, in cui un iperuranio “mondo delle idee”, o “mondo della tradizione” nel caso nostro, concepito nella statica attesa di essere fedelmente ricalcato da un uomo tremebondo, immerso in un mondo di tenebra ed ignoranza.  Questa impostazione è sempre stata foriera di malintesi e distorsioni, conducendo ad una vera e propria atrofia della elaborazione intellettuale ed alla conseguente mancanza di lucidità nell’analizzare una realtà circostante di cui non si riuscirebbero più ad identificare fattezze e contorni, tutti gli sforzi andando nella ricerca di quel mondo di “valori” o “mondo della tradizione” che dir si voglia, che in tal modo continuerebbe a rilucere e vivere di vita propria lontano dagli occhi e dai problemi del mondo. Un’analisi questa, non nuova, già fatta propria dalle scuole esistenzialiste di Heidegger e Jaspers che, per l’appunto, vedevano nell’idealismo platonico, quella barriera che si sarebbe andata via via frapponendo nella storia d’Occidente tra l’uomo e la visione autentica della realtà, creando in tal modo le premesse per la attuale alienazione. Questo non significa demonizzare quel “tradere” che della più genuina “tradizione” costituisce la base ed il fondamento, ma solamente il dare ad ogni cosa il suo giusto valore, in questo caso quello di archetipo informante l’umano agire. Né questo significa un ritorno di fiamma del materialismo meccanicista, ma invece un riposizionamento di un certo pensiero in direzione di quell’immanentismo, che della consustanzialità tra materia e spirito, di quell’aristotelico “ileomorfismo” fa il proprio asse portante. La storia del pensiero filosofico ha da sempre visto contrapporsi due scuole: una che afferma la netta divisione del mondo in due dimensioni incompatibili, luce e tenebra o spirito e materia, animate da un perenne ed insanabile conflitto. Questa scuola trova le sue premesse nello zoroastrismo iranico da una parte ed in alcuni motivi del platonismo dall’altra, sino ad arrivare all’acosmismo della Gnosi, del Manicheismo ma anche, sotto sotto, di S.Agostino, che finiscono col relegare la dimensione statuale e civile in una sfera infera e prona rispetto all’etereo mondo dello spirito. Dall’altro abbiamo l’intuizione dell’Essere con Parmenide in Grecia, mentre in Cina corrisponderà quella del Tao di Lu Tzu, passando per il Brahman Nirvana buddhista, attraverso lo Zen nipponico, sino ad arrivare all’Essere di Meister Eckhart ed al Deus sive natura di spinoziana memoria ed infine alle intuizioni gentiliane sulla natura dell’Essere. A farla qui da padrone è la percezione dell’unicità di quell’ “Essere” presente in tutte le cose, ma assolutamente ineffabile, tanto da costituire il magnum misteryum dell’intero ordine cosmico. Questo Essere è contemporaneità di Pensiero e Azione, Spirito e Materia, Volontà e Annullamento, Chiaro e Scuro. E’ da queste premesse che dovrà ripartire un Pensiero-Azione volto ad annullare e resettare tutte le precedenti impostazioni di pensiero. A farla da padrone sarà quindi l’esigenza di interagire con la realtà in un perfetto spirito di osmosi con i tempi e con lo spirito del momento. E quindi spazzare via tutti gli inutili rami secchi cumulatisi in decenni di stagnante e nauseabondo buonismo, a cominciare proprio da quell’Europa ignava e ladrona, buona solo a pontificare sulle dimensioni degli altrui salumi, ma totalmente disabile a produrre alcunché di Europeo, se non imporre assurde ed antieconomiche monete uniche o fare i buonisti di cartapesta sull’immigrazione, salvo poi imporre unicamente alla povera Italia, di farsi carico delle ondate umane provenienti dal Nord Africa. E proprio sulla spinosa questione migratoria l’Europa si sta giocando tutto, immagine, futuro e stabilità incluse. E sempre su questo terreno, un nuovo schema di pensiero avrà il suo battesimo del fuoco: o uscire definitivamente dagli schemi buonisti, denunciando il fenomeno per quello che è, ovverosia una vera e propria invasione sponsorizzata dai vari poteri forti per infracidare definitivamente le già stanche membra del continente europeo. E poi tornare a comprendere che la vita di una comunità nazionale non può essere delegata in toto alle esigenze delle imprese. Non si può arrivare a privatizzare, finanche l’acqua o l’aria o delegare la gestione dell’energia nucleare ai “privati” (come accaduto a Fukushima, sic!), solo per far contenti turme di avvoltoi che si sentono in diritto di fare qualsiasi cosa, perché i salotti progressisti hanno definitivamente delegato le loro coordinate di pensiero ai guru dell’iperliberismo d’oltreoceano. No, tutto questo non si può ma, proprio per questo, è necessario muovere dei passi decisi con idee chiare per arrivare a far nostro un presente le cui istanze, richieste e necessità verranno altrimenti fatte proprie da realtà politico culturali che finiranno, invece, col lasciare  relegati sul binario morto del nostalgismo tutti i temporeggiatori d’ogni tipo ed estrazione.

Questa breve ricerca parte dall’esigenza di una miglior comprensione di quella che qui si potrebbe definire con il termine di “fenomenologia” dell’Occidente, in grado di identificare quelli che della grande contraddizione occidentale sono i motivi-spinta, per addivenire poi ad una sintesi in grado di offrire una prima, sia pur parziale, risposta ad una questione così vitale per interpretare il nostro presente e poter, di conseguenza, gestire il nostro futuro.

L’Occidente come contraddizione

 

L’Occidente nasce con la riflessione filosofica, sotto la potente spinta della metafora mitologica ellenica che, nel caso del mito della Sfinge a Tebe, della vicenda prometeica e dell’Odissea, pone l’uomo di fronte alla continua sollecitazione di un pensiero che alla fine lo porta a superare il limes stesso della narrazione mitologica e religiosa, per arrivare ad interrogarsi in modo integrale e, diciamo pure, “abissale” sull’intima essenza di quella realtà, che se anche sembra esser lì a portata di mano, rimane pur tuttavia sfuggente. La prima grande cesura del pensiero occidentale è rappresentata dalla grande intuizione parmenidea su quell’ “einai/essere” che sarà oggetto di tante successive elucubrazioni e gravido di conseguenze per l’intero mondo a venire. Nella sua rotonda e perfetta inamovibilità, l’Essere sembra rappresentare la miglior risposta a quell’abissale ansia di penetrare la realtà che tanto caratterizza le menti dei primi occidentali. L’Essere è e non può non Essere. Quello che sembrava nascere all’insegna di una felice intuizione della logica aristotelica, nasce però già inficiato da quanto Platone, nel suo divino slancio proteso a dare al mondo un’ordine subordinato alla perfetta dimensione iper urania,  andò già affermando,e cioè che l’Essere è e può non Essere, l’esclusivismo del principio d’identità può negare l’essere stesso, estromettendone in tal modo quella ontologica centralità, lasciando aperta la porta sull’abisso delle possibilità senza fine. Quello che, inavvertitamente, Platone aveva codificato razionalmente, i Sofisti avevano colto intuitivamente. La realtà è una informe massa di creta, i cui amorfi contorni  si offrono spontaneamente all’uomo, conferendogli in tal modo la possibilità di plasmarne per intero fattezze ed essenza. Protagora e Gorgia di quell’Occidente forse rappresentano la prima, dilacerante, patente contraddizione. Dimostrare tutto ed il suo contrario spalanca la strada al relativismo culturale, ma anche alla possibilità di dominare irresolutamente la realtà. Abisso e Luce. E tra loro nel mezzo, Lui, l’uomo, ora sempre più proteso a divenire oltre-uomo. Ma il seme della contraddizione è stato gettato, l’Occidente inizia la sua folle corsa attraverso la   Storia, senza poter mai tralasciare quell’oscuro richiamo alla contraddizione di cui si faranno via via interpreti i vari nominalisti medioevali o coloro che, come Machiavelli, nella rinascenza ricollocheranno l’uomo al centro del cosmo sino ad arrivare all’intuizione schopenaueriana, ed infine, a Nietzsche padre putativo di una modernità i cui contorni e significati sono rimasti a noi tuttora incompresi. 

Post modernità e nuova oggettività

La Modernità

 

Abbiamo  sin qui tracciato a grandi linee, quelle che sono state le direttrici della vicenda occidentale, ora di questa vicenda dobbiamo giuocoforza analizzare quello che, senza esagerazioni, potremmo definire il punto apicale, rappresentato dalla Modernità, ovverosia da ciò che di quest’ultima, ha recepito il mondo attuale. L’autore francese Guillaume Faye afferma che di tutte le età di innovazione della storia, quella rappresentata dalla Modernità (così come, a suo dire, è venuta prefigurandosi a partire dalla seconda metà del 19° secolo) non è mai decollata, anzi è fallita, sostituita da uno stato di compromesso tra la più bieca e retriva conservazione dei valori ed un’innovazione declinata all’insegna del più puro economicismo.  A parere di chi scrive, invece, il problema non sta tanto nel fallimento dell’istanza modernista, quanto nella scelta del suo realizzarsi secondo determinati parametri. Bisogna anzitutto partire dal fatto che, contrariamente a quanto generalmente si pensa, quella dell’Occidente degli ultimi tre secoli, non è stata una crescita caratterizzata dall’unilinearità ideologica, anzi al contrario. Se il 17° secolo ha rappresentato la premessa dei successivi sviluppi della Modernità, attraverso autori come Cartesio, Spinoza, Locke ed altri, il 18° ne ha invece rappresentato il vero e proprio inveramento ideologico attraverso personaggi come Voltaire, Rousseau, Montesquieu ed altri ancora, ampiamente supportati dalla vicenda della Rivoluzione Francese. Ma è proprio nel 18° secolo che si verifica la prima, significativa crepa nel pensiero occidentale attraverso l’affacciarsi di un “altro” pensiero, inizialmente rappresentato da autori come Giovan Battista Vico e da J.W.Goethe, supportati dalle istanze del nascente vitalismo. Volontà e fato qui sembrano marciare all’unisono in osmosi con il mistero di una natura, che sembra prefigurare all’uomo possibilità prima mai concepite. Mentre uomo e natura, ratio e magia, sembrano sommersi dall’onda lunga della rivoluzione illuminista, silenziosamente, quasi impercettibilmente, l’ “altro pensiero”comincia a muovere i suoi primi passi, via via spinto dal graduale fallimento e messa in crisi delle istanze illuministe e positiviste. A partire da un certo momento il 19° secolo assisterà al progressivo sgretolamento di tutte quelle che, dell’Illuminismo, erano state le certezze-base. La prima riguarda quell’ “io” la cui cartesiana certezza , la cui tranquillizzante unità, viene messa in crisi da quei tre grandi autori che, dell’Occidente, rappresenteranno la cosiddetta “scuola del sospetto” e cioè K. Marx, S. Freud e F. Nietzsche, rispettivamente enunciatori del concetto di alienazione il primo, inconscio il secondo e superuomo ( o, sarebbe meglio dire, oltreuomo) il terzo. La messa in crisi dell’unitarietà della coscienza occidentale è accompagnato da una ventata di irrazionalismo alla cui base sta il concetto di “vita”, da Schopenauer e Nietzsche intesa come base di quella corrente di energia che alimenta la volontà, motivo principe della vita dell’uomo. La stessa scienza evoluzionistica sembra con Darwin, almeno inizialmente, soggiacere a queste suggestioni. Ben presto, però, il pensiero dei vari Marx, Freud e Darwin andrà ad irreggimentarsi ed a incardinarsi in quelle che del pensiero materialista e meccanicista rappresentano le linee guida, marcando e determinando di sé l’identità occidentale, mentre la figura di Nietzsche, padre putativo della Modernità, costituirà il primo importante punto di rottura volta all’interno della tradizione filosofica occidentale, almeno per come essa si era andata concretizzando negli ultimi secoli. Nietzsche è il primo autore che tornerà ad usare lo strumento dell’aforismo in filosofia, imprimendo in tal modo al pensiero occidentale una valenza estatica, profondamente irrazionale e marcata da un esuberante vitalismo. A questa si accompagnerà una prospettiva tutta incentrata sulla immediatezza della pulsionalità individuale, quella “erlebnis”, che in autori come Dilthey, Simmel, Bergson, Jung ( ma anche nei neoprgamatici e neohegeliani alla Dewey o alla Gentile) si costituirà a mò di prospettiva primaria. Le stesse avanguardie artistiche che tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo prendono piede in Europa si pongono sulla scia di questo pensiero e, nell’esperienza futurista in particolare, si fanno portatrici delle istanze di radicale rinnovamento della società, alla luce dei cambiamenti apportati dalla rapida evoluzione della scienza e della tecnica. Quella che uscirà da questo magmatico ribollire di idee ed istanze sarà però, una società marcata dalla predominanza della sintesi tecno economica su tutto il resto. Al socialismo dei vari Proudhon, Sorel ed altri, si opporrà, vincente, il socialismo scientifico di Marx, Engels, Rosa Luxemburg e Lenin. All’idea vitalistica di evoluzione prefigurata da un Von Haeckel, si opporrà, vincente, l’evoluzionismo meccanicista di Darwin. Alla psicologia analitica di Jung, si contrapporrà l’analitica delle più materialiste tra le scuole freudiane. All’immagine di una “Erlebnis” intesa come spinta dell’individuo ad un’autorealizzazione in piena concomitanza con le istanze dell’intero corpo sociale, si fa avanti l’idea di uno sfrenato individualismo, volto ad introiettare qualunque segnale di sollecitazione proveniente dalla sfera tecno economica, sino a fare di quello stesso individuo, un anodino tubo digerente. Alla tecnica quale strumento principe per la realizzazione ed il passaggio dell’uomo all’auspicato stato di nicciana memoria di “oltreuomo”, si ha invece il codino asservimento di questa ai diktat dell’economicismo. Strano a dirsi, quelle che potrebbero sembrar perdenti, sono però, istanze che rimangono presenti all’interno dell’apparentemente uniformato, pensiero occidentale, volontà di potenza in primis, le quali però sono state utilizzate per realizzare tutt’altro tipo di modernità, ben lontana da quelli che erano i “desiderata” delle Avanguardie. 

La maledizione dualista

 

A ben vedere, però, Platone aveva anche lanciato un altro seme che, di lì a poco avrebbe dato frutti ben diversi da quelli inizialmente auspicati. Idea viene dal greco “idèin/vedere”. Scopo del platonismo era dunque una visione più chiara e possibile del mondo, attraverso il continuo e sicuro riferimento all’iperuranio mondo delle idee. Quivi, amorevolmente custoditi, i modelli perfetti ed immutabili di ogni aspetto della realtà, detti anche Archetipi, avrebbero offerto riparo e conforto a tutti quegli umani interrogativi, tutti incentrati su quel “ti estì?/cos’è?”, che della natura delle cose pretendeva penetrare l’intima realtà. Ma Platone aveva iniziato male. A suo dire, creatore del mondo era il Demiurgo, una divinità di rango inferiore rispetto alla dimensione iperurania e da ciò derivava per l’uomo e per il mondo una condizione di minorità  tale, da giustificare un superiore riferimento ideale da cui attingere a piene mani. La condizione di cui sopra però, veniva espressa in un modo talmente radicale e totalizzante da allontanare progressivamente la sfera del divino dalla dimensione mondana, facendo dell’umana vicenda un alcunché di transitorio ed indegno di esser vissuto. Non solo. La realtà finiva con l’essere interpretata “sub specie aeternitatis”, ovvero sotto la lente di una dimensione che, in quanto radicalmente aliena rispetto a quella realtà medesima, ne finiva giuocoforza con il distorcere ed alterare irrimediabilmente i contorni, sino a stravolgerne e nasconderne totalmente i contenuti, determinando, in tal modo, uno dei principali filoni della plurisecolare vicenda occidentale. Probabilmente Platone intendeva solamente reinterpretare il mito e la religiosità greca, alla luce della sopravveniente crisi del mondo ellenico, di cui già allora si cominciavano a preavvertire i primi preoccupanti sintomi, già preannunciati dalla strisciante polemica tra la nascente filosofia greca di Eraclito e Parmenide e la teologia orfico-pitagorica, come magistralmente descritto da Ortega y Gasset in “Origini e fine della filosofia”. E qui entra in gioco il secondo “filone” della vicenda occidentale rappresentato dall’intersecarsi e dall’inseguirsi di due forme-pensiero opposte ma, al contempo, consustanziali: l’Essere ed il Divenire. Inizialmente concepite come due grandi forme-pensiero finiscono con il subire quello stesso processo di corrompimento che aveva caratterizzato l’intuizione platonica. Stasi acuta da una parte (Essere) e frenesia cieca dall’altra (Divenire) porteranno più e più volte l’Occidente sul baratro dell’autodistruzione, in una vicenda storica caratterizzata da una spirale ascendente, in direzione del controllo totale del cosmo intero, sino alla più recente sfida, passante attraverso la trasmutazione dell’umano.

La Post Modernità

 

Se si può in qualche modo,  datare l’inizio della definitiva scissione della Modernità e delle sue istanze, in direzione della Post Modernità, questo può esser fatto assumendo come data simbolo il 1969, l’anno dello sbarco umano sulla Luna. La crisi della società occidentale degli anni ‘60 è anche la crisi della Modernità produzioni sta, fordista e taylorista. Nel loro contestare i giovani cercano un’alternativa al rigido produttivismo, innestatosi a partire dalla fine del secolo 19°e che, come un treno in corsa, aveva attraversato sette decenni di storia, cambiando radicalmente il volto all’occidente ed al mondo intero. Il “clou” di quel momento sembrava realizzarsi allora, nel mezzo delle contestazioni, con lo sbarco sulla Luna. All’uomo sembrarono, per un breve momento, spalancarsi  le porte di quel cosmo che, nella sua veste di spazio infinito, sembrava realizzare tutte quelle aspirazioni volte a realizzare una nuova dimensione  attraverso la radicale modificazione e trasmutazione delle forme dell’esistente, così come prefigurato dalle Avanguardie artistiche dai primi anni del ‘900 sino agli anni ‘60 di quel secolo. Ma, alla scelta dell’esaltante salto verso l’infinito, si preferì concentrare le forze in direzione di un perfezionamento che portasse la Techne verso l’avviluppamento ed il livellamento delle coscienze e delle individualità, in un unico contenitore rappresentato dalla Rete. Il primo passo rappresentato dalla progressiva liberalizzazione delle economie e dalla finanziarizzazione dei mercati, troverà nel progredire della scienza informatica, quel “quid” in cui ingabbiare le coscienze a livello planetario, in modo tale da costituire una specie di “Es”, nel ruolo di Io sovracosciente artificiale con cui condizionare le masse dell’intero pianeta.  

Quali prospettive?

 

Come abbiamo già accennato, quelle stesse istanze rifiutate, emarginate, respinte all’angolo della Storia, sono invece rimaste presenti in modo latente all’interno dell’attuale modello di sviluppo, volontà di potenza in primis, proprio a causa del fatto che, come abbiamo avuto modo di vedere, di tale modello costituiscono una delle premesse fondanti. Una risposta potrebbe proprio venire da quanto, un pensatore come Heidegger, può indicarci nelle ultime fasi del suo personalissimo percorso di pensiero. Attraverso il concetto di “Ereignis”o “Evento”, in cui l’Essere delle cose, emendato dalle sovrastrutture del linguaggio della metafisica e da un’idea di asfissiante staticità, si presenta come “Essere-Evento”, ovverosia Essere in movimento. In tal modo si finisce con il conferire all’intero percorso del pensiero occidentale la prospettiva di una inusitata dinamicità, riconnettendosi a quella impostazione di pensiero che, iniziata con l’intuizione dell’Essere di Parmenide in Grecia,  in Cina troverà la propria corrispondenza in quella del Tao di Lu Tzu, passando per il Brahman Nirvana buddhista, attraverso lo Zen nipponico, sino ad arrivare all’Essere di Meister Eckhart ed al Deus sive natura di spinoziana memoria ed infine alle intuizioni gentiliane. A farla qui da padrone è la percezione dell’unicità di quell’ “Essere” presente in tutte le cose, ma assolutamente ineffabile, tanto da costituire il “magnum misteryum” dell’intero ordine cosmico. Questo Essere è contemporaneità di Pensiero e Azione, Spirito e Materia, Volontà e Annullamento, Chiaro e Scuro. L’Occidente in quanto tale, è dunque perenne contraddizione. La via d’uscita all’incalzante problema della Globalizzazione, sta proprio nelle risorse insite a tale contraddizione. Volontà di potenza, Techne, “abissalità” dell’umano interrogarsi (volto cioè a sondare l’Essere nelle sue più recondite profondità con eterea leggerezza…), costituiscono la miscela che, prima o poi, farà riesplodere le contraddizioni dell’Occidente azzerandone le potenzialità negative e rimettendone in gioco l’intero destino, in una ciclica prospettiva senza soluzione di continuità.

Ripensare l’uomo: una breve riflessione antropologica post moderna

 

Vi sarà capitato di fermarvi davanti ad una foresta, di quelle veramente massicce, fitte, dagli alberi ad alto fusto. Una di quelle che, solo a guardarla ti ci senti già perduto, travolto da un insolito e sconosciuto timore. Timore di quei bui accessi, dentro ai quali può nascondersi chissà chi o che. Ma poi vedrete che a quel timore andrà man mano sostituendosi una strana attrazione, una irrefrenabile voglia di entrare a far parte di quella verde oscurità, di salire sulla cima di quegli alberi, sino ad immedesimarsi con quel verde oceano…E’ una sensazione arcana e misteriosa, che ci può cogliere ogni qualvolta ci si soffermi ( come è recentemente accaduto a chi scrive, in quel del Brasile) a contemplare una foresta tropicale. Quel manto verde scuro, si fa così ieratico portatore di un richiamo senza tempo, che ci pone una domanda che, dall’atemporalità del suo porsi ci rilancia nel vorticoso succedersi delle umane vicissitudini. Da dove viene l’uomo e qual è il suo ruolo oggi? Una domanda che, specialmente alla luce dell’attuale contesto epocale riveste una sua particolare importanza. Il tema delle origini e della possibilità di un loro almeno parziale disvelamento, dovrebbe costituire il propellente ed il viatico in grado di dare un giusto senso ed indirizzo al futuro. A voler proprio guardare le cose alla lontana, sono suppergiù due secoli che due scuole di pensiero si contendono, a tal proposito, il proscenio. Da una parte gli inveterati fautori di un modello meccanicistico-casualistico che vede l’apparire delle varie specie viventi, uomo incluso, come il frutto di un cieco meccanismo di adattamento e selezione, proteso ad un continuo ed indefinito miglioramento. Qui l’uomo è visto come frutto dell’esaltante percorso evolutivo, che ha portato d’improvviso l’umile scimmietta a trasformarsi nell’ invitto dominatore dell’orbe terracqueo, riconfermando in tal modo il principio che “gli ultimi saranno i primi”, i poveri e i diseredati (le scimmiette del nostro caso, sic!) si trasformeranno in padroni, nel nome di una nemesi storica che partendo dai primordi dell’uomo, si vorrebbe far arrivare alla lotta di classe. Dall’altra parte invece, si continua a perseguire una interpretazione letteralista dei Libri Sacri, frammischiata ad una quanto mai confusa e rabberciata presunzione antropocentrica, in grazia della quale l’uomo non può discendere da una bestiaccia quale la scimmia, anzi, a dir di qualcuno, le povere bestiole altri non sarebbero che la degenerata espressione vivente di alcuni individui di bassa lega e l’uomo sarebbe il diretto frutto della divina creazione con acqua e argilla, così come prospettato da quei Sacri Testi. Diciamo intanto che la scienza ufficiale, sfrondate le semplificazioni del primo evoluzionismo, che vedeva l’uomo nel ruolo di diretto discendente di primati quali scimpanzé e simili, in base a tutta una serie di scoperte e di ritrovamenti, ha cominciato a vedere le cose pressappoco in questo modo: svariati milioni di anni fa in un’area definita “antropofiletica”, comprendente una zona che va dall’Africa Orientale all’India Occidentale, allora ricoperta da foreste tropicali, vivevano delle strane ed arcaiche scimmiette chiamate”proconsul”, “oreopitechi” e “ramapitechi”, la cui tendenza a permanere erette sulle zampe posteriori era più marcata rispetto ad altre, similari specie. Ora, a causa di quel sommovimento geologico che avrebbe determinato la nascita della “Rift Valley” (un profondo avvallamento sormontato da montagne, che va dall’Etiopia al Kenya, sic!), si sarebbero determinate due diverse aree climatiche: da una parte, verso occidente sarebbe rimasta la foresta tropicale, dall’altra, verso oriente, si sarebbe formata una sconfinata savana. Oltre ad una differente caratterizzazione climatica e paesaggistica, le due aree avrebbero conosciuto lo sviluppo differenziato di varie specie animali, tra cui le nostre scimmiette. La scomparsa delle fitte foreste tropicali avrebbe, difatti, favorito l’andatura bipede di queste ultime, atta alla più facile reperibilità di cibo, provocandone una graduale, ma significativa, mutazione. Il lungo cammino verso l’Uomo, così come lo conosciamo oggi, sarebbe poi passato attraverso l’Australopiteco e via via attraverso una grande varietà di pre ominidi, sino ai nostri più somiglianti antenati ominidi Pre Sapiens, gli Homo Abilis, gli Homo Erectus, i Cro Magnon, i Neanderthal e via discorrendo, sino all’attuale Sapiens Sapiens. Un cammino lungo, dunque, tra l’altro costellato da una miriade di specie e sottospecie, con una tale sequenza di involuzioni, estinzioni, apparizioni e migrazioni, da far ripensare profondamente l’intero schema tassonomico che, sinora, l’aveva fatta da padrone. Un ripensamento che, ad onor del vero, riguarda tutte le scienze umane e che, nel contesto dell’antropologia, ha i propri natali nel grande contrasto emerso alla fine del 19° secolo quando, accanto all’indirizzo di pensiero evoluzionista rappresentato dai Darwin, dai Tylor, dai Frazer e dai Morgan, tutto imperniato su un modello di sviluppo eguale per tutte le latitudini umane,( sia che questo riguardasse l’evoluzione fisica della specie umana (Darwin), che quella culturale (Tylor), che quella religiosa (Frazer), che quella tecnologica (Morgan) ), si affiancò un indirizzo che, non credendo alla simultaneità dello sviluppo umano, ne teorizzò piuttosto la diffusione da un determinato luogo o ambito etnico che dir si voglia al mondo intero, il “diffusionismo” appunto. A cominciare furono gli studi dei Bopp, dei fratelli Grimm, sino ad arrivare ai Boas, agli Smith, ai Perry ed al funzionalismo di Malinowski. Una crisi che prende le mosse ed acquisice forza proprio nell’ultimo tratto del 19° secolo, con la prima grande crisi del Positivismo ottocentesco, di stampo evoluzionista. Gli ulteriori decenni del secolo passato, sino ad oggi, a proposito della ricerca sulle origini dell’uomo, vanno arricchendosi di una impressionante serie di scoperte che spaziano sia dalla più classica ricerca  paleo-antropologica, che dai progressi della ricerca spaziale applicata alla climatologia, dagli spettacolari progressi della genetica, sino ad arrivare alle ultime novità nella ricerca storica ed archeologica. Tutte queste branche del sapere e le loro relative scoperte ed applicazioni, portano tutte irrevocabilmente in direzione di una inarrestabile retrodatazione della storia delle origini dell’uomo e del successivo sviluppo della sua civiltà. Oggi i resti di Australopithecus Afarensis datano a 4,5 milioni di anni fa mentre, come abbiamo già visto, la discendenza diretta dell’uomo dalle scimmie antropomorfe viene messa in discussione, in favore di una comune discendenza da un ramo comune di Primati (le cosiddette scimmie “Catarrine”), le quali avrebbero trovato le proprie origini in specie insettivore semi-arboricole, quali il ”Purgatorius” risalenti addirittura alla fine del Mesozoico (all’incirca 70 milioni di anni fa, in coabitazione con i Dinosauri, sic!) ed ancor oggi rappresentate dalle Tupaie, e che avrebbero via via generato le Proscimmie allora rappresentate dagli “Adapis” (progenitori degli attuali Lemuri), poi improvvisamente sostituite, all’incirca 40 milioni di anni fa, dalle due grandi famiglie di Primati: le già citate scimmie Catarrine, cioè “dal naso stretto” e le Platirrine, “dal naso largo”. Apparse ambedue nell’emisfero nord del mondo, le due specie di Primati sarebbero poi  migrate verso il sud del mondo, dando luogo a due diverse vicende. Mentre le Platirrine, si sarebbero stanziate in America latina, dando vita a tutte le specie tuttora viventi di Primati arboricoli, le Catarrine sarebbero emigrate in Asia, da cui successivamente avrebbero mosso verso l’Africa, dando luogo ai Driopitecidi (tra cui il famoso Proconsul), un’altra strana specie di scimmiette, ad ora considerate le progenitrici delle scimmie antropomorfe e dell’uomo, mentre il famoso Ramapiteco sarebbe stato ricollocato su una linea evolutiva differente dal philum diretto con l’uomo. Stesso destino sarebbe toccato al famoso “Uomo di Neanderthal”, sino a poco tempo fa considerato un rozzo progenitore del Sapiens ed invece ora ritenuto il frutto di un ramo evolutivo parallelo a quello dei Sapiens, animato da una cultura di una certa complessità, poi estintosi senza lasciar tracce genetiche riscontrabili. Il tutto, all’insegna di due fondamentali fattori precedentemente citati: il primo, desumibile dalle scoperte di cui abbiamo trattato, ci delinea una comune area di provenienza geografica , (almeno per quanto riguarda gli inizi) della specie umana, la cosiddetta “area antropofiletica”, collocabile tra Africa Sud Orientale e Sub continente indiano. Il secondo, rimarca la discontinuità del processo evolutivo, il cui “philum” è sempre più concepito come un procedere “a cespuglio”, in un continuo alternarsi di evoluzioni, regressi ed improvvise estinzioni, anzichè secondo un moto di unilineare progresso. Le stesse ricerche nel campo della genetica dei vari Cavalli-Sforza, accanto alla mappatura del genoma, ci stanno aiutando a capire la dinamica dei cambiamenti e degli spostamenti di popolazioni e razze. Allo stesso modo, le recenti scoperte archeologiche del complesso templare di Gobekli Tepe in Turchia, datato a 9.600 anni prima di Cristo e la misteriosa piramide subacquea di Yonaguni in Giappone, (tanto per citare solo due tra gli esempi più eclatanti, sic!) contribuiscono a retrodatare di molto sia la nascita della civiltà che, infine, quella della specie umana stessa. Un ulteriore ed inaspettato contributo alla questione, lo darà la filosofia del Novecento, anzitutto per bocca di Heidegger, con la sua questione della “Lichtung” o “illuminazione” dell’Essere dinnanzi all’uomo. Per il grande pensatore tedesco, difatti, l’uomo è “gettato” nella grande radura dell’Essere di cui prende coscienza, come a dire che senza l’umana coscienza l’Essere non ha luogo, non s’illumina. Dunque tra l’uomo e l’Essere vi è un rapporto di misteriosa mutualità ed interdipendenza, che fa sì che ci si ponga la domanda su come tale illuminazione avvenga e da dove venga il fenomeno “uomo”. Chiaramente, a porsi tale domanda non è il solo Heidegger. Diciamo però che il grande pensatore tedesco pone questa domanda alla luce della filosofia esistenziale (di cui è uno dei principali, se non il maggiore, tra gli esponenti). Non solo. Agli inizi del Novecento, un anatomista olandese, Louis Bolk, prendendo spunto dai suoi studi sull’anatomia dei Primati, elabora una teoria sulla “fetalizzazione” e sulla “neotenia”. In pratica, partendo dall’osservazione del comportamento del messicano “Axolotl”, (una varietà di salamandra che, in mancanza di iodio rimane allo stadio di girino, riuscendo anche a riprodursi), si arriva alla conclusione che l’uomo altri non sia che un essere rimasto allo stadio di immaturità, rispetto agli altri rappresentanti del regno animale. Da queste osservazioni prendono spunto le successive elaborazioni teoriche di Arnold Gehlen, Helmuth Plessner, Max Scheler e Peter Sloterdjik. Nel primo è presente l’idea di “esonero”, quale opzione comportamentale che permette ad un essere come l’uomo una risposta agli stimoli dell’ambiente slegata dai condizionamenti di quest’ultimo, attraverso la “tecnica” intesa come possibilità di manomettere l’ambiente circostante. In Plessner è presente l’idea di uomo come essere “eccentrico/ex-centrico”, ovvero non incentrato sulla propria istintualità, come gli altri animali, mentre in Scheler l’uomo si fa “epochè/sospensione” poiché, in quanto essere in grado di negare, sospende il naturale scorrere del mondo. Ancor più intrigante, a questo punto, è l’analisi del filosofo tedesco contemporaneo Peter Sloterdjik. Partendo da “Lettera sull’Umanismo” di Heidegger, Sloterdijk sviluppa la sua idea sull’uomo quale prodotto, aperto ad ulteriori modificazioni, di meccanismi antropogenici. Osservando come nella “Lettera sull’umanismo”  Heidegger, andando ben oltre la sua preferenza per la relazione tra l’Essere ed il Tempo, elabori, attraverso l’immagine del passaggio dall’ambiente al mondo, l’idea di una casa dell’essere, dell’esistenza intesa come abitare. Da qui l’idea di “sfera”, mutuato dal concetto platonico di “chora”, inteso quale incubatrice delle forme e dei comportamenti dell’agire animale ed umano. Attraverso ed all’interno di esse si sarebbe realizzato il lungo processo dell’ominazione, che avrebbe visto il succedersi alle modalità corporeo-animali, quelle simbolico-umane. A detta di Sloterdjik, la “Lichtung/Illuminazione” si sarebbe realizzata grazie all’azione combinata di quattro meccanismi “antropogenici”. Per farla breve, le “sfere” nell’isolare l’essere umano da un ambiente ostile (meccanismo di insulizzazione), ne favoriscono l’ominazione con la conseguente capacità di poter usare gli arti in una maniera tale da poter modificare l’ambiente a piacimento (meccanismo di liberazione dai limiti del corporeo). Tali capacità vengono raffinate ed amplificate dalla prolungata infanzia e dalla persistente immaturità fisica del genere umano (meccanismo della neotenia) che, di tale apparente debolezza, finirà con il fare un punto di forza talmente soverchiante e tendenzialmente in grado di autodistruggerlo, da dover poi creare dei meccanismi di riequilibrio e protezione rappresentati dalle varie sovrastrutture culturali, religiose o mitiche che dir si voglia (meccanismo della trasposizione). Da tutte queste analisi , incentrate sull’idea  dell’uomo quale essere carente rispetto agli altri appartenenti al mondo animale, traspare un percorso di riflessione “deviante”, rispetto ai dettami del classico scientismo positivista (che tuttora furoreggia nelle sue più adulterate versioni neodarwiniste). L’idea di uno strano essere dall’infanzia prolungata, la cui debolezza si fa punto di forza estremo, stravolge il paradigma evoluzionista incentrato sull’idea di un progressivo adattamento e miglioramento delle specie viventi rispetto agli stimoli ambientali. Ci si ritrova di nuovo dinnanzi ad una vicenda il cui inizio sembra allontanarsi nelle nebbie di un tempo senza fine. L’antenato, il progenitore comune, l’ “anello mancante”, sfuggono alla vista; quando sembrava di averli trovati, ecco che nuove scoperte rimettono il tutto in discussione, retrodatando ulteriormente il calendario. Vi sono teorici come Michael Cremo e come Pino Sermonti che sostengono  invece la presenza umana sulla Terra, risalga a milioni di anni fa, addirittura antecedente a quella delle scimmie antropomorfe; ma chiaramente queste ed altre consimili teorie non sono supportate da alcuna prova e sono pertanto prive di fondamento scientifico. Diciamo pure che è l’intera scienza a necessitare di una radicale e profonda reinterpretazione, proprio perché la sua meccanicistica interpretazione finisce con il condurre a dei veri e propri vicoli ciechi, come in questo caso. A venirci in aiuto, gli stimoli e le suggestioni offertici dai rappresentanti di quel pensiero vitalista che, a partire dal 19° secolo percorre l’occidente come un fiume carsico. Schopenauer in “Il mondo come volontà e rappresentazione” ci parla di un mondo animato da un’irrazionale volontà che, come un misterioso filo elettrico percorre l’intero Essere in tutte le sue manifestazioni, animate od inanimate che siano. Tutto è mosso da questa unica, gigantesca pulsione, alla base della quale sta un irrazionale iato verso la vita. Tale idea andrà poi ad incardinarsi nel pensiero di Nietzsche che, abbandonate le suggestioni metafisiche e consolatorie schopenaueriane mutuate dalle suggestioni del pensiero Indù (i Veda e le Upanishad in ispecial modo, sic!), darà al proprio pensiero un’impronta più marcatamente vitalista e volontarista dello stesso Schopenauer. L’idea di un mondo come Caos, all’interno del quale solo la volontà e la capacità di adattamento la fanno da padrone, la complessa relazione tra Essere ed Io, ma anche la inusitata capacità di sopportare e di vivere appieno l’irrefrenabile ciclo degli eventi che caratterizzano il Caos-Mondo, costituiscono le principali tracce che daranno forma e sostanza al pensiero vitalista degli anni a venire, da Dilthey a Simmel, da Bergson a Spengler, da Husserl a Von Uexkull, passando per Scheler, Heidegger ed altri ancora. Il mondo è irrazionale ed insensata volontà e spinta alla vita ed all’autoaffermazione del Sé, ma non è assolutamente il meccanico e materialistico succedersi di eventi, unicamente regolato da un elementare istinto di sopravvivenza, successivamente interpretato e sviluppato in un volgare e smisurato appetito materiale. E qui viene in gioco l’interpretazione, anch’essa errata, che negli ultimi duemila anni è stato conferito al termine “materia”. La visione cosmologica che presiedeva il mondo antecedente alla riflessione filosofica di Platone, faceva della materia un tutt’uno con l’intero mondo di cui costituiva un insostituibile annesso, all’interno e sopra la quale scorrevano le vicende umane e divine. Gea ed Urano, Terra e Cielo, anche se successivamente sostituite dal più elaborato Pantheon olimpico, costituirono un elemento primario dello svolgersi dell’intero dramma cosmico. Ninfe, driadi, boschi sacri, divinità marine e fluviali, fanno del mondo e dei suoi elementi costitutivi cosa sacra, intoccabile. La stessa riflessione pre socratica, fa della combinazione degli elementi la base, l’a-priori del mondo; lo stesso Anassimandro fa dell’ “apeiron/infinito” la sacra sostanza che presiede all’ordine del mondo. Sarà la sintesi platonica volta a fare dell’ “Idea/Idèin-vedere”, la chiave di interpretazione e semplificazione della realtà, collocando la materia in una posizione subordinata, svilendone il ruolo. L’idea stessa di Demiurgo, quale mediatore ed ordinatore nel ruolo di dare corpo alle idee nell’informe mondo della materia, riconferma quanto qui sinora detto. Ed allora, solo se saremo in grado di intepretare in una nuova chiave di lettura, al di là di certo dualismo, l’intera vicenda cosmica, allora arriveremo a capire o, quanto meno a dare un senso alla vicenda umana sin dal suo più lontano passato ad ora e, chissà, anche al suo futuro. Allora quel neotenico “puer aeternus”, tanto caro a certa parte di scienza del 20°secolo, non sarà più l’immagine di un fantascientifico scherzo di madre natura. Allora, tutte quelle strane scimmiette dagli impronunciabili nomi latini, non saranno più la malconcia parodia della razza umana. Allora capiremo che, forse, lo smarrimento del senso dell’Essere, di cui tanto ci parla Heidegger, è iniziata ben prima della riflessione platonica. Essa è probabilmente coeva all’uomo ed alla sua ominazione, determinata dal dono di quella Techne, con cui poter modificare la circostante realtà a proprio piacimento. Allora comprenderemo la nostalgia di un Paradiso Perduto, quel senso di “estasi/ec-stasis”, ricorrente un po’ ovunque nelle mitologie e nei credi religiosi di mezzo mondo. Essa è il ricordo del senso di immedesimazione con l’Essere intero, con quella Natura Naturans, all’interno della quale l’uomo (o i suoi presunti progenitori) viveva in un rapporto di stretta osmosi. Allora capiremo quel senso di smarrimento, ma anche di strana nostalgia, che ci prende ogni qualvolta sostiamo dinnanzi ad una foresta o ad un qualsiasi altro scenario di Madre Natura. Quel senso che ci dice che, laggiù nella foresta, abbiamo lasciato qualcosa di prezioso. Qualcosa che ci appartiene e che ora, giunti ad una fase tanto cruciale della nostra civiltà, sarebbe ora di recuperare.

Andrea Emo:  l’eterno presente e la meraviglia del nulla 
Un commento a margine             
      

E’ scorrendo tra le mani il libro di Giovanni Sessa “ La meraviglia del Nulla”, Bietti Editore e le note di Sandro Giovannini contenute nel suo “Nel presente eterno, la felicità delle cose”, Heliopolis Editore, che mi rendo conto che ci siamo tutti perduti qualcosa, travolti come siamo dal trambusto di una vita frenetica, fatta di spot, notizie, connessioni, pubblicità, mode, tendenze passeggere e fugaci, come d’altronde qualunque cosa in questa dannata epoca fatta di “usa e getta”. Sì, ci siamo perduti un grande spirito le cui annotazioni, svolte all’ombra di aristocratiche e silenti ville romane, hanno condito di un senso “altro” la vicenda di un Occidente sempre più in preda agli spasmi di una Globalizzazione, troppo spesso scambiata per salvifico e civile stadio verso quella tanto auspicata “Gerusalemme in Terra”, che le grandi narrazioni all’insegna dell’Utopismo ideologico occidentale a partire dall’Illuminismo, passando attraverso il Marxismo sino al Capitalismo, nelle sue più ultime fasi, tanto e vanamente hanno caldeggiato. Un senso “altro” per cogliere il quale, ho preferito partire e cogliere ispirazione da quelle “Ragioni del Caos” di cui il Giovannini ci parla in un suo pezzo ultimamente pubblicato sul “Fondo Magazine”. “Caos”. Una parola che ai più farà sicuramente storcere il naso. “Chaos” è, secondo l’etimologia biblica, lo stadio in cui versava il Creato-Increato, prima che il Verbo Divino, giorno dopo giorno, traesse definiti ed oggettivati i mortali frutti della propria imperscrutabile volontà, appunto da quel “Chaos”, visto come stadio di entropico disordine, in cui tutto versa sino al  momento antecedente all’atto di quella Creazione in cui, come abbiamo già veduto, Dio nominando, crea. Ma “Chaos” in greco, al di là delle interpretazioni bibliche, possiede ben altro significato. Partendo dalla radice sanscrita ed indoeuropea “cha” o “gha”, riscontrabile in vari termini sia greci come “chaino”, “chasko”/”mi apro, mi dischiudo”, che latini come “hiatus”/”apertura”, che ben sottintendono l’idea di apertura, schiudimento di una realtà che è ben lungi dall’essere in antagonistica opposizione con “Kosmos/Cosmo”, di cui invece rappresenta complemento ed inscindibile antefatto logico, in quanto disvelamento della realtà nel suo più totalizzante aspetto di realtà al cui interno convivono in potenza tutte le forme e le manifestazioni divine e mortali del creato. E’ dunque lo spettacolo dell’assieme di una Totalità intesa come “entelecheia” o “essere in potenza”. Di questa realtà, il “Kosmos”, dalla radice indoeuropea “Kens” (latino “censeo”), rappresenta la “chiamata”, il verbo che dinnanzi allo schiudersi del Chaos annuncia il mondo così com’è. Questo verbo è il Logos greco, il misterioso principio di cui parla Eraclito e che sovrintende ad un mondo sostanzialmente increato, frutto di uno svolgersi di cicli, di cui gli Dei sono solo attori comprimari, anche se nel ruolo di immortali reggitori. Ecco, è dunque all’immagine di un Chaos/Archè, quale principiale fondamento di una realtà, il cui essere idealmente “in potenza” è immanente allo stesso mondo come manifestazione, rappresentandone la primaria pulsione vitale, a cui noi dobbiamo rifarci, per capire a fondo Andrea Emo. Il pensatore veneto, nasce e sviluppa le proprie iniziali coordinate di pensiero alla scuola di Giovanni Gentile e dunque di quell’idealismo hegeliano di cui quest’ultimo rappresenta il più tardo ed illustre tributo novecentesco. Come in tutte le grandi famiglie ideali che si rispettino, gli allievi finiscono con il tradire o lo smentire, sino a superare il proprio illustre maestro. Se la dottrina hegeliana con la propria ferrea dialettica “fenomenologica”, aveva cercato di dare un ordine ad un mondo che non ne aveva, in tal modo cercando di arginare lo sfaldamento della metafisica occidentale, Feuerbach e, successivamente Marx, sfalderanno tale ordine in nome di un antropocentrico materialismo. Non diversamente farà Stirner, dirottando la dialettica hegeliana verso i lidi di un irrazionalistico individualismo. Per quanto invece riguarda Benedetto Croce e Giovanni Gentile, ambedue, tributari di un hegelismo influenzato dall’impostazione di Bernardo Spaventa e di John Dewey, si faranno decisi continuatori di quel processo di destrutturazione della metafisica occidentale, partito agli albori dell’Illuminismo. Il primo, Croce, in un modo più articolato e misurato, il secondo, Gentile, con un’impostazione più radicale, attraverso il proprio “attualismo”, tramite il rifiuto di qualsiasi residua istanza dualista, incentrando la propria riflessione sull’idea di  un pensiero vivente, capace di risolvere in sé dialetticamente ogni contenuto. La principale critica che viene mossa a tutte le filosofie precedenti, e soprattutto a quella del proprio padre putativo Hegel, è quella di essere delle dottrine del "pensiero pensato", frutto di una concettualità astratta e priva di vita, perché separata dall'attualità del "pensiero pensante". Per Gentile, solo il pensiero pensante è “dialettico”, perché produttore dell'oggetto, in quanto è il soggetto stesso che si fa altro da sé. Il pensiero, quando si autoproduce (“autoctisi”), sulle prime tratta il prodotto come assolutamente opposto ed estraneo a sé, poi riconosce che l'oggetto nella sua alterità è il soggetto stesso oggettivato, e lo risolve in sé, cioè lo fa identico a sé. Il risultato dell'identificazione di soggetto e oggetto, però, rende di nuovo il soggetto privo dell'oggetto, cioè lo rende astratto. Allora il soggetto, dovendo superare la sua condizione astratta, fuoriesce nuovamente da sé. Ricomincia, perciò, una situazione oppositiva di natura dialettica, la quale stimola al trapasso in un altro momento di sintesi, e così via all'infinito. Questi momenti della dialettica dell'atto, coincidono anche con i tre atteggiamenti fondamentali o le tre "forme" dello spirito, cui corrispondono, rispettivamente, l'arte, la religione e la filosofia. Tutto questo, ci riporta allo schema triadico da Hegel enunciato ne “La fenomenologia dello Spirito”, ma qui coniugato in un senso profondamente immanentista e soggettivista, attento all’atto in sé ed alla sua immediata capacità creativa. Andrea Emo, a sua volta, coniugherà l’impianto teorico gentiliano e neoidealista in tutt’altra direzione, debordando invece, verso la riflessione esistenzialista heideggeriana, recepita e reinterpretata in una accezione del tutto peculiare ed eterodosssa. Emo, anzitutto, supera il perfetto automatismo della razionale dialettica hegeliana, nel nome di un pensiero dell’Origine, in cui le due categorie di Essere e Nulla coincidono. Di tale Nulla il filosofo veneto fa la categoria principe da cui tutto trae origine e si rivela, superando sia la logica del principio di non contraddizione che la stessa assillante domanda-preambolo heideggeriana “perché l’Essere e non il Nulla?”. Gli Enti dal Nulla appaiono ed in esso ritornano, non in quanto tali, bensì quali frutti di un’ autonegazione che si svolge “ab origine” e che, pertanto, impregna di sé l’intero ciclo del loro manifestarsi, sino al ritorno a quell’originale principio, attraverso un altro atto di autonegazione, assumendo pertanto la connotazione di veri e propri “bagliori del Nulla”. La stessa vicenda cristologica, è vissuta come “aletheia/rivelazione” di un principio derivante da un atto di divino auto annullamento, in cui il Dio-Logos che si fa uomo, a sua volta, si autoannullerà nel sommo sacrificio sulla Croce. L’Eternità, l’Assoluto, finiscono con l’assumere, quindi, in un contesto simile, la particolare connotazione di un perenne atto di autonegazione,divergendo radicalmente con la hegeliana e gentiliana “autoctisi”, frutto di un atto autoaffermativo e riportandoci, pertanto ad una forma di “apofatica” teologia negativa, di plotinana memoria, in cui l’Uno non può Essere, in quanto l’Essere in sé, è proprietà connaturata a quel Creato, frutto del decadimento della sostanza divina  e delle sue successive emanazioni mondane. Il voler conferire ad Emo una preventiva patente di “neoplatonismo” è però, a nostro giudizio, un’operazione che può rivelarsi quanto mai azzardata e frettolosa, in quanto il percorso del grande pensatore veneto sfugge a facili e preconfezionate categorizzazioni. Parimenti a quelle di un Guenon o di un Evola, quella di Emo, può essere considerata una di quelle filosofie dell’ “Archè/Origine”, in cui il principio primo impregna di sé l’intera realtà, nel nome di un principio di immanenza-trascendenza, che ci fa parlare di un “eterno presente” in cui l’uomo vive la propria “apertura” al Nulla-Essere, assumendo su di sé vicissitudini ed avversità di ogni tipo, nel ciclico scorrere del tempo, nel nome di uno stato di continua e tragica, tensione ideale. Il mondo è quindi contraddittoria emanazione ed esperienza di un Nulla-Essere, a cui l’uomo è destinato a ritornare, non senza vivere gioiosamente l’intera esistenza nel nome di un principio di potenza individuale. L’individualità per Emo non è un semplice e materialistico dato di fatto, bensì il frutto di quella straordinaria sintesi tra potenza ed azione, che permette all’individuo, attraverso quel centrale momento della propria vita  rappresentato dalla decisione, di vivere con rinnovata intensità ogni attimo di quest’ultima, squarciando così quel velo di vacuità e di apparenza, che caratterizza l’esistenza di noi moderni. Allora, nel riattivare  il proprio rapporto con l’Archè, l’individuo vivrà quale “satori”, l’esperienza del contatto con l’ “Aion-Il Tempo senza Tempo” di iranica memoria, quale  sostanza Eterna, nella veste di vero e proprio principio cardine dell’indeterminatezza, al di là di ogni pretesa di personificazione ed “entificazione” di sorta. Il Nulla-Essere si fa qui, pertanto, principio cardine da cui partire per addivenire alla comprensione della Totalità, superando la dialettica hegeliana e gentiliana e cercando di offrire una soluzione alla heideggeriana Grundfrage, senza per questo ricadere nel dualismo Essere-Nulla, ma, piuttosto, rivolgendo la propria speculazione ad un’impostazione vicina all’attuale neo-parmenidismo, coniugato con accenti e modalità che rimandano all’idealismo di un Fichte. Andrea Emo è questo, ma anche molto, molto di più. Di fronte alla inesorabile progressione di un pensiero Tecno Economico, in grado di annullare e vanificare qualsiasi narrazione o costrutto filosofico che dir si voglia, attraverso un principio di perenne auto contraddizione che ne caratterizza l’intima natura e grazie a cui, ad ogni innovazione tecno economica, se ne può tranquillamente sovrapporre un’altra più efficace in grado di invalidarne o vanificarne totalmente l’azione e la portata, se Heidegger risponde con la riscoperta della valenza creativa della linguistica (ed in particolare dell’affabulazione poetica) accompagnata all’idea dell’immediatezza dell’atto–eventuante o “Ereignis”, Andrea Emo riscopre invece la dimensione della contraddizione e dell’indefinitezza, sintetizzata dall’immagine iniziale di quel “Chaòs”, quale ipostasi di una Totalità in cui tutto è “in potenza” e che va necessariamente correlata ad un “Kosmos”, che del primo altri non è che la oggettivazione. Andrea Emo sembra pertanto voler ripercorrere la strada di chi, di fronte alla tragedia del dualismo occidentale che, a partire dal platonismo e, più incisivamente dalle sue dirette filiazioni neoplatoniche e gnostiche, ha fatto del mondo delle idee una sclerosi, nella veste di un vero e proprio pregiudizio culturale, in grado di inibire all’individuo la visione della realtà, ha deciso di addivenire a quell’operazione di necessaria sintesi in grado di accorpare in un “unicum”, Essere e Divenire, Idea e Realtà, ma anche e principalmente Essere e Nulla, donando a quest’ultimo una inaspettata valenza di principio primo. La sintesi emiana ripercorre un po’ il sentiero che fu dell’Essere Parmenideo, del Tao di Lu Tzu, del Brahman-Nirvana buddhista, dello Zen nipponico, dell’Essere di Meister Eckhart, dello spinoziano Deus sive natura e di tanti altri ancora…la sua particolarità consiste nel fatto che egli non si fa latore di maestose costruzioni filosofiche, né di innovazioni teologiche sebbene, parafrasando Malraux, affermerà che “L'età moderna o sarà nuovamente religiosa, o non sarà”. Vivendo la fine dell’ottimismo ideologico del Primo Novecento, Emo abbandona a sé stessi i grandi costrutti ideologici collettivisti, imperniati sul protagonismo di masse livellate ed accomunate da un medesimo sentire, come nel caso della religioni civiche degli Stati Totalitari, Comunismo in testa, ma anche quella dello Stato Etico del proprio maestro Gentile, verso cui il filosofo riserva dei velenosi strali. Lo stesso Cattolicesimo rientra nel novero di questi costrutti, nel ruolo di vero e proprio Leviatano spirituale. Ben lungi dall’essere paradigmaticamente definito, quello di Emo può essere definito un pensiero in itinere, in “transito”, dalle secche di una alienante Post Modernità, verso il “Chaos” delle infinite possibilità, di cui  il “Kosmos” rappresenta il dominio delle successive manifestazioni. Alla luce di quanto sin qui detto, Andrea Emo può, senza ombra di dubbio, essere annoverato tra quegli autori che, partendo inizialmente da alcune delle linee guida del pensiero occidentale, ne stravolgono successivamente le coordinate, per arrivare a conclusioni tali, da lasciare il neofita lettore in preda a quello stesso “thaùma/stupore”, a cui ci ha abituato, da secoli, l’Occidente e le sue contraddittorie vicissitudini. Nella sua prassi di pensatore, immerso nel proprio aristocratico distacco dal mondo, Andrea Emo si è a noi offerto quale mirabile esempio di libera individualità pensante che, slegata da tutti quegli accademismi e da quelle mafiette che rendono il nostrano clima culturale (e non solo quello, sic!) asfittico ed irrespirabile, è stata in grado di farsi “poietès”, creatrice ed artefice di un originale ed eterodosso percorso di pensiero.

 

                                    Dall'Umano al Post Umano

 

Sabato 14 del corrente mese, a Roma si è svolto “L’era del post-umano. Tecnica, Ideologia e Società nel XXI secolo”, un convegno avente per oggetto quel tormentato rapporto tra l’uomo e la tecnologia, con particolare riferimento alla possibilità di modificarne radicalmente l’attuale status antropologico, al fine di addivenire ad una vera e propria condizione “post” o “trans” umana che dir si voglia, ove le differenze tra sessi e, di conseguenza, di qualsiasi altra umana condizione, possa venir superata, equalizzata ed omologata nel nome di uno status di vita, strettamente interrelato con la tecnologia. E’ l’idea di un’umanità androgina, desessualizzata e deprivata di qualsiasi iato di appartenenza ad un “quid” identitario, che non sia il proprio egotistico piacere ed il tirannico esercizio di quei “diritti” che, oggidì non più adattati e contemperati, in un armonico equilibrio con la propria “koinè”/comunità e con quell’immenso e misterioso equilibrio che tutto in sé contiene e genera, quel “kosmos” o quella “natura naturans” che dir si voglia, dell’individuo hanno fatto una informe “massa desiderante”, drogata dai supporti  della Tecno Economia e perciò stesso incapace di reggere quel perenne confronto con l’imprevedibilità di un divenire cosmico che, dell’intera vicenda umana, rappresenta un po’ il sale. E’ su queste basi che si è sviluppato l’intero evento, con interventi di tono e portata differenti. Dall’ex “ideologo” del 5 Stelle, il professor Becchi, al filosofo francese De Benoist, passando al polemista d’Oltralpe Zemmour, passando via via attraverso gli interventi degli studiosi Barcellona e Fusaro e della stessa onorevole Ciprini, si sono via via compiute analisi e disamine molto interessanti per il proprio intrinseco valore “descrittivo”, ma poco pregnanti al fine di dare una più organica e completa risposta al problema. La stessa soluzione dal Becchi prospettata e condensata in un “principio di responsabilità” che, sulla falsariga di quanto scritto da Hans Jonas, dovrebbe essere incardinato ad un “ritorno” alla metafisica, presenta non pochi interrogativi, visto il fuoco di fila a cui l’idea stessa di “metafisica” è stata sottoposta negli ultimi tre secoli, anche e specialmente, da nomi del calibro di Nietzsche o di Heidegger. Il fatto è che, quello che ci troviamo di fronte, non è un problema di facile soluzione ed è facile incappare in strade senza uscita e binari morti di vario genere. E’ vero. L’ideologia “trans” o “post” umanista che dir si voglia, muove ufficialmente i suoi primi passi nell’America dei tormentati anni ’60. Gli studi scientifici sul genere sessuale e sulle sue deviazioni morfologiche, divengono presto materiale in base al quale il femminismo egualitario, promuoverà una lotta contro le convenzioni sociali, di genere, sesso, lingua e religione, al fine di veicolare la concezione di un mondo da tali pesi liberato, equalizzato e, perciò stesso reso felice nell’illimitato fruimento dei sensi. Tale concezione andrà, però, spingendosi oltre, postulando non solamente la liberazione della donna dalla presenza maschile ma, addirittura, la soppressione del rapporto eterosessuale visto solo come una riconferma della tanto aborrita ed evocata supremazia maschile. Il tutto accompagnato con le rivendicazioni alla parificazione di gay, trans, lesbiche e via dicendo, anche nel metter su famiglia. Questa impostazione “Gender” va al contempo innestandosi al principale “filone”, quello “transumanista” vero e proprio. Anche qui, a prima vista, sembrerebbe che quello del "transumanesimo" sia un termine coniato per la prima volta da J. Huxley (fratello del più noto utopista A. Huxley) nel 1957 in un senso che, l’aspirazione all’elevazione dell’umana condizione si sarebbe dovuta accompagnare sinergicamente alla scienza nelle sue molteplici applicazioni come biologia, genetica, etc… Huxley per “transumano” definirà, "l'uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana." In suo libro del 1974, invece, Joseph Fletcher , considerato uno tra i fondatori della cosiddetta “bioetica”, ha sostenuto l'idea di utilizzare la genetica e le altre scienze per migliorare la condizione umana, arrivando ad auspicare per i genitori o per lo stato, un potere di controllo sulle caratteristiche genetiche dei propri figli, al fine di indirizzarne ottimalmente l’attività futura. Senza contare la possibilità preconizzata di creare esseri “paraumani”, sorta di ibridi geneticamente modificati, costituiti da un mix di genoma umano ed animale, da utilizzare in ambiti lavorativi ad alto rischio e da produrre secondo le necessità economiche del momento. Il termine “transumano” trova poi la propria definitiva consacrazione ufficiale negli Stati Uniti, a partire dagli anni Ottanta, con un significato sempre più orientato ad un individualismo spinto, grazie all’opera di Natasha Vita More e del suo compagno Fereidoun M. Esfandiary. A detta di ricercatori e studiosi come Robin Hanson "Il “trans umanesimo” è l'idea secondo cui le nuove tecnologie probabilmente cambieranno il mondo nel prossimo secolo o due a tal punto che i nostri discendenti non saranno per molti aspetti 'umani'" mentre, per il filosofo britannico Max More, il “transumanesimo” altri non è che "una classe di filosofie che cercano di guidarci verso una condizione postumana", così come preconizzato anche dallo studioso italiano Roberto Marchesini. A dirla così, sembrerebbe che quella  del “transumanesimo” con tutti i suoi folli addentellati, altri non sia che il frutto di dell’esasperato delirio tecnicista che pervade l’attuale momento storico, nella veste di una specie di sfogo febbrile del pensiero contemporaneo, ma così non è. A parte le illuministiche suggestioni, rappresentate dall’ “uomo-macchina” di Hollbach e Lamettrie, a parte i richiami al mitteleuropeo Golem di meyrinkiana memoria,  l’aspirazione al superamento della condizione umana, è un sogno che viene da molto lontano e ci riporta a quella originale “ubris”che, connaturata al mito prometeico, dell’intera cultura occidentale è l’asse portante. La vicenda di Prometeo, al pari del viaggio di Odisseo o la stessa sfida intellettuale di Edipo alla Sfinge, sono tutti atti animati da un’unica irrefrenabile volontà: quella della conoscenza ed alfine del dominio di un Essere, la cui unica difesa all’agire umano, sembra essere il costante ed irrefrenabile fluire della casualità degli eventi. Pertanto l’intero agire dell’uomo occidentale, sin dagli albori della propria storia, nascendo con il precipuo intento di dominare le forze del “kosmos”,  porta in sé, implicito, un messaggio all’autosuperamento che, con l’irrompere della civiltà Tecno-Economica, dal 17° secolo in poi, ( e potremmo anche dire dalla Rinascenza in poi…sic!) va facendosi sempre più esplicito. All’arido enciclopedismo illuminista ed alle sue appendici positiviste, va contrapponendosi la filosofia della vita. Una vita che è energia e tutto permea di sé. L’uomo non è solo ed unica raziocinante, cartesiana “res cogitans”, l’uomo è irrazionale volontà, volta a levarlo dai più elementari bassifondi della vita alle più luminose vette dell’Essere, in un moto di gioiosa e costante ascesa, salvo poi ridiscendere e cambiare stato, natura, in un ciclico svolgersi di eventi. E siamo a Nietzsche, Bergson, Marinetti, D’Annunzio, Jung, VonUexkull, Heidegger ed altri ancora....il pensiero vitalista spinge l’uomo verso il proprio autosuperamento, sia in modo esplicito come per Nietzsche con il suo super/oltre uomo, o, ancor più, nel caso del Futurismo di Marinetti, volto ad esaltare un modello umano innervato e plasmato all’insegna di una multicolore e scintillante “Techne”, che, magari, in modo più implicito, come per Heidegger che, con il suo “ereignis/eventuarsi”, spinge l’uomo ad una contemporaneità di azione/pensiero che reca in sé lo iato a liberarsi da quel limitante fardello costituito da una natura umana, altrimenti legata alla distinta dualità dei due elementi. Autosuperamento sicuro…ma certamente non demenziale auto castrazione, né alienante perdita del sé…eppure anche in questa stessa rassicurante affermazione, c’è qualcosa di poco chiaro. Il problema è che il pensiero occidentale è costituito da una essenziale ambiguità di fondo. Tutta la vicenda occidentale, sin dai suoi primi esordi nella grecità pre-socratica, è rappresentata dalla spinta alla perenne auto contraddizione dei propri modelli o schemi di pensiero che dir si voglia. Una vicenda che, come abbiamo già precedentemente sottolineato, trova i propri esordi archetipici in un tutta una serie di motivi mitologici e particolarmente in quello prometeico, nei quali le luminose vicende dei vari eroi, finiscono con il tingersi di una luce ambigua, a causa di tutta una successiva serie di vicissitudini negative, pesantemente condizionate da un arcaico sortilegio divino. Tutto questo sembra trasferirsi nella pratica dell’esegesi o interpretazione del pensiero, in Occidente assurta a vera e propria prometeica “ars divinatoria”, in grado di portare quest’ultimo e le sue applicazioni dalle vette del sublime, alle sue più nefande conseguenze. Techne, lo strumento che doveva conferire all’umanità il dono della conoscenza e dell’armonia, si sta invece rivelando una trappola mortale. A testimoniarcelo, una volta di più, la contraddittoria vicenda dello sviluppo della Modernità e delle sue Avanguardie, le cui grandi enunciazioni scientifiche ed ideologiche, dall’Illuminismo al Positivismo, passando attraverso l’Evoluzionismo darwiniano, la psicanalisi di Freud, sino alla narrazione ideologica marxista, avrebbero sempre più, dovuto fare i conti con la crisi dell’unitarietà della coscienza occidentale, determinata dall’impeto di un inarrestabile Divenire Tecno Economico. Accanto a questo si sarebbe andata accompagnandosi quella già citata ventata di vitale irrazionalismo, che sembrava sparigliare le carte in tavola ad un mondo che nel proprio sviluppo, invece, avrebbe dovuto seguire una certa tabella di marcia. Così a contrapporsi sarebbero stati due modelli di Modernità, con i loro rispettivi correlati ideologici. Quella che sarebbe uscita da questo magmatico ribollire di idee ed istanze, sarebbe stata però, una società marcata dalla predominanza della sintesi tecno economica su tutto il resto. Al socialismo dei vari Proudhon, Sorel ed altri, si sarebbe opposto, vincente, il socialismo scientifico di Marx, Engels, Rosa Luxemburg e Lenin. All’idea vitalistica di evoluzione prefigurata da un Von Haeckel, si sarebbe opposto, vincente, l’evoluzionismo meccanicista di Darwin. Alla psicologia analitica di Jung, si sarebbe contrapposta, vincente, l’analitica delle più materialiste tra le scuole freudiane.  Quelle stesse avanguardie artistiche che, tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, si sarebbero poste sulla scia di questo pensiero e, nell’esperienza futurista in particolare, si sarebbero fatte portatrici di istanze di radicale rinnovamento della società, alla luce dei cambiamenti apportati dalla rapida evoluzione della scienza e della tecnica, avrebbero poi sconfinato nella materica incertezza del non-significato, rappresentato dall’arte astratta e dalle sue appendici. Alla spinta vitale del disegno filosofico nicciano, coniugata ad una prospettiva tutta incentrata sulla immediatezza della pulsionalità individuale, su quella “erlebnis”, che in autori come Dilthey, Simmel, Bergson, Jung , (ma anche nei neoprgamatici e neohegeliani alla Dewey o alla Gentile), si sarebbe costituita a mò di prospettiva primaria, intesa come spinta dell’individuo ad un’autorealizzazione in piena concomitanza con le istanze dell’intero corpo sociale, si sarebbe, invece, fatta avanti l’idea di uno sfrenato individualismo, volto ad introiettare qualunque segnale di sollecitazione proveniente dalla sfera tecno economica, sino a fare di quello stesso individuo, un anodino tubo digerente. Pertanto, ritornando a bomba sull’ambiguità di fondo della Techne, da noi inizialmente sottolineata, (e che ripetiamo,esser determinata dalla sua doppia natura di cieco strumento del diktat economicista, da una parte, e di veicolo principe per la realizzazione ed il passaggio dell’uomo all’auspicato stato di nicciana memoria di “oltreuomo”, dall’altra, sic!), la soluzione a questo nodo di Gordio, da cui dipende il destino dell’umanità, non può non passare se non attraverso un capovolgimento della prospettiva mezzo-fine, in cui la Tecno-Economia, ritorni ad essere un puro mezzo di fruimento, anziché un fine in grado di provocare una grave degenerazione della stessa prospettiva antropologica della razza umana. Ma anche qui, la soluzione non può che essere all’insegna di quella ontologica binarietà, tanto cara a quel sistema di pensiero che, in grazia di una definizione oramai assurta a natura di vera e propria “geografia filosofica”, noi oggidì definiamo “occidentale”, da “occidere-cadere” e pertanto in perenne Divenire. Da una parte il rifiuto totale della Tecno Economia, si et si, e dei suoi correlati ideologici rappresentati dai concetti di Evoluzione, Crescita, Progresso e via dicendo. Vecchia e facile suggestione della via della Conservazione ma che, nel suo facile evocare il ritorno a “Dio, Patria e Famiglia”, si dimentica di darci una definizione esaustiva di questi termini, in grado di scioglierne le contraddizioni e le insolubili antinomie. Dall’altra invece, il confronto con la Techne, il cavalcarne l’impeto, tornando a quelle radici vitaliste, che potrebbero finalmente spalancare le porte ad un’ “altra” Modernità. Una Modernità, questa sì figlia di una sicura prospettiva “Post Moderna” e non di una “Liquida” dissoluzione e che, nel nome di un nuovo Umanesimo possa finalmente coniugare Tecnica ed Umanità, Avanguardia e Conservazione, Essere e Divenire, in una nuova Sintesi epocale, in grado di connotare questo nuovo, incerto, millennio..

Unicamente umano? La nascita del pensiero in M. Tomasello

 

 

Nel mio girovagare tra librerie, mi è recentemente capitato tra le mani questo “Unicamente Umano/Storia naturale del pensiero”, scritto nientepopodimenoche dal condirettore del Max Planck Institute di Lipsia, corrispondente al nome di Michael Tomasello, antropologo e psicologo di scuola evoluzionista che, alla non facile questione della genesi del pensiero umano ha dedicato un’interessante disamina. Ad onor del vero, va detto che non è né la prima né l’ultima volta che la scienza si occupa di un problema le cui implicazioni sono enormi e spaziano da un ambito meramente scientifico ad uno più propriamente etico e filosofico, non senza, chiaramente, un risvolto religioso, poiché quella sull’origine del nostro modo di pensare costituisce l’aspetto principale, e direi quasi, assiale su cui poi va ad incardinarsi la domanda-principe riguardante l’origine dell’uomo e la sua provenienza. Un primo, istintuale impulso, ha già portato la scienza ad imprimere un approccio squisitamente fisiologico all’intera questione, andandone a ricercare la soluzione direttamente nell’ambito neurologico. Si è, per esempio, parlato dell’unicità dell’intrinseca asimmetria di funzioni, che solo il cervello umano possiederebbe, con una parte destra ed una sinistra intente a svolgere compiti differenti. Oggi sappiamo che questa asimmetria è addirittura presente nel “Caenorhabditis elegans”, un nematode vermiforme, la cui lunghezza non supera il millimetro. La questione della maggior dimensione del cervello umano, ed in particolare dei suoi lobi frontali rispetto a quella dei primati, è stata recentemente smentita da ricercatori come Robert Barton, dell’Università di Durham. La stessa scoperta di una varietà di cellule nervose dall’aspetto fusiforme, dette neuroni di Von Economo, che sarebbero presenti solo nel cervello umano, è stata smentita dal ritrovamento delle stesse nel cervello delle grandi scimmie ed in seguito, addirittura in quello di molte altre specie animali. Lo studioso Michael Tomasello si fa, invece, portatore di un’altra impostazione di matrice sicuramente più “strutturalista”. A detta di quest’ultimo, il pensiero umano assurge a quel livello di complessità e sofisticata elaborazione che gli è propria, grazie al complesso intreccio di interrelazioni con gli altri individui della propria specie che, nel corso dei millenni, partendo dalla veste di semplice relazione tra isolate individualità, passa poi  ad assumerne una di propellente, in grado di edificare e dar vita alle complesse architetture socio-economiche del genere umano. Nel fare questo, il Tomasello ci porta lungo un percorso vieppiù caratterizzato da un progressivo allargamento delle prospettive di relazione e delle modalità che ne contraddistinguono l’esistenza, declinato all’insegna di un’ottica evoluzionista, il cui comun denominatore è rappresentato da quella “intenzionalità” che, dell’intero excursus narrativo, costituisce l’elemento trainante. Quell’intenzionalità, è ciò che sovrintende ai complessi processi di ominazione e costituisce la vera chiave di volta per leggere ed interpretare un percorso che, dalla realtà di una semplice forma di percezione individuale, passa via via ad una forma di percezione duale, congiunta, sino ad allargarsi ad un’intera comunità di individui ed a creare norme, regole, convenzioni, pre-giudizi, tutti egualmente generati dal primevo ritornello logico dell’ “io so-che tu sai-che io so”, qui assurto a motivo trainante di quel percorso che fa dell’uomo uno “zoon politikòn”, in veste di vero e proprio animale sociale. E, nell’ottica del Tomasello, saranno proprio quello stare assieme, quell’agire in società, unicamente animati da ragioni legate ad un adattamento evolutivo causato da mutamenti climatici, che svilupperanno  l’umana intelligenza e null’altro. E qui possiamo ravvisare tutta la limitante portata di un’impostazione, parimenti espressione di un quanto mai datato pensiero evoluzionista e di un frettoloso e superficiale strutturalismo. Non è certo una novità che lo stare assieme, l’agire sinergicamente, nella specie umana, possa costituire un potente stimolo allo sviluppo delle capacità cognitive. Ma è altrettanto vero che, il ridurre l’intera vicenda della nascita del pensiero umano ad un fattore di pura meccanica sociale è quanto di più riduttivo si possa fare. E questo, perché a voler prendere per buona l’equazione del Tomasello e degli altri suoi accoliti neo evoluzionisti, la razza umana dovrebbe a pari merito dividere il dominio dell’orbe terracqueo con formiche, termiti, api, topi, castori, marmotte e simili, in quanto specie dotate di altrettante capacità di interazione sociale e comunicativa. Invece, guarda caso, a dominare il mondo, nel bene e nel male, con quella “Techne”, frutto di una plurimillenaria sedimentazione del proprio pensiero, è, in via del tutto esclusiva, il genere umano, senza se e senza ma. Come si può ben vedere, il problema non è di facile soluzione, né possono esser sufficienti risposte all’insegna di una fin troppo scontata e schematica unilinearità, così come accaduto nell’infinita querelle tra Evoluzionisti e Creazionisti, tanto per fare un esempio. Ad offrire un contributo decisivo all’inquadramento dell’intera “vexata quaestio”, è quella “teoria della complessità” che, assurta a nuova modalità di interpretazione della realtà ha fatto della interdisciplinarietà e della non linearità i propri assi portanti,  proprio in omaggio alle teorie di fine Ottocento, del fisico-matematico Henri Poincaré, seguito da una nutrita schiera di pensatori per lo più inizialmente provenienti dall’ambito della fisica e della matematica, tra cui, per citarne alcuni, P.W. Anderson, con il quale la fisica si affrancherà dal riduzionismo, Bertalanffy, per quel che attiene la sistemistica transdisciplinare, Kolmogorov  per la complessità algoritmica, sino ad arrivare ad Ilya Prigogine per quanto riguarda  i sistemi lontani dall’equilibrio ed all’arcinoto Edgar Morin che tenterà di operare una sistematizzazione razionale dell’intero sistema-pensiero “complesso”. Il termine "complesso", è lì a sottolinearci la completa insufficienza dell’ approccio analitico, di cui viene auspicata l'integrazione con un approccio sistemico. L’idea che un sistema “complesso” non possa essere compreso mediante la semplice analisi delle sue singole componenti richiede, pertanto, l'interazione tra quella stessa singola componente ed una visione d'insieme. È questo il senso compiuto di quella “epistemologia della complessità”,  teorizzata ed elaborata  da Edgar Morin a partire dai primi anni '70 del Novecento, da cui muoveranno tutti quegli studi scientifici che non vorranno prescindere da questa categoria e le cui applicazioni spazieranno dalla fisica all’economia, sino agli studi di “sociologia evolutiva” sui fenomeni di auto organizzazione nel rapporto tra i singoli organismi ed un insieme organico, supportati  da tutte quelle ricerche (come quelle di John Conway) tendenti a dimostrare come, poche regole fissate per un ridotto numero di individui, possano condurre a complesse evoluzioni, avvalendosi dell’informatica, attraverso la creazione e l’elaborazione di ambienti artificiali, quali i cosiddetti automi cellulari ed i sistemi adattivi complessi o CAS (complex adaptive systems), attraverso i quali studiare il comportamento di sistemi più vasti ed articolati, quali, nella fattispecie, quelli viventi. Questo filone di ricerca, ha dato un suo deciso contributo alla declinazione di concetti quali “auto-organizzazione”, “non linearità”, “eco-organizzazione” (termine caro a Bateson e Morin) e “comportamento emergente”, anche in alcuni ambiti della psicologia e della psicoanalisi. Di non secondaria importanza, il fatto che, da tutto ciò si vada prospettando una ricerca più approfondita sui meccanismi e sulle cause del passaggio dalla materia fisica inerte agli organismi viventi, prospettando, pertanto, una interdisciplinarietà, che non può assolutamente escludere l’antropologia e la questione-cardine dell’ominazione. Ed anche qui, in ossequio ad una sempre più presente linea di tendenza, ci si va rifacendo ad una tendenza “deviazionista” rispetto al tram-tram evoluzionista e neo evoluzionista. Partendo dalle riflessioni dell’anatomo patologo olandese del primo Novecento, Louis Bolk, su “fetalizzazione” e “neotenia” (frutto dei suoi studi sull’anatomia dei Primati e sull’osservazione della salamandra-girino messicana “axolotl”), vanno innestandosi tutta una serie di riflessioni di tipo antropologico e filosofico che, in autori come Scheler, Plessner, Gehlen, Heidegger, Solterdjik ed altri ancora, trovano i principali interpreti, partendo e sviluppando le primeve intuizioni  del pensiero irrazionalista e vitalista, sviluppate da autori come Herder, Schopenauer e Nietzsche. In questi ultimi due autori, in particolar modo, la riflessione è incentrata su una straripante volontà di vita che sovrintende all’agire dell’essere umano. A farla da padrona, è l’idea di un mondo come “Chaòs”, all’interno del quale solo volontà e capacità di adattamento la fanno da padrone, determinando una complessa relazione tra Essere ed Io, tutta incentrata sulla capacità di sopportare, ma anche di vivere appieno l’irrefrenabile ciclo degli eventi che, di questo “Chaòs-Mondo”, costituiscono lo svolgimento. Da questa iniziale visione, si passa, da parte di tutti i rappresentanti dell’antropologia filosofica, all’immagine di un uomo quale essere carente rispetto agli altri appartenenti al mondo animale, la cui infanzia prolungata, da conclamata debolezza finisce per farsi punto di forza estremo, stravolgendo il paradigma evoluzionista incentrato sull’idea di un progressivo adattamento e miglioramento delle specie viventi, unicamente determinato da stimoli ambientali. Quella stessa energia vitale che, di un essere indifeso, in veste di vera e propria “scimmia nuda”, fa un qualcuno in grado di rapportarsi in posizione dominante nei riguardi della realtà esterna, arriva a disvelarne i più oscuri recessi dell’anima, facendone in tal modo un vaso comunicante, aperto in egual modo su ambedue le dimensioni del microcosmo e del macrocosmo. L’uomo si fa così, “animal simbolicum”, in grado di sintetizzare e di rappresentare a sé stesso ed agli altri la realtà, così come essa si palesa in tutti i suoi aspetti e, pertanto, di modificarne risolutamente i parametri. Questo fa, tra l’altro dell’uomo l’unico essere vivente, in grado di possedere una spiccata coscienza del “sé”, e della propria, umana limitatezza. Un fatto questo, a cui fa da contraltare la coscienza dell’esistenza di un onnipresente non-limite, che tutto e nulla sembra permeare di sé. Sin dagli albori della propria apparizione, la specie umana nasce dotata di una doppia percezione dell’essere: una rivolta alla dimensione del “sé”; l’altra verso l’infinito. Ne sono testimoni sia i manufatti delle varie civiltà succedutesi nel corso della storia più antica, istoriati con fregi e simboli che riportano costantemente alla rappresentazione esteriore dei cosiddetti archetipi dell’inconscio che, addirittura, i ritrovamenti di micro-tumuli litici a fini prettamente cultuali, in certi casi risalenti a ben ottantamila anni fa, a distanza siderale, quindi, dalla nascita ufficiale della cosiddetta “civiltà”. E così, a dispetto delle facilonerie e delle frettolose generalizzazioni di una scienza troppe volte superficiale e mediatizzata, a trionfare è una visione “altra” del problema antropologico e delle sue implicazioni. All’insegna della oscura dimensione della “complessità”, si fa di nuovo strada un pensiero, la cui vicenda si credeva accantonata da consolatori ed illusori “soli dell’avvenire”. E’ la silenziosa rivincita dei pensatori vitalisti alla Vico, Goethe, Herder, Nietzsche, Schopenauer, Dilthey, Simmel, Bergson, Spengler, Husserl, Jung, Heidegger e di tanti altri ancora, che qualcuno si illudeva di relegare ai margini della storia e che, invece, sembra oggidì ritornare prepotentemente alla ribalta.

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