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Analisi politica

 

                         Lineamenti di storia, attualità, analisi metapolitica, antipolitica 

COMUNALI ANDO CO.

 

Uno strano fetore sembra levarsi in questi giorni di timida primavera, dalla nostra desolata penisola. Uno scalpiccio di passi, uno smuoversi di corpi, di ansie, di istinti tra i più bassi, sembrano scuotere una cospicua fetta di popolazione. “Ma sì, vai, candidati pure tu! Buttati nella mischia, cosa aspetti? E poi, se ti eleggono, sai quanto guadagni….”. Questi ed altri simili pensieri agitano e turbano le coscienze del popolo dei “poltronari”, cioè quella categoria  che, tra una giravolta e l’altra, di “politica”, specie di questi menagrami tempi, proprio non può farne a meno, anzi proprio ci campa. Loro spingono, si agitano, dibattono, solo su chi avrà diritto ad occupare la fatidica “poltrona”. Poi ci sono quelli che dicono di essere più bravi degli altri; arroganti, spocchiosi e supponenti costoro si ammantano di un fetido e liso “neofrancescanesimo”. Sono quelli che dicono di voler rinunciare a gran parte degli emolumenti di loro spettanza ed altre simili amenità, in nome di un parossistico arrivismo i cui ritmi e limiti sono unicamente regolati dalla rete e dagli oscuri comitati d’affari che la controllano. Sono i più pericolosi, proprio perché dietro l’aria di candore ed innocenza che si portano appresso, costoro  celano l’idea di uno spietato asservimento ai dogmi ed alle parole d’ordine del guru del momento. E poi ci sono loro, gli immarcescibili riciclati, coloro che, alla poltrona proprio ci hanno preso gusto e, nonostante sfondoni, errori e schifezze varie, collezionate in gran numero durante anni di onorata carriera politica, di lasciare non vogliono proprio saperne, anzi, rilanciano al tavolo da giuoco, nella speranza di poter nuovamente rimediare l’asso pigliatutto del consenso totale che, tanta ebbrezza ha saputo dare a vite, altrimenti,vuote ed insignificanti. Un esercito di inetti, incompetenti, corrotti sta muovendo all’assalto delle nostre povere città. Parole pesanti come macigni, slogan e banalità pre elettorali, vengono vomitati con l’impeto di una macchinetta di pop corn, lasciando troppo spesso inebetiti, confusi e spaesati i malcapitati elettori. Intanto, tutte le nostre città (senza eccezione) sempre più cascano a pezzi. Roma, una tra le più belle città del mondo, costituisce un lampante esempio di quanto sin qui detto. Da gioiello e faro di civiltà, a fogna otturata da un caotico traffico urbano, invasa da turme di cenciosi profittatori stranieri che, con la scusa dell’indigenza vivono ai margini della legalità, bypassando quelle regole che, invece, per gli italiani vengono fatte valere, senza troppe storie. Ma Roma è anche strade che cascano a pezzi, illuminazione spenta sulle grandi reti stradali a scorrimento veloce, sporcizia, monumenti danneggiati da orde di turisti straccioni e tanta, ma tanta, demenziale incompetenza, espressa a profusione  dalle varie amministrazioni comunali, di  “sinistra” o di “destra”, succedutesi nel tempo alla guida della Città Eterna. Difatti, se le amministrazioni Rutelli e Veltroni, altro non hanno fatto che aumentare il debito dell’amministrazione comunale, attraverso disastrose politiche gestionali della “res publica”, la destra alemanniana, al proprio esordio per quanto atteneva il Campidoglio, ha inferto a Roma un colpo di non poco conto, con le varie storielle di Mafia Capitale. In questo contesto, l’immobilismo della successiva giunta Marino, ha rappresentato la fase terminale della lunga discesa verso il degrado della Capitale. Ad oggi, di tutti gli aspiranti a vario titolo, a sindaci, pro sindaci, consiglieri e consigliori, nessuno si è mai sinora fatto latore di proposte concrete che tocchino da vicino la qualità di vita dei romani, se non attraverso fumose e generiche parole d’ordine, lasciate passare per “proposte”. Il tutto condito da tanta, troppa presuntuosa incompetenza, da maestrini d’accatto. L’Italia intanto, continua a sprofondare in una crisi, dalla quale sembra non esserci uscita, nonostante le belle e vuote parole del nostro non eletto Premier. Ma, se è vero che non tutto il male viene per nuocere, allora dobbiamo auspicarci che l’endemico protrarsi di questa crisi, costituisca un potente stimolo in grado di riattivare quelle difese immunitarie, espresse dalla capacità di tradurre una collettiva presa di coscienza in fatti politici, al fine di imprimere un radicale cambio di rotta, all’andazzo di un paese, oramai allo sbando.

                                                                                                 

 

A CHI GIOVA L’INVASIONE? LA RESA DEI CONTI

 

Il tema delle ondate umane di profughi e della redistribuzione di questi tra gli stati della cosiddetta Unione Europea, sta monopolizzando un dibattito pubblico caratterizzato dal solito peloso buonismo d’accatto da un lato e dall’altro da una serie di istanze in senso contrario, ambedue accomunate da una costitutiva mancanza di analisi politica di fondo e pertanto destinate a portare al vicolo senza uscita dell’inazione e della stasi e quindi della non-risoluzione del problema. Da più parti nel sentir parlare di  “fenomeno epocale” e della sua presunta ineluttabilità, al pari di fantomatiche “risposte europee” ed altre simili scipitaggini, sembra si voglia volutamente evitare di andare al cuore di un problema, esorcizzato da parole d’ordine e slogan ammantati di una genericità e banalità senza fine. Alcune sere fa, assistendo ad un dibattito televisivo sul problema, il solito Gino Strada di Emergency, con un’aria seriosa e contrita, dava voce ai propri bei sentimenti di solidale indignazione senza, pur tuttavia, riuscire ad andare al cuore del problema, in questo affiancato dalle seriose analisi dell’immarcescente Paolo Mieli. Il tocco finale è poi spettato al Ministro degli Esteri Gentiloni che, “more veltroniano”, nel fare sfoggio di tutta una serie di elucubrazioni all’insegna di tutto e del suo perfetto contrario (“l’Italia è il primo referente della comunità internazionale in Libia e nel Vicino Oriente”, ma poi poco importa se anglo-francesi e crucchi si riuniscono a porte chiuse, per decidere in merito, senza invitarci e via dicendo, con altre simili uscite…sic!) ha pienamente riconfermato questa sensazione. Stessa solfa sull’ “altro” versante dove, la pretesa di dar voce alla pancia della gente, attraverso reportage e dirette nelle varie aree del disagio metropolitano, viene diluita ed annacquata da quanto mai inopportuni e confusi “distinguo”. Gli interventi pubblici di coloro che, oggidì, rappresentano le voci più rilevanti dal punto di vista mediatico dell’opposizione istituzionale, ricadono tutti nel solito vizio di una genericità senza vie di sbocco. Il sostenere che quelli dell’Isis sono dei cattivacci o che la presenza degli immigrati-invasori nei quartieri delle nostre città può arrecare non pochi fastidi ai residenti o che sia stato un errore sostenere le “primavere” arabe o che bisognerebbe dare un incipit ad un quanto mai vago “qualcosa di più” a livello nazionale e/o internazionale, tutto all’insegna dei soliti ed immancabili “buoni sentimenti”, tutto questo, voi capirete, non può bastare, poiché non coglie nel segno di quella che è l’essenza del problema. Un problema chiamato liberismo, la cui pretesa è quella di impestare di sé l’intero orbe terracqueo, attraverso quel plurisecolare processo chiamato “Globalizzazione” che, negli ultimi vent’anni ha subito un’esponenziale accelerazione. Il liberismo si accompagna all’idea base dell’assoluta supremazia dell’economia sull’etica e sulla politica nel nome di un profitto determinato dalla perfetta interazione tra Tecnica ed Economia. Per potersi perpetuare il liberismo deve generare profitto in scala esponenziale, attraverso un perverso meccanismo nel nome del quale immense masse di sfruttati vengono immesse in un circuito costituito dalla seguente equazione: il lavoro a basso costo genera un plusvalore di profitto che va progressivamente riducendosi con l’aumento della capacità di reddito (e di consumo) delle masse, a loro volta sollecitate dalle suggestioni al consumo da parte di un mercato che veicola le istanze dei diritti di queste ultime (attraverso politiche salariali, strumenti previdenziali, etc .) proprio al fine di massimizzare utili e profitto nel minor tempo possibile. A questo punto, però, perché tale range di plusvalore possa continuare a perpetuarsi, sarà necessario immettere nuove masse da sfruttare, scartando ed eliminando dal processo produttivo quelle precedentemente immesse. Viceversa, si verrebbe a determinare una situazione di equilibrio tra redditi da lavoro dipendente e profitti d’impresa, tutto a beneficio di una comunità a forte radicamento territoriale, ma a totale detrimento di un meccanismo volto a realizzare esponenzialmente quel plusvalore di utili che, per realizzarsi, necessita, giuocoforza, di una progressiva deterritorializzazione e delocalizzazione, che, a sua volta, prende le mosse dalla (sinora…sic!) illimitata ed irrefrenabile espansione del pensiero Tecno Economico a livello globale. Il momento-cardine di tale processo è la virtualizzazione dell’economia reale attraverso alcuni strumenti offerti dall’economia finanziaria, quali quelli rappresentati dall’emissione valutaria da parte di istituzioni bancarie private, tutta a carico del detentore del titolo (moneta-debito, signoraggio), priva di valori di riferimento, accompagnata dall’immissione sul mercato di strumenti finanziari altrettanto privi di connessione con l’economia reale (quali i junk bonds o i cosiddetti fondi “sovrani”), troppo spesso alla base delle recenti crisi globali dei mercati. L’emissione di titoli cartacei virtuali, privi di alcun valore di riferimento con l’economia reale, è, pertanto, la caratteristica pregnante di questa nuova fase liberista della Globalizzazione. Il secondo strumento, dalla doppia natura geopolitica e geoeconomica, è rappresentato dalla presenza sul proscenio internazionale, di una potenza dominante, gli USA, contornata dalla presenza concentrica di Stati-satellite (anglo-francesi innanzitutto, seguiti a gran distanza da Germania, Giappone e compagnia bella), affiancata da una serie di organismi sovranazionali quali FMI, ONU, UE, tutti egualmente accomunati nel ruolo di meri esecutori e coordinatori giuridico-istituzionali delle linee-guida del pensiero liberista globale. Accanto a queste realtà geoeconomiche, ve ne sono altre, rappresentate dalle cosiddette “economie emergenti”, (Cina, India, Brasile, Sud Africa, Malaysia, etc.) che, nell’apparente ruolo di contraltare allo strapotere USA, svolgono in verità il ruolo vitale di valvole di sfogo per il surplus di esportazioni occidentali che, nell’ambito del continuo moto di riassestamento tra import ed export, aumentano l’interdipendenza economico finanziaria tra le varie economie mondiali che, a loro volta, finiscono con il dipendere tutte dalle vicissitudini e dalle umoralità di un mercato sempre più globale e deterritorializzato. Lasciando da parte il sin troppo evidente caso della Grecia, quello della Cina, sinora considerato una specie di gigante immune da crisi o recessioni è, a tal proposito, ancor più eloquente e non lascia più dubbi in proposito. Il ciclo economico iperliberista si alimenta di crisi, senza le quali finirebbe per implodere. Secondo poi, al di sopra dei vari protagonisti diciamo così “istituzionali” (Stati, soggetti economici, istituzioni sovranazionali, etc.), vi è un livello “occulto”, rappresentato dai vari consessi di tipo lobbistico, attorno a cui si riuniscono coloro che tirano le fila di questo complesso meccanismo o, quanto meno, vi rivestono un ruolo di prim’ordine. Trilateral Commission, Club Bildberg e via dicendo, sono i nomi degli organismi che, in modo più o meno occulto, rappresentano e portano avanti certe linee direttrici. Sino ad ora, si era deciso che l’equilibrio post bellico nell’ Europa Occidentale fosse mantenuto in modo “soft”, attraverso un’occupazione più incentrata su un pressing di tipo politico-culturale, che non su repentini e traumatici stravolgimenti socio-economici. Se il colossale prestito-ponte degli anni ’40 chiamato “Piano Marshall” servirà a ridare fiato alle economie più industrializzate d’Europa ed a riattivare l’interscambio commerciale USA che languiva a causa degli eventi bellici e che, a quel tempo, non aveva altri principali partners protagonisti che non fossero Europa, Giappone e pochi altri. La progressiva apertura dei mercati di mezzo mondo al modello capitalista occidentale, verificatasi nell’arco degli ultimi cinquant’anni,ha determinato la fine o quanto meno lo sminuimento di ruolo geo economico di un’Europa rimasta al chiodo rispetto allo strapotere USA ed alle lobby che ne orientano le scelte. Punto secondo la fine del bipolarismo USA-URSS, ha conferito un’accelerazione in tutti i sensi a questo processo di trasformazione del ciclo economico dal taylorismo fordista ad un ciclo marcatamente iperliberista. In virtù di questo scenario, la potenza USA ha incentrato la propria azione su tre direttrici. Primo. Isolare e castrare definitivamente la Federazione Russa, cercando di estendere la propria influenza sulle regioni a ridosso delle sue frontiere, come nel caso dell’ Ucraina. Secondo. Fare dell’intera regione mediorientale, una dependance a gestione israelo-saudita, spazzandone via qualunque residua parvenza o forma di autonomia politica e cercando di togliere il tappeto dai piedi di Russia ed Iran, grandi “competitors” geostrategici della regione, come nel caso della vicenda siriana e libica, a qualunque costo. Questo, al fine di avere un diritto di prelazione nell’accaparramento delle risorse petrolifere della regione (saudite in particolare). Terzo. Umiliata, angariata, vilipesa, l’Europa resta però sempre una delle locomotive dell’economia mondiale. La recente frenata recessiva che ha coinvolto realtà come la Cina, ha lasciato, a detta di certe statistiche, il volume dell’interscambio commerciale globale, in mano ad USA ed Unione Europea. Un dato questo, che riconferma il fatto che il Vecchio Continente, a tutt’ oggi, rappresenta un elemento di riferimento non secondario per gli equilibri mondiali. Per questo, la “gestione” delle cose europee da parte delle varie lobbies e potentati globalisti si è fatta molto meno “soft” che non in passato. Questo processo passa attraverso la sostituzione di politici sgraditi o “scaduti”, con elementi facenti parte di istituzioni finanziarie internazionali, direttamente imposti senza passare attraverso elezioni, (come nell’italico caso del governo Monti e dell’attuale governo Renzi), oppure con la riconferma della assoluta fedeltà ai “desiderata” dei poteri forti, attraverso la codina attuazione di politiche e provvedimenti in tal senso, anche se profondamente ingiusti ed antipopolari, così come accade nella stramaggioranza dei paesi dell’eurozona, Grecia di Tsipras e Germania merkeliana in primis, tanto per fare due esempi arcinoti.Tra quei provvedimenti ingiusti ed impopolari a cui abbiamo appena accennato, spicca e primeggia la politica delle porte aperte verso l’invasione migratoria. Con la scusa delle attuali guerre nello scenario vicino-orientale (Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, etc.) e delle varie “primavere” arabe, i governi occidentali, in piena connivenza con i Poteri Forti, stanno aprendo le porte all’accesso indiscriminato a tutti coloro che si presentano a piedi, a bordo di imbarcazioni di fortuna o quant’altro, l’importante che siano cittadini extraeuropei. Si parla di centinaia di migliaia di arrivi. Ai più potrà sembrare strano, ma la Germania merkeliana ha, di sottecchi, preso la decisione di prendere a bordo tutta quell’immigrazione costituita da rappresentanti della middle class siriana e cioè avvocati, insegnanti, etc., rigettando il resto. Perché? Ma è chiaro. In tal modo si accelera in modo esponenziale quel piano di sovrapposizione etnica e di classe, in grado di sostituire non solo i lavoratori dipendenti, ma anche il ceto intellettuale con una classe amorfa ed inebetita dalle facili illusioni del sogno occidentale, molto più facilmente manovrabile e sfruttabile e tutto questo con buona pace dei fondamentali diritti al lavoro, all’identità ed alla dignità della vita. I Poteri Forti e cioè i soliti Bildberg, Trilateral e compagnia bella, hanno deciso di tirare definitivamente i cordoni del sacco per l’Europa. Il tempo delle mediazioni e del tirare a campare è finito. Per chi comanda, ma anche per chi a tale potere si vuole contrapporre. Per vincere la battaglia della sopravvivenza politica, economica, etnica e culturale, dalle ceneri della destra e della sinistra dovrà sorgere una volontà di vita e potenza spontanea, vitale, in grado di tradurre le proprie istanze in fatti politici definitivi, radicali, senza recedere, con determinazione o, statene pur certi, il nuovo millennio assisterà al definitivo annichilamento dell’Europa e del resto del mondo, sotto il peso di un degrado politico, economico ed ambientale senza fine.

 

STUPRI IN SALSA GLOBALE

 

Certo, il nuovo modello globale, imperniato sulla tanto magnificata ed osannata apertura dei mercati, sull’incontrastato ed amorevole dominio USA sul mondo (l’altro giorno ribadito con altrettanto amorevole arroganza da Mr. Obama, davanti alle tv di tutto il mondo, sic!), su solidarismo e buonismo distribuiti a volontà, può offrire delle inusitate ed inaspettate “uscite” da parte dei suoi ipocriti e melensi cantori. E’ dall’inizio del nuovo anno che l’intera Europa si è risvegliata, sconvolta da un altro, fra i fin troppi, spiacevole episodio di violenza. In preda all’euforia per i festeggiamenti di fine d’anno, nell’accogliente e buonista Germania merkeliana, turme di poveri cocchi tutti, guarda caso, appartenenti alla beata schiera degli immigrati-vittime-rifugiati-richiedenti asilo, si sono “ un po’ ” lasciati andare, scatenandosi in abusi e violenze di tutti i tipi contro tante ignare, giovani germaniche, ingenerando, logicamente, un’ondata di indignazione e sollevando leciti dubbi sul futuro del melting pot in Europa. E qui viene il bello. Le esangui forze di un progressismo radical-chic da operetta, di meglio non hanno saputo fare se non portare avanti un goffo e squallido tentativo di giustificare questi begli episodi. A partire dai nostrani begli esempi, offerti dalle vignette idiote di un Vauro, è stato tutto un “ma poverini, ora perché lo hanno fatto loro…ma anche gli italiani o gli altri europei stuprano…e poi questi sono “ragazzi”, vittime degli orrori della guerra, vengono da una cultura in cui tutte sono velate” e, conclusione logica, di fronte alla vista di tanta bionda gnocca a volto (e magari anche cosce) scoperte, i poverini no, non potevano resistere, pertanto bisogna capirli….e via discorrendo, in un continuo sminuire, rimuovere, giustificare, all’insegna di una cecità senza pari nella storia occidentale….E sì, perché se non lo si è capito, quello degli stupri non è solo uno squallido ed odioso, ma isolato, episodio di teppismo, ma rappresenta ben altro. Come tutte le invasioni che si rispettino, anche quella attuale, operata e programmata con il concorso dei vari rappresentanti dei Poteri Forti del Globalismo (Trilateral, Bilderberg, B’Nai Brith, Chiesa Catto-Gesuitica, Massonerie varie, ONG, etc.) e che oggidì, eufemisticamente, riceve il nome di “immigrazione”, conosce varie fasi. La prima è quella dell’arrivo alla spicciolata, in modo quasi anonimo, incoraggiata e foraggiata dal complice silenzio dei media che, del fenomeno, danno una descrizione di fattispecie costitutiva di una Post Modernità, in cui gli annoiati lavoratori nostrani si “godono” la new economy dei servizi mentre, i meno esigenti “migrantes” si cuccano quei rozzi e squalificanti lavori che lorsignori, a detta di questa narrazione, non vogliono più svolgere. La seconda fase è quella dell’arrivo di masse di improvvisati “profughi”, a piedi, in treno o a bordo di improvvisati natanti. Ora, per tutti costoro deve valere  il piagnisteo, il compatimento, lo sdilinquimento senza se e senza ma, perché qui inizia la parte forte del piano, in virtù del quale, i ben più docili e meno esigenti stranieri, debbono essere insediati a tutti costi, nei posti ora occupati dai lavoratori autoctoni, così da poter “sic et simpliciter” sostituire e rimuovere costoro, a causa delle loro “eccessive” ed esigenti rivendicazioni, in un’ottica di sfruttamento indiscriminato delle risorse umane. Per cui quel che un autoctono ti fa con dieci, uno straniero te lo fa con uno-due. Una splendida occasione di “crescita”, complimenti! La terza fase passa attraverso il calpestamento, lo sdiminuimento, il disprezzo, per quei popoli che ospitano gli immigrati, di cui bisogna intimidire e fiaccare in ogni modo individualità, identità e volontà. E lo stupro, di questa volontà, rappresenta il momento “clou”, l’espressione più viva, la peggior forma di umiliazione e sottomissione che si possa propinare a popoli deboli, debosciati da decenni di nauseante propaganda democratica e buonista. E’ in atto il silenzioso genocidio dell’Europa e degli europei, ma anche di tutti coloro che, in qualche modo, si oppongono al piano di assimilazione globale messo in atto da “Lor Signori”, tra le calde mura di qualche vellutato appartamento di Manhattan, Londra o Tel Aviv. Iran, Russia, Libano, Palestina, ma anche Corea del Nord, Venezuela, Ecuador, Bielorussia e tanti altri, sono in cima ad una “black list” a conduzione angloamericana, che non tollera divergenze di sorta. Per questo la carogna usuraia ed imperialista, si inventa guerre contro califfati teleguidati da Sauditi, Turchi, Israeliani e compagnia bella. Per questo, Renzi ci parla di evasione fiscale, mentre permette ai colossi nordamericani dell’informatica di evadere il fisco italiano per miliardi e miliardi di Euro, oppure ci dice in diretta tv che la FIAT pre Marchionne, italiana nostrana e di sicuro prestigio internazionale, non lo convinceva, meglio l’anonimo colosso a conduzione globalista di adesso. Meglio il predominio dei pochi sui molti. Meglio la prepotenza, che l’equilibrio e la giustizia. Meglio l’arricchimento di pochi, a detrimento del benessere dei molti. Meglio una nazione governata da pochi raccomandati, in cui il Parlamento sia ridotto ad una specie di ristretto salotto da tè ed il Senato ad una specie di ridicolo parlatoio, senza funzione alcuna. Stupri, invasioni, miseria. Questo è la democrazia capitalista occidentale, che oggidì si vuole magnificare, quale esempio di universale tolleranza e libertà. Questo è anche il suo popolo-gregge che, dopo le stragi fatte dai soliti stranierottoli al servizio di Cia e Sauditi, accende le candele e fa le preghierine, anziché prendere le armi in pugno e scatenare un’insurrezione. Questo è ancora il suo popolo-gregge che, intontito da droga, birra, house music, non riesce neanche a spazzare via a calci dalle proprie città, quattro sub umani stranieri che, privi di qualunque dignità, si sono ridotti a piatire sesso nelle più squalificante delle modalità, quella dello stupro, con il codino consenso dell’imbecille e del venduto di turno. Ma, nonostante la gravità di questi eventi, non tutto sembra essere perduto. Scendendo al livello della più immediata fattibilità, sembra che il non eletto governo di Matteo Renzi, stavolta abbia commesso un errore di strategia. Il voler sottoporre a referendum popolare le proprie “riforme”, sebbene frutto di un preciso calcolo, potrebbe rappresentare per l’attuale Presidente del Consiglio, un notevole azzardo politico. Anche se dubitiamo fortemente che, nonostante le assicurazioni in tal senso, di fronte ad un esito politico negativo del quesito, il Matteo nazionale si dimetterebbe, certo l’immagine politica ed il consenso di cui il nostro gode adesso, ne risulterebbero fortemente compromessi. Per questo, oggi più che mai, è necessario mobilitarsi e partecipare al quesito referendario. Far saltare la riforma Renzi costituirebbe un primo, ma importantissimo segnale di inversione di tendenza, rispetto ai desiderata dei Poteri Forti. Il sogno perverso di fare del nostro paese, una repubblica oligarchica capitalista, subirebbe uno stop tale, da rimandare un altro tentativo in tal senso, a tempi molto più lunghi. Una attiva partecipazione al quesito referendario poi, costituirebbe il miglior viatico per dare inizio all’elaborazione ed all’organizzazione di una vera e propria prassi di democrazia diretta che vedrebbe, quando richiesto, la possibilità di sottoporre alla decisione popolare le decisioni più importanti in materia politica o economica, anche in senso propositivo. Uno strumento questo che, giova bene ricordarlo, non può essere valido per tutte le questioni attinenti alla vita di un paese, bensì unicamente per quanto attiene a scelte strategiche di rilievo, altrimenti, va da sé, attraverso il continuo ricorso al voto popolare, si creerebbe un vero e proprio conflitto di competenze con l’istituto della rappresentanza politica, generando la paralisi senza uscita, della vita di un paese. Quella di una democrazia diretta impostata “ad hoc”, rappresenta ad oggi, pertanto, l’unico strumento in grado di offrire una risposta decisa ai piani delle grandi concentrazioni di potere economico-finanziario internazionali ed ai loro lacchè. Sta solo a noi, quindi, cogliere l’occasione della sfida lanciata dal governo Renzi, per dare inizio ad un decisivo cambio di scenario.                                        

Le nuove prospettive della politica nazionale:

un manifesto  

 

 

 

Sembra che qualcosa stia finalmente muovendosi nel tormentato ambito della politica nostrana. Partito inizialmente come sussurro, sensazione, relegato nell’ambito dell’indicibile, è andato via via facendosi strada in un’opinione pubblica intorpidita da decenni di buonismo e politically correct e che, ora, dopo carrettate di delusioni, sta finalmente emergendo prepotente. Stavolta la gente non ne può più. Per davvero. Se inizialmente le istanze di cambiamento e rinnovamento della società italiana erano state affidate a movimenti e partiti dei quali per molti, troppi anni, si sono tollerati bizze, incertezze, giri di valzer, ed infine, clamorosi insuccessi, ora le cose sono cambiate, perché hanno preso un’altra piega. Ora la crisi picchia duro, chiudono fabbriche, attività, imprese. La gente si è trovata, da un giorno all’altro, depauperata del proprio futuro, “esodata”. Belle parole, intenti roboanti e gossip politico mondani, si sono alfine rivelati fuffa, di destra o di sinistra. La lunga via del declino, iniziata verso la metà degli anni novanta in tutto l’Occidente ed a cui le nostre classi politiche non hanno saputo dare alcuna risposta valida e concreta, ora presenta il proprio, inesorabile conto. Di fronte ad un quadro così compromesso, anche gli schieramenti politici hanno cominciato ad andare in fibrillazione. Le ultime elezioni europee, per esempio, hanno visto la considerevole avanzata dei vari partiti populisti europei, Front National francese in testa. In Italia, in un quadro sufficientemente logorato dall’annoso ed inutile confronto tra i due simil blocchi liberal progressista e/o conservatore, tutto incentrato sulla figura di Berlusconi, si era andata prefigurando una nuova forma di opposizione trasversale, incentrata sulla pratica della democrazia diretta via web, in questo caso portata avanti dal Movimento 5 Stelle, all’insegna del carisma dei vari Beppe Grillo e Casaleggio. Ben presto, però, quella che sembrava rappresentare una novità dirompente nel quadro politico nostrano, ha finito con l’avvitarsi attorno a contrasti interni e contraddizioni varie, determinate dal non avere questo movimento, alcuna precisa identità, culturale, programmatica o ideologica che dir si voglia. Fattori, questi, amplificati dall’aver voluto incentrare tutto sull’umorale personalità di Grillo. Siamo così all’assurdo di un paese, fino a poco tempo fa, all’avanguardia nella prassi e nell’elaborazione ideologica, ora ridotto ad una posizione di retroguardia e controtendenza rispetto al resto d’Europa, con un Matteo Renzi, leader di uno dei due blocchi politici italiani responsabili dello stallo del nostro paese, eletto con percentuali quasi bulgare. Tutto questo, nonostante la pluridecennale istanza di un cambiamento trasversale che attraversa l’intera società italiana e che ha avuto in vari movimenti (Grillo per ultimo…) i propri vari ed insoddisfacenti interpreti. Questo si è potuto verificare grazie al fatto che, da parte delle varie formazioni dell’antagonismo nostrano, ( a destra come a sinistra) non si è mai voluto veramente fare i conti con le proprie pesanti eredità ideologiche, operando quel necessario “varco del Rubicone” , consistente nel saper riconiugare e rimodulare le proprie istanze, in conformità ai nuovi scenari, senza per questo rinnegare il passato, attraverso clamorose giravolte politico ideologiche. La fine del vecchio equilibrio bipolare ed il conclamato fallimento del dogmatismo ideologico marxista, hanno portato alla tendenza all’omologazione a livello planetario al modello occidentale liberal-liberista. Questo fenomeno non ha però portato, come taluni invece auspicavano, alla fine dell’antagonismo ed alla ribellione ad un ingiusto status quo; con il tempo le vecchie narrazioni ideologiche occidentali, sono sempre più andate riversando le proprie istanze di ribellione nelle varie formazioni populiste europee, all’insegna di due inediti principi, (sino a poco tempo fa, sottaciuti perché considerati alla stregua di logiche conseguenze di quelle grandi narrazioni…): sovranità ed identità. In Italia sembra ora stia accadendo la stessa cosa: la Lega, il primo movimento di protesta trasversale dell’era post bipolare, inizialmente nata con quella connotazione di forte radicamento territoriale e regionale (che di tale caratteristica ha fatto il proprio punto di forza e debolezza), con la nuova “gestione” di Matteo Salvini, ha iniziato ad/sembra intraprendere un percorso di cambiamento del proprio genoma politico, passando dal regionalismo e dal secessionismo, ad una forma di nazionalismo “altro”, quasi a volersi appaiare alle coordinate politiche del Front National francese. Anche in questo frangente, l’Italia presenta una propria inalienabile peculiarità, laddove nel resto d’Europa gran parte dei populismi si sono sviluppati da formazioni partitiche a radicamento nazionalitario, qui invece al nazionalismo ed al populismo si arriva attraverso un percorso che parte da forme di aggregazione politica micro comunitaria, nella fattispecie del regionalismo (Liga Veneta, Lega Nord, etc.). E questo, proprio perché un paese come il nostro, interessato da una plurisecolare storia di divisioni, lacerazioni e campanilismi d’ogni genere e specie, di fronte alle spinte della Globalizzazione, sentiva la cogente necessità di rifondare la propria coscienza nazionale, anzitutto rafforzando il proprio genoma regionale e micro comunitario. Tutto questo, al contrario di quello che avrebbero dovuto fare quelle formazioni che si dicevano ispirate al nazionalismo più spinto, rappresentate dal vecchio MSI e dai suoi epigoni di AN, ma anche dalle rimanenti formazioni d’ “Area”. Abbiamo precedentemente detto che qui, a farla da padrone, è stato il non aver saputo mai fare i conti con il convitato di pietra, rappresentato dall’esperienza del Ventennio. Per cui, nel nome di un confuso ed abusato senso del “sociale” si è finito per lo scadere in derive ideologiche e settarie astratte, mentre i settori più “istituzionali” dell’Area,  nell’intraprendere il vicolo cieco della deriva liberal, finivano con il farsi introiettare dalle formazioni di governo come Forza Italia ed NCD, perdendo in tal modo, qualsiasi peso specifico a livello di impostazione politica. Le dinamiche della Globalizzazione hanno oggidì impresso agli eventi ed alle situazioni una velocità precedentemente impensabile, determinando uno stato di crisi permanente, da cui oggi non si può uscire se non attraverso due ben definite parole d’ordine: Sovranità ed Identità, a cui non può non fare da logica appendice ideologica quella di Socialità. La Lega nel cercare di assumere la valenza di movimento identitario e sovranista a livello nazionale, potrebbe finire con il divenire il catalizzatore in grado di convogliare al proprio interno, le più disparate istanze di quell’antagonismo, da troppo tempo più frazionato e diviso che mai. Pertanto, mai come oggi, di fronte al sopravanzare di una crisi che, senza pietà, distrugge certezze, identità, economie, posti di lavoro, avendo come strumenti per tale scopo, organismi sovranazionali che ingabbiano i popoli, attraverso asfissianti logiche burocratico-finanziarie, si è sentita la necessità della presenza di un forte movimento identitario e sovranista, lontano da qualunque suggestione di compromesso moderato, che già tanti, troppi guai, ha portato alla nostra comunità. Un movimento non più impostato su rigide logiche gerarchiche, ma su una struttura leggera, orizzontale, in cui ad esser preferito sia il lavoro di varie equipes, ognuna specializzata in differenti approcci ai vari problemi. Oggi più che mai, per non divenire le copie-macchietta di altre esperienze politiche del passato più recente e lontano, sono necessarie parole d’ordine chiare e sintetiche.

 

 

Riprenderci le chiavi di casa

è, pertanto, oggi primario, per riappropriarci di quella

 

Sovranità

politica, economica, sociale,

che oggi istituzioni a noi estranee, stanno cercando di cancellare, l pari di  quella

 

Identità

spirituale, etnica, politica ed economica

che la Globalizzazione liberal-liberista,

in nome di un quanto mai ipocrita e mal celato buonismo vorrebbe eliminare

e che Noi, come Popolo, unione di individui, coscienze, necessità e sentimenti

abbiamo il dovere di contrastare e, ad ogni costo, impedire!

 

MAGGIO 1915 / MAGGIO 2015

 

 

Certo, a vederle quelle immagini sbiadite dal tempo, a sentir parlare di Prima Guerra Mondiale, ad ascoltare musiche stonate dalla distanza temporale che ci separa da quegli eventi, sembra di percorrere le nebbie dello spazio-tempo, a ritroso, in una dimensione che non ci appartiene, per gli anni luce che sembrano separarci da essa. Invece no. La Grande Guerra appartiene al nostro presente, eccome. Essa è stata la mallevadrice e la nutrice della nostra Modernità. Nel bene e nel male. Con tutto il suo infinito carico di lutti, tragedie e sentimenti violenti e contrastanti che le fecero da contorno. Gli opportunismi dei Salandra e dei Sonnino, gli attendismi dei Giolitti, i continui cincischiamenti del nano savoiardo Vittorio Emanuele III,  gli accordi sottobanco, al pari dei repentini cambi di alleanze, che dominarono per intero la scena politica nazionale ed europea, non arrivarono ad intaccare il carattere profondamente innovativo e rivoluzionario della Grande Guerra. Gli antichi e traballanti Imperi Austro Ungarico, Germanico, Ottomano e Russo, (retaggio di equilibri che risalivano alla configurazione geostrategica dell’Europa, così come era venuta a determinarsi agli albori della Modernità) furono “dismessi” e con loro tutto il bel mondo apolide, cosmopolita e decadente della “Belle Epoque”. A farsi largo, furono rivendicazioni identitarie che avrebbero dovuto ridare linfa e vigore ad un’ Europa insofferente sia verso l’ordine borghese venutosi a determinare nel 19° secolo, che verso lo stantio mondo delle monarchie ereditarie, che non riusciva a tenere il passo con lo sconvolgente irrompere della Modernità. Fu la guerra del Nuovo contro il Vecchio. Del Futuro contro il Passato. Della speranza contro la rassegnazione. Ma fu anche un primo e significativo irrompere delle masse sul proscenio della Modernità. L’essere improvvisamente catapultati da una dimensione di quotidiana ordinarietà, all’esperienza della guerra, connotata dal senso di precarietà dell’esistenza, nelle fangose trincee di mezza Europa, al pari dei terrificanti ed esaltanti orizzonti spalancati dal prepotente ingresso della Tecnologia anche nell’ambito bellico, plasmarono quelle masse proiettate in quel turbinare di eventi, verso una presa di coscienza, sino ad allora ignota. I precedenti non erano certo mancati. Il Risorgimento, l’insurrezionalismo repubblicano di Giuseppe Mazzini, la Comune di Parigi, l’episodio di Carlo Pisacane, l’anarcosindacalismo di Georges Sorel, il sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni, il Fascio Rivoluzionario di Azione Internazionalista di Michele Bianchi, l’Avanguardia Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, ma anche i progetti insurrezionali di Bakunin, accanto ai primi tentativi di sollevazione portati avanti da Lenin e dalla Rosa Luxembourg e da altri ancora, a partire dal 1917, nell’immediato dopoguerra, andarono concretizzandosi in una serie di insurrezioni e rivolte su scala mondiale. Queste ultime, rappresentarono le risposte concrete a tutte quelle istanze incentrate sulle problematiche poste dall’impeto con cui la tecno-economia, a partire dal 19° secolo, aveva imposto la propria supremazia sulla scena della storia. Ad iniziare fu proprio la Russia nel ’17 con la rivoluzione bolscevica di Lenin, seguita dai tentativi di Bela Kun in Ungheria e dalla Repubblica dei Consigli di Monaco, di Karl Liebeknecht e Rosa Luxembourg, via via passando per Fiume, sino alla Rivoluzione Fascista. Pertanto, da rivolte caratterizzate dalla più svariata connotazione ideologica, si passò, in Russia, Italia e Germania, alla vera e propria instaurazione di regimi rivoluzionari, favorita proprio dalla situazione di grave tensione sociale e disagio economico, venutasi a determinare in seguito agli eventi del Primo Conflitto Mondiale. Come poi siano andati gli eventi, lo sappiamo tutti. Tutte le tensioni e le frustrazioni accumulatesi a seguito degli accordi di Sevres e di Losanna, innescarono nuovamente un mai sopito senso di rivalità tra le nazioni europee che, con il Secondo Conflitto Mondiale, avrebbero portato a termine la demolizione politica del Vecchio Continente, spalancando, in tal modo, la strada al dominio planetario degli USA. Nonostante tutto ciò, da un lato, la Prima Guerra Mondiale fu il banco di prova per iniziare la demolizione d’Europa, dall’altro essa rappresentò il tentativo di dare corpo a tutte quelle istanze che, rappresentate dalla sintesi tra un’ avanguardia, palesatasi nelle sue cento manifestazioni politiche, artistiche e scientifiche accanto un profondo e radicale iato di risguardo alle radici ed all’identità “volkisch” ed ai suoi archetipi, in totale discontinuità con i caposaldi Illuministi, si erano proiettate verso la dimensione del Futuro e del futuribile, rendendo quell’intenso scorcio epocale tra fine Ottocento ed inizi del Novecento, il brodo di coltura che avrebbe dovuto conferire una connotazione “altra” alla Modernità. La portata e le dimensioni del I Conflitto Mondiale, ne fanno un evento trasversale pre ideologico, perché ovunque e su tutti i fronti, connotato da forti aspirazioni identitarie, accompagnate da una sempre più estesa e condivisa presa di coscienza, sulla nefasta influenza del grande capitale sulla vita dei popoli, in relazione, in quel particolare momento, a quel tragico evento bellico. In un’epoca come la nostra, pertanto, caratterizzata dallo strapotere dell’economia e della finanza a livello globale, per poter fornire una valida alternativa a questo modello autodistruttivo ed alienante, è proprio necessario ripartire da quello spirito irredentista ed identitario che, della Terribile, Grande, Guerra ‘15-‘18, come anche degli eventi di Fiume, fu il motore propulsore. Al di là di Fascismi ed Antifascismi, o di Destre e Sinistre, oramai ridotte allo sbando ed allo stremo più totali. Per quanto strano  possa apparire, l’Europa di oggi ci presenta un conto non molto dissimile, se non peggiore, rispetto alla situazione di cento anni fa. Due guerre mondiali, Risorgimenti vari e guerre napoleoniche incluse, sembrano proprio non aver insegnato nulla, agli ottusi europei. E’ vero. Gli Imperi Centrali, la mitica Cacania del buon Cecco Beppe, non esistono più. Al loro posto un informe guazzabuglio di burocrati, al cui capo sta un quanto mai volubile duo franco-tedesco, nell’umiliante ruolo di tenutario degli interessi dell’impero americano, a sua volta, tangibile espressione dell’ Impero dell’Economia e della Finanza che, fondato sulla estrema volatilità dei capitali, ma anche sulla svalorizzazione delle risorse e del lavoro umano, oramai, sembra non conoscere più limiti e confini. E proprio la continua fluidità dei capitali e la sua continua spirale anatocistica (ovverosia la produzione di interesse sull’interesse, sic!), necessitano di uno spietato sfruttamento delle risorse umane e planetarie, a qualunque costo. Inquinare, avvelenare, ma anche sfruttare, svilire, annullare lavoro e diritti, privatizzando, svendendo o, ancor meglio, dando in appalto il lavoro, a turme di nuovi schiavi, leziosamente definiti “migranti”, ma in verità nel ruolo di vere e proprie truppe cammellate del Nuovo Ordine Mondiale, chiamate a diluire sino a cancellare qualunque forma di identità e comunitaria coscienza dei diritti, nel nome della creazione “ex nihilo”, di una ben più manovrabile brodaglia multi-etnica, in sostituzione di popoli e nazioni di antico lignaggio. E qui sta, però, la radicale differenza con l’Italia di cent’anni fa. Allora “coram populi”, l’Italia si lanciò nel conflitto, perché stanca ed indignata di esser trattata come un socio di minoranza in improbabili alleanze a tre. Allora, “coram populi”, l’Italia intera si inginocchiò al passaggio del convoglio che levava la salma del Milite Ignoto. Allora “coram populi”, di fronte ad una “vittoria mutilata”, l’Italia intera appoggiò l’impresa di Fiume, lanciando un chiaro segnale alle potenze capitaliste. Oggi invece, a dominare sembra esservi uno stato d’animo oscillante tra la più cupa rassegnazione ed il più marcio e deleterio “buonismo”, assurto a vera e propria “sifilide” di un’anima europea, oramai perduta in cincischiamenti e vaneggiamenti, eretti a veri e propri alibi morali per coprire la propria mancanza di spina dorsale. Ma anche i contesti nazionali da cui i vari “migrantes” provengono, non stanno molto meglio di noi. Alle immagini-icona di Ho Ci Mihn, di Che Guevara, dei Feddayn Palestinesi, alle infuocate dichiarazioni dei Paesi Non Allineati, ma anche agli stentorei volti dei dissidenti d’Oltrecortina, questi signori hanno preferito una forma di squallido accattonaggio. Una via di mezzo tra il maldestro tentativo di conformarsi agli standard occidentali ed un bilioso risentimento, celato sotto vari integralismi da strapazzo, troppo spesso sponsorizzati ed alimentati da quegli stessi occidentali, che tanto si vorrebbe combattere e distruggere. Per un cellulare o un abitino simil firmato, questi bei signori hanno svenduto identità, dignità e quant’altro di più si possa immaginare. Cent’anni fa l’Italietta dei maneggi giolittiani, l’Italietta della povertà endemica e dell’emigrazione, sconfitta ed umiliata dagli Imperi Centrali a Caporetto, ritrovò in un balzo dignità e coesione. Sul Piave furono mandati a combattere, a migliaia, ed in migliaia morirono, in un sol colpo. Il Piave si fece rosso di sangue, quanto le alture del Carso e le vette alpine, su cui l’Italia forgiò identità, coerenza e diritto di stare nel consesso delle nazioni. Cent’anni dopo, invece, certi signori del terzo mondo, finito il tempo delle chiacchiere e dei proclami bellicosi, preferiscono affidare la risoluzione delle proprie annose questioni alla fuga in barca o in gommone, grazie al benestare delle classi politiche nostrane che, intente allo sport dello scaricabarile e del magna-magna, sembrano aver trovato nella questione delle nozze gay, l’unico vero, trainante, motivo, in grado di illuminare le proprie grame esistenze…..                                                                                                           

EUROVERMI

 

Le immagini della carneficina di Parigi, con tanto di spari, urla, fughe , pirotecnici interventi della polizia e, dulcis in fundo, esponenti del gentil sesso appese alle finestre, vengono ossessivamente trasmesse e ritrasmesse in tivvù, quasi a voler amplificare paure, fobie e nevrosi di una società occidentale debole e malaticcia, la cui unica risposta a tanto orrore, sembra essere l’improvvisare coretti con la Marsigliese e tanta, tanta solidarietà a buon mercato. Ora, versata a profusione dalle stucchevoli parole dei politicanti lib-lab di turno, ora, addirittura, esaltata e ribadita con forza dai politicanti di mezza Europa. Certo, è facile ed ipocrita piangere sul latte versato, in ispecial modo quando, sino ad un istante prima, la Francia faceva parte dell’allegro consesso dei finanziatori delle varie ISIS e compagnia bella, composto da USA, Gran Bretagna, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Oman (Israele?) e chissà quanti altri, tutti aficionados delle cazzate sull’export della democrazia urbi et orbi, costi quel che costi. Ed ecco là i bei risultati. L’ISIS ripaga con legnate e calci, le carezze e le ammuine dei viscidi occidentali. Certo, forse ora le cose non sono andate proprio come Lor Signori avrebbero voluto. Quelli dell’ISIS hanno agito con troppa intraprendenza, alimentando un fracasso che ha portato a conseguenze inaspettate, come quella di vedere quella Russia che, sino a poco fa, sembrava destinata all’ostracismo politico occidentocentrico, ora, di nuovo in sella, animata da un inaspettato protagonismo, lì a guidare la partita contro il Califfo, alla faccia del disappunto di Obama e compagnia bella. Ma, purtroppo per noi, non è certo con i bombardamenti della coalizione anti ISIS, che si risolve un ben più vasto problema, né con le draconiane misure securitarie che, da giorni, i vari Hollande vanno preannunciando. Il problema sta a monte, nella natura del sistema che condiziona ed ispira pesantemente il quadro internazionale nel suo complesso e cioè il liberismo globale. Senza capire questo dato, non si può capire tutto il resto, ed anzi, si rimane incastrati in un’autolesionistica e limitante logica di botta e risposta, che tanto fa comodo a chi, da dietro le quinte, muove le fila dell’intero scenario. Ieri era il momento del rimpianto urlato ai quattro venti; ieri l’altro era il momento del “laissez faire” buonista e solidarista; oggi è il  momento della guerra “solidale”a tutti i costi, contro i cattivacci di turno, oggi nei panni delle marionette dell’ISIS. Ma la guerra di chi e contro chi? E perché solo ora e non prima? E poi siamo sicuri che tutto questo basti, o andrebbe aggiunto qualche altro importante tassello a questo complesso mosaico? A costo di ripeterci per l’ennesima volta, vanno sottolineate alcune linee guida base, per meglio districarsi ed orientarsi nella questione. Anzitutto, tornando al fatto a cui abbiamo già accennato, che oggi lo sanno anche i muri che, fenomeni tipo l’ISIS oggi ed Al Qaida ieri, assieme a tutta una trafila di sigle del genere, hanno sinora goduto della generosa sponsorizzazione dei vari paesi occidentali (USA, Gran Bretagna, Francia, etc.) o “occidentocentrici”che dir si voglia (Turchia, Pakistan, Paesi del Golfo, etc.), va sottolineato che tale sostegno, è stato fondamentalmente elargito in virtù di due direttrici: da una parte in un’ottica di “divide et impera” all’interno del mondo islamico, tenuto conto delle fibrillazioni dei suoi vari contesti geostrategici (per spaccare il nazionalismo palestinese, per minare il nazionalismo panarabo in Egitto e, alimentando i gruppi sunniti, nell’ Iraq “liberato”, per esempio, al fine di contrastare l’espansionismo dell’ Iran sciita), dall’altra come vera e propria punta di lancia nell’azione di contrasto diretto ai vari nemici del momento (contro l’URSS in Afghanistan, contro la Repubblica Socialista di Jugoslavia in Bosnia e Kosovo ed ora, al fine di scalzare definitivamente gli ultimi bastioni di socialismo nazionale del contesto mediorientale, in Siria e Libia). Questi ultimi interventi, accompagnati dalla malagestione americana dell’instabilità del ginepraio iracheno, hanno portato a sviluppi che non si sono solo limitati al piano del contenimento diretto o indiretto di un “competitor” geopolitico, ma hanno avuto come risultato la creazione di una vera e propria realtà statuale autonoma, in sostituzione dell’ Afghanistan talebano che, oramai invaso dalla coalizione ONU, a causa delle proprie profonde divisioni tribali, rimaneva comunque un contesto profondamente instabile, caratterizzato da una notevole volubilità delle alleanze politico militari. Il Califfato, l’ISIS è, invece, compatto, sotto la guida degli “iracheni” di Al Baghdadi, attorno a cui ruotano tutta una serie di sigle dell’integralismo sunnita. Inoltre, la strana quiescenza e la non incisività dell’azione militare occidentale, protrattesi sino ad ora e l’atteggiamento di visibile irritazione degli USA di fronte al nuovo protagonismo militare di Mosca, ci fanno capire che l’ISIS ed i suoi attacchi, fanno comodo, eccome.  Ordo ab Chaos. Una sigla, composta di due termini che, nella loro romana semplicità, ci riportano alla mai abbandonata pratica Cia-USA-Poteri Forti, di destabilizzare ed impaurire, al fine di consolidare il proprio potere planetario. In questo caso, il ricatto psicologico pone il cittadino comune di fronte alla via senza uscita, rappresentata ancora una volta, dalla scelta unilaterale del modello liberal-liberista globale, in alternativa al quale, regnano solo caos, terrore ed oscurantismo. Oltretutto, da un punto di vista prettamente ideologico, l’ISIS rappresenta un perfetto “sparring partner” ideologico per gli occidentali; esso si fa latore  di una visione globale ed unilaterale dell’esistenza, quanto quella occidentale. In suo nome si distrugge e si sradica qualsiasi tipo di particolarismo etnico o culturale, che dir si voglia (vedi la persecuzione contro i Curdi e le distruzioni delle vestigia afghane di Bamyan, di quelle mesopotamiche in Iraq ed alfine, il vergognoso spettacolo di Palmira, etc., sic!), riportando, in tal modo, l’intera umanità di fronte alla inequivocabile scelta tra due visioni, nel loro universalismo, egualmente livellatrici ed alienanti. Arrivati a questo punto sarà, però, doveroso riallacciarsi ad un altro discorso, la cui portata abbraccia per intero quanto sin qui detto. Il problema dell’invasione migratoria ha messo in risalto il complesso rapporto tra fedi e culture differenti, dando luogo ad un confuso e quanto mai malinteso anti-islamismo. Qui la fede islamica viene frettolosamente confusa con l’ignoranza di masse terzomondiste che, abbrutite da decenni di occupazione economica e culturale occidentale, dell’Islam hanno fatto la chiave di volta per una forma di malinteso riscatto politico e sociale, travisandone ed adulterandone il messaggio, in un modo più che evidente. A ben vedere, la religione islamica si pone, all’interno del contesto monoteista, quale momento finale di una vicenda che, addirittura, in filosofi greci come Platone ed Aristotele, passando attraverso figure come Abramo, Mosè, Maria (Maryam), Cristo (il Profeta Issa, sic!), riconosce i propri precursori. Senza contare il debito culturale con la Gnosi ed il Neoplatonismo, l’influenza dei quali, permea l’intera impostazione del pensiero islamico. Se di problema insito alla dottrina, di natura prettamente teologica si può parlare, legato al conflitto tra il letteralismo sunnita e l’eterodossia di taluni tra sunniti e sciiti, allora il problema non riguarda più solo l’Islam, ma l’intera impostazione di pensiero monoteista. Nel suo sorgere, come forma di assoluta semplificazione del pensiero teologico, (nell’Ebraismo si passerà da una primigenia forma di monolatria, riguardante il Dio del fuoco Jhvau, al vero e proprio monoteismo di Jahvè, sic!) di fronte ad una politeistica profusione delle forme del divino, che rischia di trascendere nella confusione e nell’agnosticismo, il monoteismo compie un’operazione di “reductio ad unum”, che finisce con il travolgere ed omologare a sé qualunque aspetto della realtà che ad esso non sia conforme, spalancando così, de facto, la strada alla attuale fase di Globalizzazione. “Un unico Re in Cielo ed un unico Re in terra”, così profferiva profeticamente l’imperatore romano Caracalla, pensando di fare cosa assai astuta, nell’andare ad impossessarsi delle categorie del pensiero monoteista. Tutto questo, ci riporta ad uno tra gli aspetti più pregnanti ingenerati dalla Globalizzazione e cioè il rapporto tra la Comunità-Stato ed una Religiosità totalizzante nel suo porsi, quale quella rappresentata dai tre Monoteismi. Rimanendo nel solco di un’impostazione occidentale più confacente alla nostra tradizione, che prende le mosse proprio dalla civiltà greco romana, la religione dovrebbe venire a far parte dello “ius publicum”, laddove lo Stato verrebbe a porsi su un superiore piano normativo, nel ruolo di vero e proprio garante ed ispiratore etico del sentire religioso, evitando, in tal modo, sovrapposizioni e confusioni di piani che, oggidì potrebbero rivelarsi esiziali per la tenuta spirituale di una intera civiltà. Ma, tornando alla questione di base, questo discorso non ha alcun senso, se lo scettro del primato continua a detenerlo il potere economico-finanziario, facendo proprie quelle che dovrebbero essere le prerogative dello Stato. La soluzione a tutta questa complessa questione, sta nel riappropriarsi del nostro diritto a decidere di ciò che ci appartiene per diritto naturale e cioè la gestione della res publica in tutti i suoi aspetti, ora invece delegata a persone legate a doppio filo al ceto finanziario globale. Quella qui indicata, è una prospettiva di non facile portata, visto che oggi ci ritroviamo legati mani e piedi a tutta una serie di obblighi, lacci e lacciuoli di natura economica, politica ed istituzionale supportati da una poderosa grancassa mediatica, che non facilita certo il sorgere e lo svilupparsi di una presa di coscienza antagonista, se non ad un livello puramente epidermico, relegando quella stessa basale ricerca di nuove sintesi di pensiero metapolitico (senza le quali non si svilupperà mai alcuna concreta ed incisiva azione politica), ad un fatto meramente individuale e slegato da un qualsiasi più ampio contesto. Potrà sembrare cinismo allo stato più puro ma, i recenti attentati di Parigi potrebbero, in qualche modo favorire quanto qui auspicato. Essi, in qualche modo, rappresentano il fallimento conclamato del progetto buonista e mondialista di un’Europa multietnica e multiculturale ed anzi, dovrebbero costituire un’imperdibile occasione per qualunque movimento politico antagonista, per scatenare una vera e propria “tempesta” mediatica contro il Sistema, iniziando proprio là dove esso è ora più debole, ovvero quell’accoglienza ai “migranti” che oggidì, rappresenta una cospicua fonte di lucro per il ceto politico finanziario europeo. Il richiedere a gran voce l’espulsione e la revoca dei permessi di lavoro, per gran parte dei migranti oggi presenti in Italia ed in Europa, potrebbe rappresentare una imperdibile occasione di rendita politica, giustificata dalla paura di attentati e dalla conclamata incompatibilità culturale tra le comunità di allogeni e gli europei. Ad oggi, però, in Francia, a parte i pietosi coretti della Marsigliese, non si è registrato nessun significativo evento iniziativa, nel senso che abbiamo indicato. L’intera Europa è attraversata da tremolii di gambe e da ipocriti piagnistei, a cui fanno unicamente seguito degli odiosi provvedimenti di tipo securitario che, anziché tutelare i cittadini europei, ne limitano vistosamente le libertà fondamentali, proprio in ossequio a quanto auspicato dal piano Ordo ab Chaos. Il Califfato (almeno nelle intenzioni propalate ufficialmente) si muove nell’ambito di una logica feroce e settaria ma, vivaddio, con un ben preciso intento, ovverosia quello della costituzione di uno  stato universale islamico, ponendo fine alle nazioni, così come le abbiamo sinora intese. Questa dovrebbe costituire per gli europei un’occasione irripetibile per farla finita con il Nuovo Ordine Globale e con i suoi vari califfati, quello di Washington in primis. Un’ondata di ribellione ai diktat atlantici dovrebbe percorrere l’intera Europa. Accordi, alleanze e clausole segrete, dovrebbero finire a carta straccia mentre, quel circo equestre chiamato Bruxelles, dovrebbe definitivamente andare in malora, con tutte le sue monete uniche ed i suoi trattati-truffa. Sarebbe anche l’occasione giusta per scaraventare tranquillamente a calci fuori dal nostro Vecchio e vituperato Continente, tutta quella massa di disertori, di profittatori da quattro soldi, di scalcagnati avventurieri, di impestati dalle più schifose e deleterie patologie e di potenziali (e reali, sic!) psicopatici assassini di innocenti che oggi, qualcuno, con un grazioso neologismo, chiama “migranti”, facendo, in tal modo diminuire in modo esponenziale e radicale, la possibilità di ulteriori attentati alla sicurezza dei cittadini europei. Solo in questo modo, attraverso una radicale presa di coscienza dei suoi abitanti, l’Europa, potrà tornare ad essere libera dalle ingerenze dei Poteri Forti ed a costituire un faro di civiltà per il mondo intero. Ma tutte queste, sono solo belle parole. Perché esse si trasformino in fatti concreti e reali, è necessaria una volontà di cambiamento da parte di quegli europei che, ad oggi, invece, sembrano inerti e passivi, capaci solo di riempire le proprie bocche e le proprie annacquate coscienze, con solidarismi e buonismi, veramente vuoti e, mai come ora, fuori luogo. I Poteri Forti, nel lanciare la loro sfida definitiva e mortale, attraverso la manifesta intenzione di creare di un Califfato Universale a guida USA-Saudi-Israelo-Ottomana, stanno mettendo i popoli d’Europa davanti ad una sfida senza precedenti (almeno negli ultimi cinquant’anni della nostra storia…), dall’esito della quale dipenderà la loro sopravvivenza come inalienabile assieme di comunità, appartenenze, culture ed eredità spirituali, senza pari nella storia del genere umano.                                                      

 

L'ITALIA DI RENZI

 

Certo, a guardarlo là, mentre con aria affabile, conciona di tutto e di più, verrebbe quasi voglia di credergli….E già. Il Renzi stavolta l’ha sparata grossa. Il mondo gira alla rovescia: recessione e stagnazione economica sembrano aver colpito senza pietà, anche laddove tutto sembrava fosse destinato ad un’inarrestabile ed irresistibile trend di crescita (vedi Cina, Brasile e compagnia, giusto per citarne alcuni…), ma per Lui, no, in Italia tutto va bene. Anzi. Il nostro, tra poco, sarà il paese che in Europa potrà  tranquillamente alzare la voce su tutti, visto che meglio di Germania, Francia o Gran Bretagna, avrebbe saputo portare a compimento i compiti di casa assegnati da Bruxelles ed FMI, ovvero da quella strana brigata di iene e di pagliacci animata dalla pretesa di concionare e disporre su tutto e su tutti, con le modalità più assurde e criminali che si possano immaginare. Si confondono le giuste esigenze di bilancio e riequilibrio dei conti pubblici, con la pretesa di tagli al sociale, a sanità, pensioni, istruzione e, financo, sicurezza. Si pretende di “armonizzare” i mercati europei, ingabbiando le nazioni europee in assurde regole e divieti, cosicchè i vari stati, privati di qualunque autonomia e sovranità, non possano né fare politiche di bilancio, né intervenire in alcuna maniera, nelle vicende di casa propria. Un modo questo, per far sì che squali e squaletti, iene e sciacalli, possano tranquillamente pascolare in casa altrui, comprando  e rilevando interi comparti di attività economiche di paesi, così privati di qualunque capacità ed autonomia produttiva. E’ cosa arcistranota che, molti tra i più grandi marchi industriali nostrani, stanno finendo nelle mani di acquirenti stranieri, con le modalità di una irrefrenabile emorragia. Turme di criminali, profittatori, disertori, straccioni e malati stranieri, vengono tranquillamente lasciati entrare ed ospitati nelle nazioni europee, Italia in primis, a spese dell’erario pubblico, cioè dei cittadini, al fine di sostituire i locali ceti lavoratori, con una massa anodina ed informe priva di qualunque coscienza dei propri diritti e, perciò stessa, più facilmente manovrabile dal grande capitale. Quell’Europetta tanto puntigliosa ed occhialuta con i conti dei propri cittadini e tanto lesta nel tagliare e tassare, diviene stranamente distratta, quando si tratta di ospitalità per straccioni e criminali stranieri o per spese militari a supporto delle carognate genocide degli USA (Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia, etc.) e dei loro alleati. Certo, in questo, l’Italietta renziana si distingue per una dote alquanto particolare. Ciò che da noi si dice venga tagliato, come un’araba fenice, risorge sotto altre, mirabili forme. Ora, per esempio, è perfettamente inutile che Renzi ci magnifichi il taglio delle tasse sulla prima casa, quando poi, di case gli italiani proprio non ne hanno, visto che il nuovo anno è stato inaugurato da un magnifico provvedimento di sblocco degli sfratti, studiato non tanto per permettere ai piccoli proprietari di tornare in possesso di ciò che loro spetta, quanto per sbattere in mezzo alla strada milioni di italiani per cessata locazione o per morosità causate da indigenza, in questo facendo il gioco di avvoltoi e speculatori d’ogni sorta e risma. Il tutto senza pensare minimamente a quello che, con un grazioso eufemismo, viene definita “emergenza abitativa”. Il fatto è che, quello della casa, al pari del lavoro, non è un optional, ma costituisce un diritto che andrebbe inscindibilmente tutelato. Certo, Renzi se ne frega. Lui ha altro a che pensare. Le nostre città, Roma in primis, cadono a pezzi, tra degrado, sporcizia, mezzi che non funzionano, “nuovi italiani” che si insediano e minacciano la tranquillità dei quartieri dei lavoratori, mafie e mafiette capitali ma, giustamente, Lui è lì a parlarci delle più rosee previsioni per il 2017, algido e lontano più che mai dalla gente e dai suoi problemi come, d’altronde, la sua sinistra oramai assurta a ruolo di elitario megafono di una minoranza di abbienti, davanti a cui si ergono le macerie di una middle class e di ceti lavoratori massacrati da decenni di liberismo e di belle schermaglie dialettiche destra-sinistra. Lui è talmente lontano che, forse, neanche si è accorto di non essere stato eletto dal popolo, come una volta si usava fare. Lui è stato prescelto, caricato con una bella scheda a ricarica Tim, Vodafone o, meglio ancora Trilateral o Bildberg, sicuramente più confacenti al suo caso. Strano a dirsi ma, una volta tanto, sembra che Marx avesse proprio ragione. In Italia sembra riproporsi l’eterno schema dialettico che vede, ancora una volta, contrapporsi due ben precise categorie. Da una parte, una minoranza di ricchi, nel caso costituita dai fautori dell’economia finanziaria e dalle loro trombette progressiste, fiancheggiate dalla setta vaticana, ambedue accomunati da impeti di solidarismo e buonismo tali, da mascherare con il concetto di “diritti” a tutti i costi, qualunque tipo di sopraffazione, economica, sociale o politica che dir si voglia, in primis quella costituita dal favorire l’invasione migratoria. Dall’altra parte assistiamo alla progressiva “proletarizzazione” della middle class ed al regresso delle conquiste sociali ottenute da operai e da altre categorie di lavoratori dipendenti, grazie a tagli sociali indiscriminati e ad un odioso e cieco fiscalismo. Sfruttatori e sfruttati vanno sempre più contrapponendosi in uno scenario degradato e corrotto, oramai sempre più imperniato su spot propagandistici senza alcuna attinenza con la realtà. Intanto si cominciano a sentire ed intravedere sullo scenario nuovi soggetti politici, nella veste di individualità o di nuovi gruppi che, da vari punti di vista, vanno facendosi portavoce di un sempre più generalizzato malessere. Cinque Stelle con una radicale protesta anti sistema, più attenta a proposte di economia redistributiva (vedi il cosiddetto “reddito di cittadinanza”), Lega e Fratelli d’Italia sul problema migratorio, sull’eccessivo fiscalismo e sulla burocratica farraginosità del sistema-Italia. Altri gruppi ed invidualità minori, battono su una prospettiva più ampia, che tende a ricondurre tutti punti di vista ad un unico ed originario punto di partenza: quello della supremazia dell’economia sull’etica e sulla politica, che ne dovrebbe rappresentare la principale espressione, ovverosia la critica assoluta a quella fase storica che oggi definiamo come Globalizzazione. A questa più ampia prospettiva non corrisponde, però, lo stesso ampio radicamento mediatico e territoriale dei gruppi maggioritari. Pertanto, l’ottica di una prospettiva politica vincente, non potrà non passare attraverso una progressiva sintesi delle varie istanze e delle realtà politiche che ne sono espressione, visto che è evidente una fisiologica complementarietà tra istanze che battono sul “particulare” ed altre, invece, impostate su una visione più ampia. La vera scommessa del futuro, non sarà, pertanto, sul carattere ideologico di una nuova forma di aggregazione politica, quanto sulla capacità di saper mettere da parte l’italico vizio di una politica inficiata da interessi e contrasti da campanile, che portano alla paralisi ed all’inazione di qualsiasi istanza, come abbiamo già avuto modo di constatare negli anni. E per questo, sarà necessaria una squadra, nel ruolo di vero e proprio laboratorio e camera di compensazione politica, in grado di condurre un abile e continuo lavoro di interazione e mediazione, tra le varie istanze presenti. Questo sarà il banco di prova, che ci dimostrerà se siamo alla vigilia di una svolta reale o se, slogan, intenti, polemiche, altro non siano se non una delle tante illusorie facce di un sistema, la cui capacità di adattamento sia tale da saper cavalcare e gestire “ad usum delfini” qualsiasi espressione ed istanza politica, così ridotta a vuoto slogan e pura virtualità. 

 

CRISI ALLA GRECA: UNO SCHIAFFO

AI POTERI FORTI

 

Certo non era partita nel modo migliore. In Europa i Poteri Forti ed i loro manutengoli di Bruxelles a strombazzare ed a lanciar fulmini ed anatemi su una possibile “grexit”, nel caso di una vittoria dei “no” ai referendum. Dall’altra, in quel di Grecia, i goffi ed abortiti tentativi di invalidare la consultazione del 7 Luglio, tramite i ricorsi di equivoci personaggi legati al centro-destra di Nea Demokratia (ma guarda un po’…) o di mobilitare un quanto mai fasullo fronte pro-euro. Ed invece no. Lui il “No/Oxi” è arrivato con la potenza di un inaspettato ceffone, lasciando l’inossidabile Frau Merkel con un palmo di naso, letteralmente inebetita e provocando le indispettite e disordinate reazioni del Circo equestre di Bruxelles, seguite dalle altrettante preoccupate dichiarazioni della Casa Bianca USA. E già, perché se proprio non ve lo eravate dimenticato, gli USA detengono tuttora la quota maggioritaria di capitale FMI, ovverosia, sulla carta demandano a Madame Lagarde, il simpatico compito di praticare l’usura a livello intercontinentale. Il risultato ottenuto dall’accoppiata Tsipras-Varoufakis è stato, perlomeno a livello simbolico, notevole, ma, Tsipras non è né Chavez, né Morales, né Christina Kirchner, né Madame Le Pen, né nessun altro di tutta la galleria dei possibili ribelli del giorno d’oggi. Nel nome di un’accezione tutta “mediterranea” della politica, Tsipras ha un po’ troppo oscillato tra Renzi, Vendola e Grillo, senza però riuscire a conseguire alcuna definita fisionomia di azione politica e rimanendo, pertanto, al palo. Tanto per dirne una, il “piano Varoufakis”, sulla doppia circolazione monetaria (cosa da noi detta e propagandata da molto prima che, il suddetto Varoufakis divenisse ministro in quel di Grecia…), non andava spiattellato solo ora, a fine giochi, a mò di coniglio dal cilindro o di strampalato “deus ex machina”, frutto delle tardive intuizioni di un apprendista stregone. Né, cosa ancor più importante, andavano tenute sottogamba le profferte della Federazione Russa Di Vladimir Putin, che avrebbero potuto veramente imprimere un salutare riassetto geo economico, a tutto uno scenario depresso da decenni di codina sottomissione agli interessi dei Poteri Forti a guida Washington. Tsipras ci sembra esser rimasto ingessato in un ruolo istituzionale, da cui non riesce a liberarsi. Ora i pagliacci del Circo di Bruxelles hanno rigonfiato il petto e con fare tronfio, sono tornati a minacciare di strangolamento il popolo greco. Già si parla di contagio e caduta delle Borse…e invece questa crisi dovrebbe rappresentare per tutti noi, eretici e convinti miscredenti in un convinto antieuropeismo ed antiglobalismo angloamericano, un’occasione imperdibile. Le antiche logiche di bipartizione ideologica tra destra e sinistra, stanno finalmente lasciando il posto ad un sempre più diffuso (e confuso…sic!) malcontento contro il capitalismo globale, portando come prima e più sentita conseguenza, ad una sempre maggiore disaffezione verso le tradizionali forze politiche che, alla prova dei fatti, si sono dimostrate totalmente incapaci a gestire una crisi dalla portata epocale. Mentre Renzi continua a farfugliare su presunti miracoli economici italiani, bisognerebbe puntare ad una radicale modifica della carta costituzionale, per quanto attiene alla possibilità di rettificare o abrogare gli accordi internazionali a furor di popolo, attraverso, cioè, lo strumento referendario. Un’iniziativa referendaria anti Euro, anti accordi UE, anti WTO ed anti NATO, avrebbe un effetto, la cui portata destabilizzante, potrebbe costituire un colpo mortale per i vari protagonisti della scena geoeconomica globale, USA in primis. A tal proposito, riempie di gioia la notizia che, anche un gigante economico come la Cina, stia cominciando a subire i primi contraccolpi di questo nuovo inizio di crisi, con una parziale caduta delle proprie borse, con il rischio di trascinarsi appresso anche qualche nutrito spezzone USA (vista l’appetibilità che gli alti tassi di crescita cinese hanno sinora rappresentato, per gli speculatori finanziari d’Oltreoceano, sic!). Ma non preoccupatevi! I Poteri Forti non dormono! Dopo le ultime sortite minatorie dei vari pagliacci targati Bruxelles, a dar retta ad alcune fonti giornalistiche”non ufficiali”, vicine ad ambienti del Pentagono, sembra che Lor Signori, in preda alle ambasce della prospettiva del ripresentarsi di una crisi ingenerata dalla presenza di un eccessivo numero di “competitors” sul mercato, abbiano deciso di eliminare il problema alla radice: ovvero preparandosi a scatenare una bella guerretta contro Russia e/o Cina, facendo, nel contempo, con l’aiuto dell’ISIS, dell’Europa una specie di dependance israelo-saudita. Se, però, è vero che i Poteri Forti, tali sono, perché partono avvantaggiati rispetto alla volontà dei singoli, è anche vero che, la loro grande debolezza è, oggidì, indubbiamente costituita dall’esponenziale  meccanismo di interrelazione che vede indissolubilmente legati, l’un l’altro, i vari protagonisti dello scenario globale. L’esempio greco potrebbe, in questo modo, costituire un importante precedente su cui impiantare un’azione in grado di mettere in seria difficoltà, sino ad arrivare a far crollare e portare allo sfascio, il circo equestre di Bruxelles e quella mefitica baracca chiamata “Nuovo Ordine Mondiale”, fondata sul corrosivo dominio di un infernale meccanismo di usura, che sta portando il mondo intero all’alienazione ed alla totale rovina, economica, sociale ed ambientale.                                                   

 

                            EVENTI: CONVEGNO SULL’ISLAM A ROMA

 

Mercoledì 17 e Giovedì 18 Giugno, organizzata dalla giornalista Giovanna Canzano, resposabile ed animatrice principale dell’associazione “Cultura in cammino”, si è svolta, presso la sede di Sallustiana Art Today, una due giorni interamente dedicata a “Costanti e diversità nella conflittualità interconfessionale islamica”. Un argomento sicuramente impegnativo e di grande impatto, viste anche le sue ricadute su tematiche attualissime quali quella dell’immigrazione o quella degli interessi geopolitici e geoeconomici in gioco, solo per citarne alcune. Un argomento che ha attratto un gran numero di relatori di alto profilo e notevole caratura intellettuale, le cui relazioni si sono snodate ed intersecate senza tregua, nei due giorni del convegno, offrendo una variegata ed interessante panoramica di idee ed opinioni. Hanno partecipato, in ordine alfabetico: Anna Maria Turi, Antonio Caracciolo, Antonio Saccà, Antonino Galloni, Carlo Marconi, Carlo Morganti, Caterina Luisa De Caro, Claudio Moffa, Diego Verdegiglio, Enea Franza , Fabio Verna,  Giorgio Prinzi, Giorgio Vitali, Giuseppe Aziz Spadaro, Giuseppe Mele, Giuseppe Turrisi, Luciano Lago, Touhami Garnaoui e lo scrivente Umberto Bianchi che, oltre a fare da moderatore, ha accompagnato la propria disamina con un ulteriore intervento di chiusura e conclusione dei lavori. Le relazioni, tutte interessanti e dense di spunti, hanno spaziato dalla Geopolitica alla Storia, dall’Economia all’Attualità Politica, sino a toccare, con l’intervento di chi vi scrive, il problema della percezione dell’Islam in Occidente, attraverso un’analisi del suo pensiero religioso e filosofico, sottolineandone quelli che ne costituiscono gli aspetti più esoterici. Gli interventi, in tutte le loro varianti e tonalità, hanno sottolineato il profondo disagio dell’opinione pubblica occidentale di fronte ad un problema che, nelle sue mille sfaccettature, religiose, demografiche, economiche o frutto dell’azione manipolatoria di quei centri del potere globale, identificati negli USA e nei suoi stati-satellite occidentali (Francia, Gran Bretagna, Israele, etc.), non può non trovare soluzione se non, come enunciato nell’intervento di chiusura dello scrivente, nel riallacciarsi a quel percorso di pensiero volontarista e vitalista dai cui prodromi avrebbe dovuto sorgere una Modernità “altra”, ed i cui sviluppi furono interrotti dallo scoppio delle due Guerre Mondiali del Novecento. Solamente un’Europa veramente “altra” da quella di adesso, fondata su basi radicalmente divergenti e distanti anni luce dal melenso e marcio buonismo, dalla passiva quiescenza ai diktat dei Poteri Forti, solo quest’altra Europa potrà, dunque, reggere il confronto con la sfida di un modello di sviluppo criminale, alienante e suicida, quale quello Globale. E proprio per dare un “la” ad una nuova e fortunata sintesi di pensiero-azione, per dare un calcio ad ideologie, schemi e squadre logore, consunte, oramai sorde alle istanze della società, “Cultura in cammino” ed il network di iniziative ad essa vicine, al termine di ogni convegno, daranno vita ad un lavoro di elaborazione documentale, che dovrà fare da base propositiva per ulteriori sviluppi ed iniziative in senso sia strettamente politico che, più squisitamente, meta politico. Con buona pace per capettismi, invidie e rivalità che, da troppo tempo ormai, bloccano ed inibiscono lo sviluppo di una più qualificata ed incisiva area politica antagonista.

VERSO UNA LEGA NAZIONALE: LUCI ED OMBRE DI UN CONVEGNO

 

L’aver voluto parlare con un articolo del convegno “Verso una Lega Nazionale”, ad una settimana di distanza non è, da parte di chi scrive, assolutamente casuale, anzi. Assieme ad altri, ci aspettavamo un commento, una nota, un segnale da parte dell’ufficialità della Lega che, invece, non c’è stato. Ma cerchiamo di procedere per ordine. Il convegno del 21 Aprile, da un lato, ha sicuramente rappresentato un’ottima occasione per molti e preparati studiosi, giornalisti ed esponenti del mondo civile, di dar corpo al meglio a tutta una serie di istanze tutte, più o meno, accomunate da un sentire per così dire “anti-globale”, ovverosia da un variegato rifiuto delle principali coordinate delle odierne politiche “occidentali”. E su questo punto, le relazioni sono state tutte davvero di notevole rilievo e portata, a parte le boiate del liberal liberista Valditara a cui è stato, stranamente, concesso un tempo oltremodo lungo, ad evidente detrimento di altri e più interessanti e meritori interventi (Nino Galloni, Gino Marra, Aleksandr Dughin e Giulietto Chiesa, solo per citarne alcuni…). Particolarmente calorosi, gli applausi della platea di fronte a tutti quegli interventi che mettevano in luce una evidente insofferenza verso la presenza USA e NATO sul suolo nostrano. Tutto molto bello, giusto e, direi quasi, scontato dal punto di vista di una certa sensibilità ideologica. Il problema è che, a tale sensibilità non è stato dato, ahimè, alcun riscontro da parte dell’ufficialità del movimento-partito politico Lega che, di questo convegno avrebbe dovuto essere il principale referente. E qui arriviamo, invece, alla nota dolente dell’intera questione. Questo convegno, avrebbe dovuto rappresentare l'occasione perfetta per un definitivo chiarimento ideologico e programmatico con il leader della Lega, Matteo Salvini che, in questa sede, avrebbe potuto esprimere in modo chiaro e netto, una presa di posizione avverso o a favore delle istanze anti globali espresse dai vari relatori. Il problema di una chiarificazione ideologica non è secondario visto che, è perfettamente inutile scagliarsi contro l’immigrazione e tutte quelle disdicevoli espressioni del degrado che colpiscono la nostra comunità nazionale, se non si ha presente che la radice del problema risiede altrove, nell’essenza di quella Globalizzazione, dalla cui accettazione o rifiuto dipendono tutta una serie di ineludibili conseguenze a cascata. NO Immigrazione, NO Euro, ma anche, NO Maastricht, NO Lisbona, NO Wto, ma anche e di più, NO NATO e, dulcis in fundo, ma in primis, NO Liberismo né Economico né Politico; reimpostare e ridiscutere radicalmente gli assetti socio economici occidentali, senza dover, per forza, ricalcare o scopiazzare esperienze passate e oggidì inattuali. Non si può essere anti globali a metà, o solo in parte. Non si può fare i duri a parole e poi dopo, a voti ricevuti, mediare o scendere a compromessi, spesso avvilenti. Sono film già visti e stravisti. Di galline bicefale, di gamberi et similia, ne abbiamo già conosciuti troppi, per cascarci ancora. Oggi la differenza non sta più in chi è di destra o di sinistra, ma solamente tra chi globale lo è, sino in fondo, e tra chi, altrettanto sino in fondo, non lo è, con tutte le reciproche conseguenze che da tali scelte possono derivare.
Pertanto, la mancata presenza del leader della Lega, ha determinato in chi scrive, in perfetto accordo con altri li' presenti, la convinzione sull'inutilita' di prendere la parola in quel contesto, tanto per ripetere cose di comune condivisione, vista proprio la evidente assenza di quel tanto richiesto momento di chiarificazione ideologica e programmatica, necessario allo sviluppo della vita di qualunque movimento politico. Proprio a causa di questa mancanza, (riconfermata nei fatti, dalla non menzione, ad oggi, del convegno sui vari siti ufficiali della Lega) chi scrive, assieme ad altri, rimane pertanto perplesso e fortemente dubbioso su quali siano le reali intenzioni e l'attenzione della Lega, riguardo al progetto espresso dal network "Lega nazionale". Se poi, a tali considerazioni, seguiranno chiarimenti dai diretti interessati, tanto meglio, la cosa non potrà che farci piacere. Altrimenti, accantonata definitivamente qualsiasi ipotesi o forma di appoggio a partiti o formazioni già incancreniti da decenni di navigazione istituzionale, non ci rimarrà che andare oltre, continuando nel percorso di edificazione di quel “frente amplio” dell’antagonismo politico che, della trasversalità, ma anche e, prima di tutto, della chiarezza ideologica, dovrà fare la propria base portante. 

 

 

 

IPOTESI PER UN COMPLOTTO

 

L’immagine di quella montagna brulla, ora ricoperta dai miseri resti di un aereo e da ciò che rimane di un’umanità che viaggiava spensierata ed ignara del dramma che stava abbattendosi sulle proprie teste, è lì, muta, silenziosa, stracolma di un dolore, impossibile a potersi esprimere con umane parole. Silenzio, orrore e pianti, a cui sinora nessuno è riuscito a dare, un sia pur minimo barlume di razionale spiegazione, che non fosse quella dell’assurdo e tragico accesso di follia, di uno dei tanti Lubitz qualunque, che, come compassati automi si aggirano indisturbati per le nostre occidentalissime e “civilissime” metropoli, pronto ad uscire di testa e ad esplodere, da un momento al’altro, senza alcun cosciente preavviso. Certo, ora è il momento del rimpianto, del ritrovamento di malconce scatole nere e di altrettante malconce e deformi verità, pronunciate a mezza bocca, quasi a voler esorcizzare la terribile realtà che potrebbe venirne fuori. Oh certo…si è trattato di un accesso di follia, quella “follia” con cui oggidì si liquida e si giustifica con estrema faciloneria, tutto ciò che ad un’opinione pubblica intorpidita da decenni di “politically correct”, non paia costituito da quella rassicurante ed insipida, cartesiana razionalità, che come una rosea carta-regalo, sembra avvolgere l’intera realtà. Tanto per cominciare, la Lufthansa sapeva del grave stato depressivo, in cui il giovane co-pilota versava, eppure ha lasciato correre. Anzi. Sembra che i certificati medici stracciati, ritrovati nella sua abitazione, siano rimasti carta muta. Ovverosia, i sanitari che lo hanno visitato, constatandone il grave stato depressivo, si sono stranamente ben guardati dall’informare tempestivamente la linea aerea, presso cui il Lubitz lavorava, dell’esistenza del concreto pericolo per l’integrità dei passeggeri di un qualsivoglia volo, rappresentato da quello strano pilota. Disattenzione o cosa? Altra bizzarria di tutta questa assurda vicenda. La presenza nel cuore pulsante di un aeromobile ad uso civile, rappresentato dalla cabina di pilotaggio, di due sole persone alla guida, così che, se uno dei due, per un qualunque motivo, si fosse allontanato, l’altro avrebbe tranquillamente potuto fare ciò che voleva. La qual cosa, si è poi  verificata in tutta la propria tragica “magnitudo”. A dar retta a tutte quelle persone che parlano per schemi mentali banali e preconfezionati, ci verrà risposto all’istante che di “regolamenti di volo internazionali” si trattava e certo non di arbitrarie decisioni, visto che, in un volo aereo, nulla dovrebbe esser lasciato al caso… E’ questo che ci preoccupa, per l’appunto. I criteri che dovrebbero ispirare le misure di sicurezza all’interno degli aeromobili e che sembrano non tener assolutamente di conto, quanto accaduto con l’11 Settembre. Menefreghismo e mala fede, sembrano andare di pari passo con una gestione effettuata un po’ troppo “alla leggera” e la cui causa portante va, innanzi tutto, ricercata nelle politiche neoliberiste e nella forsennata ricerca di un risparmio a tutti costi che permetta alle compagnie aeree, con costi di gestione ridotti all’osso, dei guadagni spropositati, costi quel che costi. Sebbene nuovi (in apparenza…) la maggior parte degli aviogetti delle varie linee low-cost ed il personale annesso, sono spesso impiegati in turni di lavoro massacranti e praticamente senza soste, a detrimento della sicurezza dei voli. Il tutto, accompagnato dalla realtà di passeggeri che, una volta passati i vari check-in e controlli bagagli, si trovano all’interno dell’ambiente di un aeromobile, trasformato in una specie di terra di nessuno, privo della presenza di una qualsivoglia organizzazione di sicurezza, che non sia quella della tombale chiusura della porta della cabina di pilotaggio. Ma è solo questione di una alquanto maldestra propensione al risparmio da parte delle compagnie, o c’è qualcos’altro? Certo è che la caduta dell’aviogetto si è verificata quasi in concomitanza con la strage effettuata in quel di Tunisi, al Museo del Bardo,da parte di un commando dell’ISIS. Né andrebbe dimenticato l’ “annus terribilis” della Malaysian che, con la perdita di ben tre aviogetti ( di cui uno misteriosamente scomparso, uno abbattuto nello spazio aereo tra Crimea ed Ucraina, l’altro caduto in mare ed i cui resti, sono tuttora in fase di recupero, sic!) la cui dinamica è, tuttora, ancora poco chiara, costituendo un pericoloso precedente, su cui riflettere. A prestare attenzione a quanto riferito da alcune agenzie di stampa, sembra che di fronte alla domanda di un cronista, su quali fossero le credenze religiose del Lubitz, le autorità tedesche abbiano opposto un secco “no comment”, giustificato, a loro dire, dall’irrilevanza della cosa ai fini investigativi. A vederla così, sembrerebbe quasi che le autorità preposte alle indagini su tutti questi recenti disastri aerei, siano in preda a vere e proprie moralistiche ritrosie nel pronunciare il termine “terrorismo”, a proposito di questi fatti. Forse perché nell’indicare a responsabili di questi atti, una delle varie sigle del cosiddetto terrorismo islamico, si potrebbero rischiare delle reazioni “incontrollate” da parte di un’opinione pubblica europea, già esacerbata da politiche neoliberiste che, della massiccia affluenza di immigrati da ogni dove, sul suolo del Vecchio Continente, hanno fatto uno dei propri punti cardine ideologici ed economici. Immigrazione massiccia equivale ad un altrettanto massiccio abbassamento del costo del lavoro, ad un maggior frazionamento e ad una progressiva dispersione dell’identità etnica e culturale delle varie comunità nazionali che, in tal modo vanno perdendo la coscienza unitaria dei propri diritti. In questo, il terrorismo ISIS costituisce un ulteriore passo in avanti su questa strada. L’intimidire, il minacciare, il destabilizzare, fa parte di un piano volto a fiaccare il morale delle varie opinioni pubbliche nazionali europee che, nel timore di rappresaglie, sempre meno osano opporre una qualsivoglia forma di resistenza al rafforzamento ed all’avanzata di una presenza islamica all’interno dei propri contesti socio economici. Una presenza da intendersi, unicamente, quale espressione di una lobby che, attraverso la propria influenza in loco, sarebbe in grado di aumentare, ancor più, la dipendenza dei paesi europei dalle direttive geostrategiche ed economiche delle monarchie sunnite del Golfo e degli USA. D’altronde, la storia dell’integralismo islamico sponsorizzato da USA, Paesi del Golfo, Israele e satelliti “occidentocentrici” vari, non è certo una novità ed è andata ripetendosi nel corso dei decenni, nei vari contesti attraversati da tensioni di questo tipo, dalla Bosnia all’Afghanistan, passando per Iraq, Siria, Libia e compagnia bella. Ma c’è un lato che, se vogliamo, rende questa vicenda ancor più tragica ed oscura. Al pari di altri precedenti di questo genere, quello del pilota tedesco è stato un omicidio-suicidio che, ci pone di fronte alla domanda sull’esatta natura di questi gesti che, oggidì, sembrano andare per la maggiore. Persone totalmente anonime nella propria normalità, giovani, padri di famiglia, madri, si trasformano d’improvviso in belve assassine che, nei propri “raptus”, finiscono con il coinvolgere vite innocenti, in una sequela che ha come proprio degno finale, il quasi rituale suicidio del protagonista. Esponenziale aumento del disagio sociale, con la corrispettiva perdita di senso e valore per la vita umana o cos’altro? Da tempo si va vociferando di tecniche occulte di condizionamento psicologico, messe a punto inizialmente dagli Stati Uniti (il cosiddetto Piano Monarch, sic!) e dall’ex URSS, per arrivare alla creazione di veri e propri soldati-automi, in grado di combattere ed uccidere senza provare alcun dolore o sensazione, dopodiché, con la fine dell’URSS e l’avvento del dominio globale USA, autonomamente sviluppate da “Lor Signori”, al fine di arrivare alla totale manipolazione delle coscienze a livello planetario. Un mondo di automi decerebrati, mossi unicamente da un belluino istinto per il consumo. Un ordine sociale, mantenuto con la diretta eliminazione fisica di chi può disturbare, da parte degli stessi cittadini-automi, senza il bisogno dello scomodo e costoso intervento, di pubbliche autorità. Oppure il poter scatenare subitanei attacchi di insensato caos e violenza, al fine di poter giustificare qualunque provvedimento restrittivo della libertà. Ordo ab Chaos, dunque. Un Caos globale, accompagnato dalla progressiva perdita di significato delle grandi narrazioni ideologiche novecentesche, ora sostituite dall’apparire sul proscenio, di una ben più inquietante realtà, rappresentata dalla sempre maggior presenza di quelle che, con un vecchio termine, frutto della sociologia applicata al campo giuridico, potremmo definire come psico-sette. Movimenti o gruppi imperniati su parole d’ordine molto semplici, assurte a livello di maniacale ritualità, espressione di un capo o di un gruppo ristretto di cui, inizialmente, solo pochi fanno parte. Qui non vi è né dibattito interno, né studio o ricerca critica, né traccia di costrutto ideologico, bensì incondizionata aderenza a qualsiasi prescrizione venga impartita. Si agisce, commettendo le peggiori nefandezze, alla stregua di automi, senza alcuna traccia di coscienza, rimossa dalla presenza della setta, alla quale si può acriticamente sacrificare la propria vita. Logge deviate, sette sataniche, forme di pseudo religiosità fai-da-te ed altre ancora, rappresentano le principali espressioni organizzative di questa silenziosa presenza dalla quale, però, non andrebbero escluse a priori le varie sigle del più recente terrorismo islamico. Gli spaventosi ed indiscriminati massacri che hanno avuto la firma di questi gruppi, denotano una modalità di azione che non si discosta molto da quanto poc’anzi descritto, anzi. Il sospetto è che, determinate organizzazioni agiscano e si muovano, secondo un’agenda già abbondantemente predeterminata. E dunque, il massacro dell’Airbus potrebbe essere il risultato di una delle cause precedentemente indicate o, ancor peggio, della concomitanza e della coincidenza sinergica di tutte assieme. Ma, poiché qui stiamo semplicemente navigando nel regno di ipotesi (anche se in verità molto realistiche…) rimane, forte, la presenza di un dubbio che sembra voler assaltare in ogni momento, qualunque granitica certezza. E se le sigle del terrorismo islamico, fossero solo una maligna trovata dei Poteri Forti? E se quei massacri attribuiti a quei gruppi fossero, invece, solo una montatura propagandistica occidentale? E se la strage dell’Airbus sia stata causata unicamente dalla gestione un po’ troppo sbarazzina, della German Wings? Ed ancora, tanti altri interrogativi, senza risposta…Di veramente tangibile, per ora, accanto all’immagine di un immane disastro, solamente il dolore delle vittime e l’immagine di un’Europa che, al di là delle belle parole e del solito latrare buonista e pietista, è rimasta, ancora una volta, vergognosamente al palo..

 

                                  ROMA CAPOCCIA

 

“Roma capoccia der monno infame…”. Così recitava l’adagio di una vecchia canzone di Lando Fiorini dei favolosi anni ’70. E così sembra che, sulla falsariga di quei magici versi, l’incantesimo si sia realizzato. Roma la grande, la bella, la romantica e maestosa Urbe, ma anche la Magna Mater di bande di intrallazzoni, magheggioni ed “accattoni” d’ogni sorta e tipo. Quella fauna che credevamo sparita, magari relegata ai ladri di biciclette di rosselliniana memoria o ai gobbi del Quarticciolo o agli squallidi accattoni, tanto magistralmente descritti da Pasolini, quella fauna invece, leggendo le cronache di questi giorni, ora te la ritrovi lì, addirittura nel cuore delle istituzioni capitoline, nel ruolo di sottobosco del malaffare che gira e fiorisce attorno alle mille attività di una metropoli se non, addirittura, nelle stanze dei bottoni della politica. Inutile latrare di ideologie, di Neri, di Rossi o finanche di partiti da “ripulire”. Quello nostro è un male che viene da molto più lontano. E’ il frutto del sedimentarsi di plurisecolari situazioni di corruttela, inefficienza, spreco e noncuranza, a cui oggidì, come benzina sul fuoco, si sono aggiunte delle particolari contingenze storiche e geopolitiche. Che non ci venissero a dire che l’Urbe prima di Alemanno o di Marino era gestita come un orologio svizzero, perché sappiamo benissimo tutti che non è mai stato così, anzi. A parte il glorioso periodo dell’antica Roma, il fortunato intermezzo tra Rinascenza e Barocco, la breve parentesi della gestione Nathan ed il Ventennio (con tutte le sue luci ed ombre…), Roma è stata per secoli mal gestita e, troppe volte, lasciata a se stessa ed agli appetiti dei vari invasori e profittatori di turno che, nei loro via vai, hanno contribuito alla grandezza di tanti, troppi musei e raccolte d’arte stranieri. Le bellissimi e romantiche vedute piranesiane e le immagini dei vedutisti, ci sono testimoni di una città il cui splendido patrimonio artistico giaceva abbandonato in mezzo ad erbacce, mandrie di pecore e cortigiane appollaiate sulle sue rovine…certo, abbiamo visto che Roma ha poi anche conosciuto parentesi di gloria e di esaltante creatività, ma è sempre tutto rimasto confinato a determinati momenti. La tanto esaltata modernità, dal secondo dopoguerra in poi, ha portato ad una disordinata crescita urbanistica, accompagnata da speculazioni e malversazioni d’ogni sorta e tipo. Alienanti quartieri-dormitorio, cresciuti in spregio a qualunque forma di rispetto per chi vi sarebbe andato ad abitare, le ville edificate in aree archeologiche (vedi Appia Antica, sic!), il traffico urbano cresciuto a dismisura, senza alcun criterio o controllo che dir si voglia, il trasporto pubblico carente, il Tevere lurido ed inquinato all’inverosimile, lo splendido patrimonio artistico ed architettonico romano, impietosamente esposto a smog ed intemperie varie ( ed a cui si è iniziato a provvedere da pochi anni a questa parte…). Potremmo continuare con un elenco tale che non basterebbero cento e passa pagine. Rimane il fatto che i problemi di Roma non li hanno certo creati le ultime due giunte, ma sono frutto di ben più antichi retaggi, a cui va però aggiunta una mala fede accompagnata ad un’incapacità di fondo tutta italiota. Ora, per esempio, la gogna mediatica all’insegna del buonismo e del politically correct, va ai “cattivacci” di turno, a quello strano “trait d’union” rosso-nero, a quel multicolore comitato d’affari che, a detta di lor signori, faceva e disfaceva i corrotti fati di Roma Capitale. Ed allora, giù mazzate ed alti improperi di condanna. “Anatema, vergogna!” per “quei compagni che sbagliano e fanno loschi affari con la Belva nazi-fascista, con la Bestia Nera…”, di volta in volta rappresentato da qualche reduce dei plumbei ’70 e da qualche sua stantia e compromettente amicizia malavitosa e che ora, per questo, si vedrà accollare, italico more, di tutto e di più. Tangenti, Mafia, Camorra, Gomorra, ‘Ndrangheta, ora addirittura la regia della rivolta popolare di Tor Sapienza (sospetto insufflato con mistico ardore da, guarda un po’, tale Gabriella Errico, titolare della “29 Giugno”, la “umanitaria” cooperativa che gestiva i “poveri minori” poi sfrattati da Tor Sapienza, sic!) e quella degli scontri da stadio e, perché no?, la morte o la sparizione di qualche minorenne da rotocalco televisivo alla “Chi l’ha visto?” sino ad arrivare, statene certi, all’accusa di essere un agente al servizio di lor signori, gli Extraterrestri Rettiliani. Ma facciamola finita! Non saremo certo noi, a difendere le “singolari” scelte di vita di certi personaggi, ma che non ci venissero però a riproporre il solito e melenso ritornello italiota dei “cattivacci”, sulle cui spalle accollare di tutto e di più. Sappiamo benissimo che dietro il malaffare, in tutte le sue espressioni, si celano i Poteri Forti del Mondialismo, quegli stessi Poteri che hanno deciso di fare del nostro povero e disgraziato Bel Paese, una specie di sudicio e miserando Ostello per sbandati, profittatori, emarginati e poveri di tutto il mondo. Un disegno ben preciso, volto a realizzare la Globalizzazione della Miseria, perché i più stiano peggio, per permettere ai pochi di profittare ancor più agevolmente. E tutto questo alla faccia della dignità, della decenza, del benessere e della libertà dei popoli sottoposti a questa “terapia”. Parlare, additare singoli, evocare ed ammiccare a situazioni e parametri ideologici del passato è, non solo sinonimo della più totale ignoranza e mancanza di coscienza, riguardo a quanto abbiamo poc’anzi detto su certi disegni ma, anche e soprattutto, di una malcelata e disgustosa malafede riguardo ad un altro scottante dato di fatto. “L’occasione rende l’uomo ladro”, recita più o meno, un ben collaudato adagio popolare. Ora l’aver pensato di poter impunemente creare, con apposite leggi e leggine, un sistema di tali e tanti generosi finanziamenti e stanziamenti pubblici, destinati a chi apre cooperative specializzate per assistenza e solidarietà per immigrati, rom e compagnia bella, senza che questo generi una ragnatela di inghippi e mazzette da capogiro, per accaparrarsi tanto ben di Dio, beh, allora bisogna essere animati da una criminale deficienza! In un paese come il nostro, particolarmente caratterizzato da una collaudata tradizione criminale, creare “de lege” certe situazioni, è come gettare benzina sul fuoco. A noi poveri fessi, cotanta profusione di stranieri ed allogeni, in piena libertà di pascolo sull’italico suolo, sembrava cosa strana ed oggetto di più di un interrogativo. Da tempo si vociferava su soldi, sovvenzioni e quant’altro, a costoro elargiti attraverso chi sa quali, occulti canali. Poi la verità, o per lo meno una parte di essa, è venuta fuori. Ma sbaglia, si illude, chi crede nei proclami giustizialisti; il disegno mondialista va avanti senza intoppi. E’ solo una questione di cambio guardia. Forse certi personaggi, certe realtà, erano troppo stantie. Certe parti politiche troppo ammuffite e compromesse. Magari si doveva colpire al basso ventre dell’amministrazione capitolina, per colpire altrove. Per spazzare via vecchi equilibri della politica nazionale ed instaurarne di nuovi. Il Globalismo cambia pelle e nel farlo, non esita a sacrificare senza alcun riguardo, i suoi precedenti tirapiedi, così come abbiamo visto fare agli USA con tutti i propri alleati, più o meno fedeli. Un’armata di giovani ed incompetenti yuppies, sta portando al completo smantellamento dell’Italia, come realtà politica, economica e sociale. Ma anche al conclamato ed irrimediabile fallimento, dello sdolcinato buonismo progressista e dei suoi ipocriti modelli di forzata convivenza, che i vari scandali odierni hanno mostrato essere inapplicabili ed assolutamente incompatibili, con la realtà ed il substrato socio-economico del nostro paese. Rimane l’immagine di una Roma “capoccia”, sì, ma di un degrado ed un abbrutimento che, da regina tra le città del mondo, l’ha rapidamente fatta discendere a fogna-suk per masse anodine ed alienate, accomunata da uno squallido destino, a tutta l’Europa e l’Occidente e che solo un forte sentimento di riscatto e giustizia, senza se senza ma, potrà risollevare.                                              

L'Italia saccheggiata

 

 

Credevamo di avere visto di tutto, ma questa, proprio, ci mancava. Poco tempo fa, la solita partita di Coppa Europa, si è trasformata in un’ occasione per dare luogo a scontri, danneggiamenti e quant’altro, nel solito squallido scenario di degrado e teppistica brutalità. Solo che, questa volta, c’è stato un vero e proprio “salto” di qualità. Già, perché stavolta a fare le spese degli esercizi di teppismo della solita banda di umanoidi decerebrati, non sono stati i muri, le aiuole, le macchine parcheggiate ed i poveri passanti dei soliti quartieri Flaminio e Prati. No, stavolta a farne le spese è stata niente popodimeno che la “Barcaccia” di berninana memoria, situata nel cuore di Roma, nella splendida cornice di Trinità dei Monti, a Piazza di Spagna. Anche in questa occasione, gli umanoidi da stadio hanno dato il meglio di sé, insozzando, danneggiando ed infliggendo ferite oltre l’immaginabile alla splendida opera d’arte, trasformata per l’occasione, in una specie di latrina piena di bottiglie e lattine e, dopodichè, fatta oggetto di un lancio bottiglie tale, da danneggiarle i preziosi marmi. Ma ciò che, di questo triste episodio lascia veramente sconcertati, ponendoci di fronte a dei gravi interrogativi, è stata la totale inerzia delle nostre autorità, dai vertici sino alle sottostanti catene di comando. Orde di teppisti alcolizzati sono stati lasciati tranquillamente sciamare in centro, sino a Piazza di Spagna e lì, con spirito di buonistica rassegnazione, impunemente lasciati pascolare ed orinare. A pagare sono stati in pochi, per lo più fermati, processati “al volo” e poi, quasi con imbarazzata vergogna, frettolosamente rispediti a casa, dopo aver impunemente, insultato, offeso e dileggiato davanti alle telecamere, la città intera e le sue autorità. Gli scambi di accuse, i “distinguo”, le richieste di dimissioni, le alte grida, non bastano. Né si può ridurre l’episodio ad uno dei tanti, troppi, episodi di ordinario teppismo. L’inerzia con cui è stata condotta l’intera vicenda, ci mette di fronte ad una prima considerazione di carattere, diremmo quasi, sommario, elementare, ma non per questo, meno reale in tutto il suo palesarsi a noi. “Straniero è bello”. Non è lo slogan di una nuova campagna pubblicitaria del solito ed immarcescente Benetton, ma sembra essere divenuto una sorta di imperativo categorico assurto ad andazzo di vita di un’intera società. La lecita e fisiologica attrazione verso ciò che è altro, diverso, da noi; culture, società popoli e via discorrendo, si è, nel nostro caso, trasformata in una sorta di monomaniacale adorazione, accompagnata da una sorta di impaccio psicologico, per cui, costi quel che costi, l’altro da noi va accettato in tutte le sue sfumature, anche in quelle più negative e controproducenti. Un primigenio tabù, gli conferisce una sorta di “extraterritorialità morale”, nel nome della quale, qualunque cenno di critica o avversione è oggetto di un’immediata condanna ed ostracismo collettivi, che non sembrano risparmiare proprio nessuno. Dall’allenatore di calcio, additato al pubblico ludibrio, magari per aver solo osato affermare l’eccesiva presenza di giocatori stranieri nei nostrani vivai giovanili, sino all’ambito dell’agone politico e mediatico, ove, ancor più forte, è la tentazione alla censura ed alla condanna senza appello. “Straniero è bello”, dunque, senza se e senza ma. Magari fosse solamente per cose dozzinali come il calcio o, anche pur se gravi, solo per i gesti di teppismo. La nostra strana esterofilia ci ha portato, però, a ben altro. “Straniero è bello”, è un po’ il plurisecolare ed italico vizio di chiamare truppe straniere a supporto e difesa dei cavoli propri, costi quel che costi, anche la perdita della libertà. “Straniero è bello”. E oggi l’Italia pullula di basi americane, MUOS, etc. e nessuno può farci niente, altrimenti si rischiano “danni collaterali” da strage; da strane bombette qua e là piazzate da ineffabili “men in black”, coperti da altrettanti ineffabili “Segreti di Stato”. “Straniero è bello”. Anche se al Cermis ti tranciano una seggiovia o, per amorevole errore, ti accoppano il Calipari di turno o, quatti quatti, riforniscono i tuoi ragazzi in divisa di munizioni “arricchite” all’uranio. “Straniero è bello”. Anche se quegli stessi amorevoli “stranieri” dell’alta finanza hanno deciso il genocidio del tuo popolo, facendoti invadere da orde di decerebrati subumani, a cui qualcuno ha suggerito che, se si fossero fatti 10.000 e passa km tra deserto e gommone in mezzo al mare, bussando con l’etichetta di “Immigrati”, avrebbero trovato il paradiso in Europa e non l’inferno dello sfruttamento, il disprezzo, la miseria o la morte in mare. “Straniero è bello”. E’ bello avere i coltelli puntati sotto casa, perché ci siamo fatti scippare la Libia e tanti bei proficui business da quella simpatica e multicolore combriccola di Sarkozy, Obama e compagnia bella.

“Straniero è bello”. Sì è bello, bellissimo, calare le braghe davanti a Bruxelles, svendere il nostro patrimonio pubblico, far saltare il nostro know how imprenditoriale e magari svenderlo a prezzo di costo, ai cari affezionati stranieri. Ma sì, quegli stessi a cui, oggidì, abbiamo demandato l’emissione e la vendita di una moneta bastarda ed aliena chiamata Euro, simbolo di tutti guai che abbiamo e stiamo passando. “Straniero è bello”. Eccovi l’unico paese “democratico” al mondo, la cui capitale ospita al proprio interno, uno staterello assolutista, teocratico e bigotto che, ben lungi dal rispettare quel principio di sovranità, generosamente elargitogli con i famosi Patti dall’italico stato, continua ad interferire ed a ciurlare pesantemente nel manico degli affari nostri, con incalcolabili conseguenze per l’italica integrità e sovranità. Esagerazioni? Estremistici deliri di un qualche pazzoide? No, solo la semplice e terribile fotografia di un paese per cui, “qualcuno”, da fuori, ha decretato la fine, senza tante storie. Forse 150 e passa anni di indipendenza, una invidiabile posizione sul Mediterraneo sono tanti, troppi anche per chi, come “lor signori”, contavano su un guardiano zelante e fedele. Costoro, d’altronde, oggidì possono contare su altri e più affidabili cani da guardia. I bombarda-civili israeliani, per esempio. Oppure quella banda di scapestrati birbaccioni che, dapprima cresciuti nella “swinging London”, poi, improvvisamente, convertitisi a più morigerati costumi e barbute acconciature, ora sono qui e là insediati in strani “califfati”, che tanto sanno di entità teleguidate da “qualcuno”, al fine di distrarre una pubblica opinione sempre più stufa delle crescenti ingiustizie del modello liberista. Certo, potremmo continuare all’infinito con esempi, aneddoti e quant’altro; resta peraltro, una ed una sola semplice e sconvolgente conclusione a tutto questo. Non basta essere a conoscenza dei mali, né tantomeno dei rimedi ad essi. A conferire il vero salto di qualità è quella capacità di saper declinare Pensiero ed Azione all’unisono, al fine di realizzare quella perfetta sintesi in grado di determinare ed indirizzare un’azione politica scevra da ricadute, compromessi, piccinerie, abbagli e quant’altro. Una prassi politica “elastica”, ma al contempo sostenuta da un robusto impianto di pensiero, non potrà non portare nel tempo che a risultati positivi. Questo a patto che, si abbia voglia e capacità di sapere attrarre attorno al proprio progetto politico sinergie ed impostazioni differenti, senza fare troppo gli schizzinosi, pena la costante emarginazione ed ostracizzazione dalla politica che conta. La recente prospettiva offerta in Italia dalla comparsa di una nuova “gestione” del movimento Leghista, ora sicuramente più nazionalitaria, meno localista e più attenta a determinate tematiche “scomode” se, da una parte, a causa dei recenti trascorsi, può lasciare diffidenti, dall’altra non può non esimerci dal prendere posizione e dallo scommettere su un percorso, che potrebbe precludere a sviluppi veramente inediti, per lo scenario politico nostrano. Premesso che il tutto venga accompagnato da buona fede e chiarezza di intenti, altrimenti saremo costretti ad assistere alla solita squallida e melensa telenovela, a cui la politica italiana ci costringe usualmente ad assistere.             

                                                                                 

 

Chi la fa l'aspetti...

 

Obama strilla. Repubblica pure. “I mostri sono alle porte!” “Li abbiamo sottovalutati!” “Sono barbuti e feroci!” e poi “Tocca intervenire..” Oh per carità! Nessuno approva massacri e sgozzamenti, ma in tutto questo can can mediatico contro l’ISIS, c’è qualcosa che non quadra. Già il fatto che “Repubblica” gli dia così addosso, è quanto meno sospetto…Il fatto è che, qualcuno sembra esser stato colto da un improvviso e, quanto mai improvvido, attacco di amnesia. Sì perché, se non ve lo ricordate, sino a qualche mese fa, i poveri “barbudos” erano ampiamente sponsorizzati ed addestrati da Qatar, Arabia Saudita, ma anche Francia, Gran Bretagna, Usa e chissà quanti altri bravi “occidentali”, contro i vari “cattivacci” di turno a cominciare dal Presidente della Repubblica Araba di Siria, Assad, sino ad un altro incomodo personaggio, il Colonnello libico Muammar Gheddafi, a cui è poi andata molto male, essendo state vigliaccamente assassinato, con il “placet” dei vari coglioni di turno, come gli allora governanti italioti. Con Assad, invece, il copione non ha potuto essere sinora rispettato, a causa del supporto politico di Russia e Cina, ma comunque, restano distruzioni, morti ed il “regalino” dell’ISIS ben impiantato in loco. Stessa solfa per l’Iraq dove, grazie alle interessate e quanto meno inopportune, ingerenze USA, si è scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Gli Sciiti filo USA di Al Maliki e filo iraniani dell’ayathollah Al Sistani contro i Sunniti, laici o in salsa integralista, a loro volta rigirati contro i “peshmerga” Curdi di Jalal Talabani, tutti senza esclusione di colpi. Senza voler citare altri “capolavori”, come quelli in Afghanistan o in Somalia, trasformati in veri e propri santuari e trampolini di lancio per certe esperienze. Al di là degli interessati “mea culpa” del Pacifista di Washington, i fatti parlano molto chiaro. L’ISIS è il frutto diretto della politica (e delle sovvenzioni!) di “Lor Signori”. Altra immane castroneria vomitata dalla malafede dei media embedded. Qualcuno ci dovrebbe dire come si fa a “contrabbandare” in modo così massiccio, come certi media ci riferiscono faccia impunemente l’ISIS, il petrolio. L’oro nero, è risaputo esser risorsa così preziosa da essere sottoposto al rigido monopolio delle famose “Sette Sorelle” che, per questo non hanno mai esitato a far amorevolmente fuori chiunque ne osasse contrastare il dominio, (Mattei docet, sic!). Pertanto l’interrogativo su se, come ed a chi costoro vendano, è più che legittimo, a meno che il tanto esecrato smercio non venga effettuato con un giro di “succhi” e taniche. Battute a parte, era “illo tempore”, cosa risaputa che gli Usa ed i loro alleati sovvenzionassero gli integralisti sunniti, inizialmente in funzione anti sovietica, successivamente in funzione anti iraniana, via via sino ad arrivare alle odierne “primavere” arabe, sponsorizzate al fine di regolare i conti con qualsiasi voce contraria o indipendente dai salamelecchi e dai consensi corali a determinate istanze geostrategiche e geoeconomiche globaliste. Con i fatti dell’ISIS potremmo dire che, forse qualcosa a “lor signori”, è sfuggito di mano. O forse no. Un fatto sopra tutti. Sembra che le vacanze estive abbiano fatto dimenticare alle pubbliche opinioni di mezzo mondo che, in quel di Palestina, a Gaza con l’esattezza, è stato perpetrato un piccolo genocidio, in veste di rappresaglia israeliana contro il lancio di razzetti Kassam in Galilea. Si parla di, approssimativamente, 2.000 morti palestinesi, a fronte di neanche una trentina di israeliani (per lo più militari), deceduti durante le varie fasi dei combattimenti. Una rappresaglia, che ha fatto gridare di indignazione anche una consistente fetta dell’opinione pubblica israeliana, ma alla quale non è seguito alcun serio tentativo di fare, in qualche modo, giustizia dell’accaduto. Poi, d’improvviso, quando in Siria la battaglia stava per esser vinta dalle forze lealiste, e la politica USA-centrica iniziava a risentire le prime serie difficoltà nella regione, ecco sbucare come un coniglio dal cilindro di un perverso prestigiatore, l’ISIS. Capocce tagliate, sgozzamenti ed i corifei buonisti di mezzo mondo urlanti allo scandalo e, stranamente, dei duemila palestinesi uccisi a Gaza, non si parla più. Coincidenza? Altro “strano” fatto. Le coste dell’Italia, in questo periodo, sono ripetutamente prese d’assalto da centinaia di barconi e barchette, per lo più provenienti dalle coste libiche e stipate di “profughi” paganti fior di soldoni a quanto mai improvvisati e spregiudicati barcaioli clandestini. Oltre a patologie come TBC, Epatiti varie, meningiti, Ebola e compagnia bella, questi strani “refusnik”, portano seco anche la spiacevole tentazione di compiere atti terroristici in Italia, visto che, il più di loro, proviene dalle aree di “coltura” dell’ISIS. Va inoltre ricordato, che dalle varie agenzie di intelligence di mezzo mondo, è da tempo stato lanciato l’allarme su quanto abbiamo qui testè detto. Di fronte a tutto questo, il governo buonista Renzusconi, cosa fa? Ti promuove, guarda un po’, un’operazione “umanitaria” atta a salvare, accogliere ed ospitare indiscriminatamente i nostri nuovi invasori. Sì, perché adesso sarebbe anche ora di smetterla di girarci attorno. Quella a cui stiamo assistendo da molto, troppo tempo, è una vera e propria invasione del territorio nazionale da parte di migliaia di finti “refusnik”, sponsorizzata, coordinata ed alimentata da quelle forze che vogliono indebolire, sfiancare ed annacquare il patrimonio culturale ed identitario dei popoli europei, italiani in primis. La perdita di tale patrimonio rappresenta la perdita di coscienza di un popolo e quindi, la sua immancabile fine. Un popolo senza identità, non ha coscienza dei propri diritti ed è quindi, destinato ad essere sottomesso ed a divenire un perfetto ed anodino tubo digerente, unicamente dipendente dalle regole e dai meccanismi dettati dai mercati. Ed è quello che l’alta finanza mondiale, per mano dei suoi scherani USA-centrici sta facendo. L’ISIS è probabilmente lo strumento prediletto, forse un po’ troppo autonomo e volubile, ma comunque efficace, per ribadire la ricetta USA per i mali del mondo: più interventi per “esportare” la democrazia nel mondo, più buonismo contro tutti i “cattivacci” e gli intolleranti, più liberismo e corruzione per stemperare sentimenti ed ideali troppo “forti”, più miseria per l’Europa ed il mondo, per ricattare meglio i popoli con il cappio del debito usuraio….

testo e modificami. Sono un posto ideale per raccontare una storia e condividerla con i tuoi utenti.

Tor sapienza: una rivolta dovuta.

 

Una strana coltre di “distinguo” e polemiche sotto tono, sembra essersi distesa su una zona di Roma, di recente balzata agli onori delle cronache. I cassonetti bruciati, le bombe carta, le cariche della polizia, la rabbia dei residenti, nonostante il frastuono, sembrano destinati a consumarsi nel buio e nel silenzio della notte delle periferie romane. A parte le cariche e le immancabili manganellate, generosamente elargite in risposta ai problemi della gente, le nostre “autorità” hanno tenuto un comportamento di, diciamo così, “basso profilo”. L’invio di una timida delegazione a rappresentanza delle autorità comunali, per far finta di capire cosa stesse lì accadendo, i complici palleggi tra il ministro degli interni ed un sindaco, la cui unica dimostrazione di sfrenato attivismo sembra essere la celebrazione di nozze gay e stronzate simili, ma anche lo strano e colpevole silenzio delle varie prefiche del politically correct, stanno lì a dimostrarci un qualcosa. Stavolta non si tratta di una bravata xenofoba contro “poveri immigrati”, né di gesti di discriminazione compiuti in un’ottica di arroganza sociale, all’insegna del solito leit motiv dei “ricchi-contro-poveri”. No, niente di tutto questo. Stavolta ci troviamo di fronte ad una lotta per la sopravvivenza. Ed a prendere l’iniziativa, stavolta, sono operai, studenti,piccoli artigiani, giovani, donne, disoccupati ed emarginati, ovverosia quel popolo, quel proletariato di quelle periferie, per le quali tante belle parole, intenzioni e promesse sono state latrate al vento per decenni, da parte di quel ceto politico dalle vedute tanto aperte e “progressiste” di sinistra, ma anche di “centro” o di “destra” che dir si voglia. Ora quel popolo, quel tanto amato, osannato, proletariato, si è ribellato agli assurdi diktat di tutti coloro che, nel nome del buonismo e del politically correct, vorrebbero imporgli un vero e proprio suicidio, con l’immissione di una massiccia presenza di immigrati stranieri, che andrebbe via via rafforzandosi, sino a sovrapporsi e sostituirsi del tutto agli autoctoni, togliendo loro spazio, sino a confinarli ai margini della vita sociale. In questa ottica, abitazioni, strade, piazze, ma anche posti di lavoro, spazi vitali in genere, vengono occupati con spirito di arroganza e prevaricazione. In base ad assurde e discriminatorie disposizioni, a costoro vengono elargiti fondi, sussidi e trattamenti fiscali di favore, qualora aprano qualche attività, mentre per i connazionali, qualunque attività lavorativa è soggetta ad una tassazione che può tranquillamente superare il 40% di prelievo sul reddito. Strade, piazze e giardini pubblici, divengono luoghi di bivacco e spaccio di droga, sede ideale per compiere stupri, molestie e rapine ai danni di indifesi lavoratori e cittadini. Strutture abitative che dovrebbero ospitare famiglie di giovani, lavoratori, anziani e disoccupati, vengono invece proditoriamente occupati da orde di “immigrati”, aiutati, incentivati e coordinati, proprio da quei cosiddetti “centri sociali”, onlus ed organizzazioni “caritatevoli” in genere, che hanno oramai mostrato a tutti la loro vera essenza di braccio armato del Capitalismo e dei suoi Poteri Forti. Quanto poi alle nostre autorità, preposte all’ordine pubblico, sembra che tutti gli episodi riguardanti abusi e violenze che hanno condotto alla morte di un cittadino, riguardino esclusivamente gli italiani. Stefano Cucchi e Gabriele Sandri, ma anche Federico Aldrovrandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Stefano Brunetti, Riccardo Rasman, sono solo alcuni dei nomi delle vittime di violenze e comportamenti “poco ortodossi” dell’autorità giudiziaria, a cui vanno affiancati quell’elenco oramai sterminato di vittime di abusi e violenze, compiuti con mille modalità (tra cui spicca anche il considerevole numero di vittime da omicidi stradali, sic!) causati da comportamenti illeciti dei cosiddetti “immigrati”, verso i quali le nostre autorità sembrano tenere un atteggiamento alquanto permissivo, mai compiutamente sanzionato, avvalorando, in tal modo, il vecchio adagio di uno Stato “debole con i forti e forte con i deboli”. Quale senso poi tutto questo possa avere, è presto detto. Quello a cui stiamo oggidì assistendo, è un vero e proprio tentativo di genocidio etnico, messo in atto dal Capitalismo e dai suoi Poteri Forti, al fine di sostituire ad un popolo, dotato di quella minima coscienza dei propri diritti, una massa informe di sradicati, totalmente aliena da qualunque forma di coscienza civica e perciò stesso, sfruttabili e manovrabili a piacere. A fondamento del Capitalismo sta un’idea di crescita economica senza limiti, pertanto, al fine di potersi autoalimentare, sono necessarie masse informi ed alienate da poter sfruttare indiscriminatamente, al posto di comunità di individui coscienti dei propri diritti. Costoro finirebbero per fare dell’Economia un semplice veicolo per soddisfare le proprie giuste necessità, frenando e rallentando definitivamente le aspirazioni delle oligarchie finanziarie al dominio globale. Ciò che fa la differenza tra una massa sbandata e multietnica ed una comunità fornita di un minimo di compattezza etnica, è il quel grado di coscienza del bilanciamento tra doveri e diritti che un affastellato di differenti culture non può, giuocoforza, possedere facendo, in tal modo, il gioco di tutte quelle forze politiche, economiche e sociali, legate al Capitalismo Globale. Non solo. La convivenza sul medesimo territorio di un rilevante numero di etnie e culture differenti, al fine di non ingenerare uno scontro senza fine, non può non passare attraverso una forte limitazione dei diritti individuali dei cittadini, effettuata proprio al fine di non urtare e per limare le diverse sensibilità etniche, in direzione di un unico ed alienante modello di sviluppo. A questo proposito, basterebbe guardare a tutti quei paesi a vocazione multi etnica dove, da una parte miseria, violenza e sperequazione sociale convivono in un esplosivo mix (vedi gli USA) o dall’altra si hanno modelli di alienante dittatura “neo paternalista” (Cina, Singapore, Malaysia, etc.). Un’ultima, ma fondamentale chiosa. I soliti imbecilli di regime, hanno incominciato subito a latrare di “violenza fascista” a proposito dei fatti di Tor Sapienza, cercando di imporre all’immaginario collettivo la distorta versione di orde di fantasmatici “fascisti”, intenti ad infiltrarsi e provocare incidenti. Niente di tutto questo. Per capire cosa sta accadendo nelle periferie di mezza Italia, bisogna ricorrere ad una categoria politologica oggi forse un po’ in disuso, ma che in questa fattispecie rende perfettamente l’idea, ovverosia quella di “spazio vitale”. Abbiamo visto che oggi ci troviamo di fronte ad una vera e propria invasione, scientemente studiata e travestita sotto i panni lerci e logori dell’ “immigrazione”. Il progetto di sostituire i lavoratori italiani con una massa anodina ed ubbidiente di straccioni criminali allogeni di tutti i tipi, è sotto gli occhi di tutti, favorita dai poteri forti al servizio del capitale ed incentivata da tutti quei paesi che, furbescamente, intendono liberarsi della propria zavorra umana, mandandola verso l’Europa e l’Italia. Allora qui ci troviamo di fronte ad un classico tentativo, già verificatosi molte volte nel corso della storia umana, di togliere quello spazio vitale destinato ad un popolo (quello italiano, nella fattispecie, sic!), per assegnarlo ad altri, sino alla scomparsa o riduzione in schiavitù di quest’ultimo. A questo punto, se le pubbliche autorità dimostrano incapacità, inettitudine o malafede, attraverso atteggiamenti arrendevoli o indifferenti rispetto all’intera questione, è chiaro che i cittadini hanno tutto il diritto di riappropriarsi “motu proprio” di ciò che loro spetta giustamente, in quanto a vivibilità, sicurezza e dignità. Che la violenza sia poi una cosa esecrabile, l’ultimo mezzo a cui ricorrere, questo è un altro conto. Resta però il fatto che, la nostra tanto adorata costituzione e le nostre leggi se, da una parte, condannano giustamente qualunque forma di violenza, fisica o morale che sia, dall’altra parlano chiaramente della liceità di azioni compiute in stato “di necessità”, lasciando pertanto, poco spazio ad interpretazioni in salsa buonista e finto-legalitaria sui fatti di Tor Sapienza. Permane quindi, forte, l’impressione di un segnale da non sottovalutare assolutamente. E’ iniziata una nuova e molto più tenace resistenza ai piani di Lor Signori. Solidarismo, Buonismo, Multiculturalismo, parole d’ordine liberiste, ad uso e consumo degli imbecilli d’ogni genere e specie, stanno fallendo, sotto gli occhi di tutti,clamorosamente. La Moneta Unica Europea (Euro), accompagnata da pacchetti economici liberisti e da accordi-sucidio che limitano di fatto la libertà dei singoli stati europei, hanno solo portato a progressive ondate di crisi recessive ed occupazionali, come non si erano mai viste negli ultimi cinquant’anni. A tutti questi dati di fatto, va aggiunto un qualcosa di profondamente marcio, una tigna che si insinua nell’anima per infradiciare ed invalidare qualunque cosa incontri sul suo cammino. E’ la sifilide buonista che, al di là di analisi, retoriche o slogan che dir si voglia, ha oggidì infettato l’Europa e l’Occidente, facendo mille volte più danno rispetto a Globalizzazioni ed invasioni di vario genere e tipo. E’ quell’agrodolce saporaccio di piagnisteo melenso, che si eleva ogni qualvolta si levi una voce contro il coro, è quel volersi continuamente scusare, contorcere, nascondere per non voler incorrere nei rigori dell’Inquisizione Buonista. Proprio a questo proposito, ricorre quest’anno il centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale. Un fondo di “Repubblica” di qualche tempo fa, ricordava che il nostro, tra coloro che avevano preso parte al conflitto, era l’unico paese a non aver rivalutato la memoria di quei mille e passa soldati italiani, messi senza tante storie al muro dal duo Cadorna-Badoglio, con accuse come diserzione ed alto tradimento, in nome di uno spietato atteggiamento rigorista, che non predeva nessuna forma di discussione o cedimento neanche di fronte alle incoerenti e sucide scelte belliche dei generalotti italioti. D’altronde è anche vero che, se l’Italietta savoiarda e liberale non avesse chiuso ermeticamente le proprie frontiere, mandando a combattere sul Piave financo gli imberbi studenti, probabilmente per noi il conflitto si sarebbe chiuso con la disastrosa sconfitta di Caporetto e con conseguenze inimmaginabili per il futuro assetto geopolitico del nostro paese. Stesso discorso vale per tutti quei paesi da cui provengono gli “immigrati”, che oggi sbarcano e giungono a fiumi nel nostro paese. Troppo comodo aver per anni latrato di indipendenza, autonomia, anti imperialismo e via discorrendo e poi, alla prima occasione, battersela a gambe in quell’Europa a tutt’oggi additata a simbolo della corruzione e dell’imperialismo. Da qualunque parte la si voglia vedere, sotto qualsiasi Da qualunque parte la si voglia vedere, sotto qualsiasi ottica la si voglia giudicare, l’ “immigrazione” altri non è che un’invasione e come tale andrebbe trattata, respingendo al mittente le varie ondate umane. Stesso discorso vale per chi, in preda a conati di buonismo, apre indiscriminatamente agli “immigrati” quelle frontiere, la cui inviolabilità è garantita, proprio da quella tanto acclamata Costituzione, nata dalla resistenza. Anche in questo caso, si potrebbero benissimo identificare i presupposti per un reato di alto tradimento, verso l’integrità di una nazione e delle sue frontiere. Una cosa è aiutare in mille modi paesi e popoli in difficoltà, al pari della condanna di tutte le odiose forme di discriminazione razziale, etnica e religiosa; altro è acconsentire ad una vera e propria invasione dei propri spazi vitali, senza colpo ferire. L’aver voluto tirare la corda con politiche neo liberiste, incuranti dei popoli e delle loro giuste necessità, ha portato ad un inaspettato “redde rationem”. Pertanto, senza trascendere o farsi trascinare in gesti o atteggiamenti che, alla lunga, potrebbero rivelarsi controproducenti, rimane una sola, invalicabile alternativa. O Noi o Loro. E sarà meglio che certi signori se ne avvedano presto e si rassegnino. Ne va della pace sociale e dell’integrità del nostro paese.                                                                                            

Il genocidio dei palestinesi

 

In questi ultimi tempi, l’Europa sembra essere percorsa da un clima di strana ed insolita apatia politica. Mentre, da un lato, di fronte ai tragici eventi dell’Ucraina, si alzano i toni, si minacciano di nuove sanzioni la Russia, dall’altro, di fronte a quanto sta accadendo sulle sponde orientali del mediterraneo, davanti alle conclamate e ripetute violazioni di diritti umani e civili, attraverso l’indiscriminato bombardamento e la morte di centinaia di uomini, donne e bambini innocenti, vige il più strano ed apatico silenzio. Sinistra, destra, centro tacciono e se parlano, lo fanno solo per operare degli insignificanti ed infingardi distinguo. “Sì è vero gli israeliani bombardano, ma lo fanno perché, poverini, provocati da quei “mascalzoni” di Hamas che con il loro lancio di missili-leggi mortaretti rettificati-alla sicurezza dello Stato ebraico fanno un baffo. E poi, a cominciare sono stati loro, gli islamo-nazi-cattivacci di Hamas, con l’omicidio dei tre ragazzi israeliani. Ad una prima e superficiale lettura dei fatti potrebbe sembrare che, a scatenare la furia genocida dello stato israeliano, sia stata una provocazione della fazione dell’oltranzismo islamico  palestinese, studiata a tavolino per far montare la generale indignazione e condanna contro i sionisti, al fine di costringerli a scendere a più miti consigli, nell’ambito di una trattativa sul destino dei Territori della Cisgiordania occupata, oppure, quale orrore, per arrivare alla definitiva eliminazione di quell’esempio di coerenza, civiltà e democrazia rappresentato dallo stato ebraico, e questo per la gioia ed il tripudio del fronte dei “cattivacci” islamo-nazi-comunisti. Per questo, la battaglia di Gaza viene sposata con il consenso dei “buoni” anglo-euro-americani, con le loro coorti di coribanti alla Ferrara, sempre pronti a sposare le cause dalla parte sbagliata, al momento giusto. Al di là di queste osservazioni da “Grand Hotel” della politica, ci sono alcuni incontrovertibili fatti, però, che dovrebbero invece indurci a ben altre e più gravi conclusioni.   

Punto primo. Al fine di una valutazione obiettiva, necessario porsi  l’interrogativo sulla natura dello stesso movimento di Hamas. Nazionalista, integralista, filo iraniano, filo sunnita o che altro? Il recente cambio di alleanze strategiche del movimento, ci pone di fronte all’inequivocabile realtà di una sigla, quella di Hamas, dietro cui, in verità, si celano una miriade di interessi e spinte politiche, spesso contrapposti. La recente ufficializzazione e consacrazione del Qatar, ovverosia dei petrodollari USA, quale sponsor del movimento al posto dell’Iran, non fa che dare sempre più adito all’ipotesi di un gioco delle parti tra alcuni tra i governanti di Gaza e lo stato ebraico, ovverosia che tutto questo conflitto altri non sia che una immensa provocazione messa in atto, per sabotare l’unità dei palestinesi e per far definitivamente naufragare l’eventualità del consolidamento e del posizionamento geostrategico di uno stato palestinese, tutto a favore del rafforzamento, dell’espansione e del predominio dello stato ebraico su tutto un Vicino Oriente, oramai indebolito e destabilizzato dai salutari effetti delle varie “primavere” filo occidentali.  La strana modalità dell’omicidio dei tre ragazzi israeliani, non compiuto da Hamas, ma da un gruppo tribale, a quanto sembra, non direttamente coinvolto in lotte politiche, al pari della sproporzionata risposta israeliana ai lanci di “mortaretti” da parte di Hamas, sul proprio territorio, altro non fanno che riconfermare questa sciagurata ipotesi di lavoro. Punto secondo. Almeno uno dei ragazzi uccisi era anche cittadino USA, figlio di una signora divorziata di New York (e non di qualche disperato profugo israelita, lì giunto nei tormentati anni del dopoguerra…) che per lui, non aveva trovato alcuna soluzione migliore, se non quella di recarsi a vivere da coloni in casa d’altri, nella Palestina occupata, regalando al proprio giovane figlio un destino di violenza e morte, nel nome di un ingiustificato fanatismo colonialista, i cui dolorosi frutti sono agli occhi di tutti e che oggi è tra le cause  primarie dell’instabilità dell’intera area. Difatti, checché se ne dica ed al di là dei conclamati intenti buonisti e pacifisti, l’opera di insediamento da parte di coloni israeliani all’interno di enclave arabe continua imperterrita, spesso accompagnata dalla privazione di acqua o di altre risorse, fondamentali per la sopravvivenza dei palestinesi. Nella maggior parte dei casi, tra l’altro, questi cosiddetti “coloni”,sono rappresentati da avventurieri senza scrupoli provenienti da mezzo mondo, amanti del brivido e delle sensazioni forti, in salsa “kosher” o dagli onnipresenti immigrati delle varie nazioni dell’Europa Orientale (Russia in testa) che, quanto a tolleranza e rispetto verso le diversità, etniche, linguistiche e via discorrendo, lasciano molto a desiderare, come dimostrato dai recenti episodi di cronaca criminale che vedono, all’interno dello stesso stato ebraico, bande di criminali teppisti, naziskin/ashkenazy, di provenienza russa, intente a compiere atti di violenza principalmente contro gli arabi, ma anche contro gli stessi cittadini israeliani. E questo, tanto per fare chiarezza su “chi” aggredisce e discrimina “chi”. Sicchè, tornando ad una prospettiva più ampia, il quadro che viene fuori da tutte queste considerazioni è quello di una realtà statuale, nella fattispecie  quella israeliana, frutto ed interprete delle direttrici geopolitiche del Mondialismo, intese ad annichilire qualsivoglia istanza di autonomia dei paesi arabi e mediterranei in genere. In tal modo, il Mediterraneo diverrebbe un “lacus americanus” caratterizzato, da un lato, dalla presenza di una serie di insignificanti e misere realtà statuali e sovranazionali (paesi rivieraschi, Comunità Europea, paesi arabi etc.), dall’altra dalla presenza di una Grande Israele/”Eretz Israel”, in grado di condizionare e tenere sotto scacco l’intera regione. Il tutto alimentato e sorretto da quel micidiale ed onnipresente strumento di propaganda e giustificazione ideologica, costituito dalle tragiche vicende della cosiddetta “Shoah”.  Uno dei caposaldi propagandistici di tale strumento è proprio quello della condanna senza se e senza ma, della pratica della rappresaglia quale strumento anti guerriglia, così come ben dimostrato nella nostrana vicenda delle Fosse Ardeatine e della condanna senza appello comminata all’ottantenne Erich Priebke. Ora c’è da chiedersi se, di fronte ai 1814 morti palestinesi (tra cui molti, troppi bambini, donne e civili), alle migliaia di feriti e senza tetto, a fronte di 64 morti israeliani e qualche danno di superficie, non si possa parlare di una rappresaglia anti guerriglia, messa in atto con i più criminali e terroristici intenti. La deliberata distruzione di scuole, mercati e ospedali, l’uso indiscriminato delle micidiali bombe al tungsteno (DIME…), il fosforo bianco e chissà cos’altro, non lasciano dubbio o spazio ad interpretazioni ed a quanto mai nebulose giustificazioni in termini di sicurezza ed anti terrorismo. In un caso simile, l’unica e possibile risposta da parte della cosiddetta “comunità internazionale”, sarebbe l’identificazione e la denuncia presso un tribunale internazionale, dei responsabili materiali e morali di questi veri e propri crimini di guerra, non senza aver preventivamente provveduto a comminare delle dure sanzioni allo stato israeliano, così come accaduto alla Russia, per il solo e semplice (e tuttora non provato, sic!) sospetto di indiretto coinvolgimento nell’abbattimento del jet della Malaysia Air Sistem, nei cieli dell’Ucraina filo russa. E qui arriviamo alla nota dolente dell’intera “vexata questio”: quella di un complice e disgustoso silenzio da parte delle classi politiche dell’occidente intero ed italiane in particolare. A parte qualche sussiegoso “distinguo” da parte dei politicanti nostrani, a parte la presa di posizione dei 5 Stelle, non si è levata alcuna decisiva voce di condanna. L’unica manifestazione pubblica di rilievo, è stata organizzata in quel di Roma nel mese di Luglio da parte dei vari coordinamenti per la Palestina e qualche organizzazione dell’ultrasinistra e poi basta, solo un vergognoso e vile silenzio sul genocidio del “cortile di casa nostra”. Con poche e meritorie eccezioni, tutte le nostrane forze politiche (incluse molte formazioni antagoniste o pseudo-tali) hanno dimostrato il perfetto funzionamento del ricatto morale per cui, qualsiasi condanna formulata nei riguardi di Israele viene automaticamente equiparata ad un atto di razzismo. Cosa che non dovrebbe assolutamente esistere, visti i fatti agli occhi di tutti. Fatti, tra l’altro, da nessuno negati, ma anzi condannati da alcune isolate e coraggiose voci della stessa opinione pubblica israeliana. Per cui, certi silenzi, certe ammuine, certi rivolgimenti di capo, altro non fanno che dimostrare la pericolosa incapacità, l’inerzia e la masochistica sottomissione delle classi politiche europee agli interessi di Lor Signori. Intanto la Russia, per risposta alle sanzioni di certi furbacchioni, ha messo in atto delle severe contromisure in campo alimentare ed energetico. Con la Palestina ed il mondo arabo chissà quali altre conseguenze ci dovremo aspettare…A questo punto, altro non ci resta che complimentarci con la mala fede e l’inettitudine delle nostre “classi dirigenti”!

La rivoluzione francese: uno spunto di attualità

 

La data del 14 Luglio, anniversario della presa della Bastiglia da parte dei rivoluzionari francesi, sebbene lontana nel tempo, è oggi più che mai d’attualità, poiché costituisce l’evento-simbolo che ha sancito l’entrata del mondo occidentale nel pieno spirito di quella Modernità, che nel bene e nel male, rappresenta il segno distintivo dell’Occidente dal resto del mondo.

“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. Mai parola d’ordine dette luogo a tanti fraintendimenti, illusioni, raggiri. Ma vediamo di procedere per ordine.

Ben lungi dal nascere nelle luride ed affamate “banlieuses” parigine del 18° secolo, la Rivoluzione Francese ha i suoi natali tra gli sfarzi ed i luccichii di Versailles, dove tra una festa e l’altra, si trovava il tempo di discutere di cose serie. Voltaire e Rousseau al pari di Turgot e di Quesnay, di Condorcet e di Montesquieu mossero i primi passi in quell’ambito dorato, trovando lì i propri più interessati ed importanti estimatori. D’altronde la Francia del 18° secolo rappresentava, rispetto le dirimpettaie Inghilterra ed Olanda, un’eccezione un vero e proprio “unicum”, ancora legato profondamente ad una fase mercantilista e profondamente protezionista dell’economia. Dove accanto alle riforme in senso accentratore ispirate alle concezioni di Jean Bodin (“La Republique”, 1576), sopravvivevano ancora istituzioni come gilde, compagnonaggi e corporazioni che in cambio di un vincolo di fedeltà, garantivano ai propri adepti una solida tutela ed una ferrea solidarietà di classe. Il resto del mondo occidentale “progredito” (Inghilterra, Olanda ed i nascenti USA) avevano cominciato a “liberalizzare” le proprie economie, usando a tal fine l’acceleratore di riforme istituzionali che in qualche modo, potessero svincolare i vari ceti mercantili da impedimenti di vario ordine e tipo. E’ questo dunque il contesto che fa da sfondo agli eventi del Luglio 1794. I ceti medi, le nuove classi imprenditoriali fremevano per adeguare la Francia al contesto di economia-mondo che andava allora imponendosi, e quale miglior scusa se non quella della presenza di una famiglia regnante inetta e corrotta? A conforto delle proprie aspirazioni le nascenti classi dirigenti trovavano le elaborazioni di tutti quei Rousseau, Voltaire, Du Quesnay, Turgot, Condorcet, D’Alembert, Diderot, ed altri ancora, volti ad un riordino del sapere in senso enciclopedico, ovverosia universale, tutto all’insegna di un neonato sensismo materialista e razionalista, che in economia avrebbe trovato il proprio corrispondente in quella dottrina fisiocratica che, accanto ad altre consimili dottrine, costituirà il primo nucleo di sviluppo in direzione di un modello economico liberal-capitalista. Tant’è che all’indomani della Rivoluzione Francese l’ingenuo ideale fisiocratico (una forma di liberismo economico, contemperato dalla presenza di una forte classe dirigente terriera) verrà sostituito senza tante storie dall’avvento ufficiale di una nuova classe dominante: quella capitalista, figlia dell’oramai avviata Rivoluzione Industriale, mossa da un’avidità ed una ferocia senza pari nello sfruttare la propria manodopera. Questo perché, checchè se ne dica, la Rivoluzione Francese, eliminando qualsiasi struttura intermedia tra Stato e cittadino, quali gilde, corporazioni etc., poneva di fatto il cittadino di fronte ad un nuovo stato accentratore e totalitario, le cui principali competenze erano espresse da organi eletti con il principio del suffragio universale, orientato e determinato da quelle “lobbies” che avrebbero dimostrato maggior potere economico nel condizionare il voto. L’Uguaglianza e la Legalità così concepite divennero il grimaldello con cui i neonati ceti emergenti assaltarono le stanze del potere. L’esempio inglese prima e quello americano dopo, dovrebbero esserci d’aiuto. In Gran Bretagna il Re, dopo Cromwell, fu posto sotto la tutela di un Parlamento espressione dei ceti detentori di potere economico. Nei nascenti USA le cose andarono meglio: in assenza di una consolidata tradizione politica, nacque uno stato perfettamente plasmato sulle esigenze di un rampante potere economico. La vecchia Europa, con l’esempio francese darà a queste tendenze una definitiva sistematizzazione.

Si può quindi dire che le grandi e tragiche tematiche del Capitalismo, Nazionale prima, Globale poi, trovano il proprio “la”, “con” la Rivoluzione Francese e non “nonostante” quest’ultima. Le Rivoluzioni che si svilupperanno in seguito, in particolare quella Fascista del ’22, svilupperanno tematiche che andranno in senso diametralmente opposto a quello francese, usandone però i medesimi criteri metodologici. All’insegna di un neonato spirito irrazionalista e vitalista, di cui i vari Nietzsche, Bergson, Le Bon, Dilthey, Simmel, Heidegger ed altri ancora saranno i portatori, si coniugherà la prassi di totalizzare a livello di massa ciò che si è voluto ottenere. Parlare di metodologia giacobina è una cosa, di condivisione dei principi che ne stanno alla base, tutt’altra. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo altri non è che un primo esempio di quell’arroganza globalizzatrice occidentale, animata dalla pretesa di imporre al resto del mondo come oro colato, le proprie personalissime elucubrazioni. Ma al di là delle singole opinioni o delle interpretazioni storiografiche ed ideologiche che su questo fenomeno si possono dare, permane però un dato di fatto primario: la Rivoluzione Francese è stato uno di quegli eventi la cui influenza si farà sentire, nel bene o nel male, sino nei più profondi recessi del nostro vivere quotidiano. Questa considerazione ci riporta diritti diritti all’attualità del nostro problema di sopravvivenza come “area”, “ambiente”, con tutte le implicazioni che tale problema si porta appresso. Punto primo. Tutte le Rivoluzioni, da quella Francese, a quella Bolscevica del ’18, a quella Fascista e via via oltre, sono il risultato di un lungo e continuo processo di sedimentazione di un pensiero in determinate direzioni. La Rivoluzione Francese fu il risultato della sedimentazione prodottasi a partire del ‘600 con il pensiero proto-illuminista, passando al vero e proprio Illuminismo nel ‘700 ed al tentativo enciclopedista di cambiar volto alla cultura, sino ad arrivare agli “Ideològues” di Destutt De Tracy, Condillac e Mme. Helvetius che tenteranno di portare avanti un percorso iniziato molto prima, finendo però con l’essere dispregiativamente bollati da Napoleone come “ideologi”, ovvero attaccati ad una concezione troppo astratta e nostalgica del percorso rivoluzionario. Da quest’ultimo fatto si può trarre una seconda considerazione. I grandi cambiamenti guardano al presente ed al futuro. Il passato può servire a dare quel propellente ideale, mitopoietico, in grado di garantire un senso di continuità con il proprio contesto d’appartenenza, dando un senso più profondo all’azione innovatrice.

La Rivoluzione Francese mutuò alcuni simboli della romanità innestandoli su un contesto ideologico e politico totalmente differente. Il Fascismo usò il richiamo alla romanità in un’ambito ideale dominato dalle avanguardie e dal Futurismo. Lo stesso marxismo, nella sua versione stalinista ha usato il mito della Grande Russia e del panslavismo, per avallare un’ideologia profondamente materialista. In nessuno di questi casi si è rimasti ancorati a pericolose ed impropositive nostalgie, guardandosi invece al presente e specialmente al futuro, come assoluti punti di riferimento e di arrivo. 

Il Presente attuale è Post-Modernità, tendenza a strutturasi orizzontalmente, aggregando unità differenti nella propria specificità, attorno a dei comuni obiettivi. L’andare a cercare di formare ridicole strutture verticistiche è quanto di più prematuro ed inattuale si possa fare in un simile momento. Il progetto per una forma-Stato va attualizzato a questo scenario. Non si può parlare “sic et simpliciter” di “stato sociale”. Quest’ultimo deve essere in grado di mantenere sì una natura sociale, ossia d’intervernto e tutela a difesa degli interessi dei propri cittadini, senza però ingessarsi in ridicole costruzioni burocratiche che ne invaliderebbero l’azione dinnanzi ad una straripante avanzata economicista. Stato come risultato di una multiformità di funzioni all cui base vi è l’etica, in grado di fare da contraltare alla macroeconomia liberista, a cui verrà contrapposta una microeconomia partecipativa, garante della piccola proprietà. Il fine di quest’ultima sarà quello di aumentare il livello di partecipazione dei cittadini ai processi della macroeconomia, sino ad arrivare ad espropriare le funzioni decisionali di quelle oligarchie liberiste, che oggi ne regolano “in toto” il ciclo vitale. Mai come oggi, la nostra “Area” si è trovata in bilico dinnanzi a questo dilemma: l’intraprendere un cammino all’insegna di una rinnovata e multiforme progettualità politico-culturale, lontana da schemi comportamentali intrisi di ridicoli ducettismi da operetta o l’eventualità di recedere a ruolo di ghetto, espressione di una tribalità giovanile (e non) sempre più virtuale, destinata ad essere sommersa dall’informità di un mondo omologato ed a lasciare il testimone del cambiamento antagonista ad altre forze.

Porta Pia: un anniversario scomodo

 

Sono passati centoquarantasette anni dalla fatidica data di Porta Pia, eppure le cose in Italia non sono molto cambiate da allora. Il 20 Settembre 1870 Roma era una splendida e romantica città fuori dal tempo, da cui intere generazioni di pittori italiani e stranieri, a partire dal 17°secolo in poi, avevano preso lo spunto per eseguire degli splendidi acquarelli, che avrebbero immortalato il fascino malinconico della Città Eterna. Ma,a parte l’aspetto puramente estetico e fascinatorio, Roma era rimasta una città ferma nel tempo. Dalla caduta dell’Impero in avanti, la storia della Città Eterna era stata caratterizzata, quasi ininterrottamente ( se si fa eccezione per la parentesi avignonese), dal dominio dei Papi e della locale nobiltà. La struttura urbana romana era rimasta praticamente inalterata, inframezzata ed accorpata alle costruzioni che via via, durante i secoli si erano sovrapposte all’antica Urbe, creando quel mix tra rovine antiche, giardini, edifici barocchi e medioevali che, come abbiamo visto, tanti e tanti pittori avrebbe ispirato. I dintorni di Roma spaziavano da distese di paludi infestate dalla malaria, ad un selvaggio entroterra in cui a farla da padrone era la nobiltà latifondista dei Barberini, degli Orsini, dei Caetani e di tanti altri ancora. Ma Roma era anche miseria, sporcizia, malattia, incuria, frutti di un colossale saccheggio che, iniziato ai tempi della tarda romanità cristiana e, proseguito con i Goti invasori, i Papi, i Lanzichenecchi, i Francesi di Napoleone, gli Anglo Americani nel ’44, sembra non essere mai veramente finito. Ad aprire le danze, gli eredi al soglio di Pietro, autori di una colossale e continua spoliazione del meraviglioso patrimonio romano. Sporcaccioni, ladri, in mala fede, incompetenti, i Papi non avrebbero mai smesso di bistrattare, saccheggiare, profanare la bellezza della Città Eterna durante i secoli. Ben presto attorno alle meravigliose abitazioni ed agli splendidi monumenti sorsero casupole e catapecchie; le splendide terme, simbolo di un popolo che della cura fisica aveva fatto il proprio ideale, erano state soppiantate da ospizi, depositi atti ad accogliere un popolo stanco e lacero, mentre sopra gli antichi templi venivano edificate chiese e basiliche, il cui clero aveva spudoratamente ricopiato i rituali di quell’antica fede dei padri, tanto ripudiata, disprezzata e perseguitata in nome di una ipocrita purezza religiosa. Con l’andar dei secoli, Roma era divenuta una città di preti e di puttane, dominata da una nobiltà arrogante ed assente, intenta a favorire l’ascesa di questo o quel Papa, mentre attorno a quel che rimaneva dell’antica Urbe pascolavano pecore e cani, defecavano ed orinavano preti e popolani, mentre prostitute e clienti di tutti i tipi concludevano i propri affari, mentre quà e là, visitatori stranieri si fregavano i tanto pregiati “cocci”, destinati ad arricchire le varie collezioni d’arte antica dei futuri musei stranieri. Il tutto, sotto gli occhi assenti di un clero intento alle poco spirituali cure di una politica rapace ed espansionista. Questo era, dunque, Roma. Quella cannonata a Porta Pia doveva rappresentare una salutare sveglia, la riscossa di una città, di una penisola, di una nazione, di una civiltà che avevano inondato di luce il mondo intero. A Porta Pia si doveva ridare slancio a quel processo che, imperniato sull’unità delle genti italiche, avrebbe ripreso la propria marcia arricchito dall’Umanesimo, dal Barocco, dall’eredità del pensiero settecentesco dei Vico e degli Alfieri, dal pensiero nazionalista ed insurrezionalista dei Mazzini e dei Pisacane, da tutto un immane contributo che avrebbe dovuto fare dell’Italia una protagonista primaria della vita europea e mondiale. Sappiamo tutti come andò. L’unità nazionale si rivelò alfine il veicolo con cui, sotto il vessillo dei Savoia, in Italia si insediò una rapace ed ottusa oligarchia burocratica che ebbe bisogno di molto, troppo tempo per riuscire a cambiarsi ed innovarsi.

Oggi, dopo due guerre mondiali, e dopo la caduta del Muro, il nostro paese rimane afflitto dagli stessi problemi. Un intreccio, un sottobosco di collusioni tra politica malaffare e mondo economico, continua a governare il paese. De facto, l’Italia è occupata da decine di basi militari americane che, conm la scusa di un’amorevole protezione contro il cattivaccio di turno, rappresentano una vera e propria forza di condizionamento morale per qualsivoglia istanza di autonomia politica. Quelle stesse basi, oggi per gli stessi interessi USA troppo dispendiose ed in via di smantellamento, vengono sostituite dalla presenza degli immigrati che, regolari o clandestini che dir si voglia, rappresentano la vera truppa da sbarco del globalismo alienante ed uniformatore, rappresentati dagli interessi USA sul vecchio continente e sulla nostra penisola. Guai a mettere in discussione la presenza di costoro sul nostro territorio, si verrà immediatamente tacciati di nazi-fascismo razzista ed anti-solidale. Qualunque cosa loro accada, bisognerà subito correre ai ripari per evitare guai seri. Come nel caso del recente agguato malavitoso (ho usato apposta il termine “malavitoso” e non camorrista, visto che la responsabilità dell’agguato potrebbe essere anche attribuita ad una faida tra “migrantes”, sic!) nel casertano ove, poiché ad essere uccisi sono stati degli stranieri, si stanno decidendo quelle misure straordinarie contro il crimine che, per la morte di tanti concittadini non sono invece mai state prese.

L’Italia continua ad esser dunque vittima di un’occupazione morale e materiale, condita da ipocrisia, malaffare e dalla continua intromissione nella vita politica di una Chiesa sempre meno rispettosa dei limiti assegnatagli dagli accordi a suo tempo stipulati, intenta ad unirsi al coro dei piagnucolatori solidaristi al servizio dell’invasore di turno, di qualunque colore o etnia.

Che siano benedette quelle cannonate, dunque. Esse hanno rappresentato e continuano a rappresentare, il monito, l’invito ad una salutare sveglia che, quanto prima tornerà a farsi sentire, tanto meglio sarà per tutti noi.

Alle origini del Fascismo
 

Il Fascismo questo sconosciuto, si potrebbe dire. Già perché, a ben vedere, su questo fenomeno storico e sui suoi fondamenti, si sono troppo spesso date interpretazioni tra le più disparate, e per lo più all’insegna della più grande superficialità. Si va dall’ interpretazione demonizzante di un movimento visto come reazione alla rivoluzione d’Ottobre, tutto proteso a difendere gli interessi del padronato, ad uno sterile nostalgismo, tutto proteso ad esaltare quelli che furono i lati più appariscenti e comunque meno esplicativi di quello che, a ben vedere, fu un fenomeno la cui complessità e le cui radici ci riportano ad un periodo ben antecedenti alla figura dello stesso Mussolini ed alla nascita ufficiale del movimento fascista avvenuta dopo la manifestazione di San Sepolcro del 23 marzo del ’19. Il contesto che fa da cornice alla genesi del Fascismo è quello della fine del secolo 19°. Un contesto che, nonostante sia caratterizzato da un progresso economico senza precedenti, si trova a dover fare i conti con tutta una serie di problematiche, tali da condizionare il dibattito filosofico e politico per gli anni a venire. Ad esser scosso, anzitutto, è il mondo della Sinistra, agitato dal revisionismo socialdemocratico di Bernstein. Un’impostazione, questa, che orienterà i partiti socialisti dell’Europa Occidentale di allora, in direzione di una strategia di compromesso con le forze della borghesia, visto che la possibilità di realizzare il Socialismo in tempi brevi tramite lo scontro diretto e senza mediazioni con quest’ultima appariva sempre più lontano, viste anche le mutate condizioni economiche del Vecchio Continente. Un revisionismo in direzione di una maggior eticizzazione e democratizzazione delle dottrine marxiste, al di là degli stilemi positivisti che cominciavano a far acqua da tutte le parti, dunque. Un revisionismo che accomunerà sia i settori più moderati ed inclini al compromesso politico (per l’Italia basta citare le figure di Turati e Treves), che quelli più inclini ad una visione della lotta politica come scontro senza compromessi. Esponente primario di questa seconda scuola, sarà il francese Georges Sorel, ingegnere in pensione, marxista convinto, che partirà proprio da un’esegesi particolare dei testi marxisti per arrivare, dopo un lungo processo intellettuale, a conclusioni a dir poco dirompenti. Sorel parte innanzitutto dall’esigenza di una maggior “eticizzazione” del marxismo. Un’ eticizzazione che deve, secondo lui, per forza passare attraverso una revisione in senso irrazionalistico delle dottrine marxiste. Non più Socialismo scientifico, non più razionalismo Positivista, non più economicismo, ma la psicologia, che nei suoi aspetti più irrazionali, di cui il mito è il momento portante, riesce in ciò che la dottrina ufficiale, con i propri stilemi non riesce a fare: mobilitare le masse in direzione dello scontro perenne con il sistema capitalistico. E qui sta appunto la genialità di Sorel: l’aver innestato nel corpus ideologico marxista l’idea della violenza creatrice di virtù eroiche, che trova il proprio momento fondante nel mito. Un’impostazione alla cui base vi è un rifiuto netto del Cartesianesimo, dell’Illuminismo e dei “sacri principii” della Rivoluzione Francese. Un’impostazione che risente profondamente del socialismo di Joseph Proudhon, delle tesi di Nietzsche, della dottrina intuizionista di Bergson, della psicologia delle masse di Le Bon e della sociologia di Wilfredo Pareto. Di tutto questo, lo “sciopero generale” rappresenterà la più appropriata metafora mitologica, in grado di contrapporsi al marciume borghese della modernità. Sorel vede nel proletario il nuovo guerriero dell’era moderna; un guerriero che al pari degli antichi spartiati o dei romani, vive immerso in un mondo duro fatto di macchine e di acciaio, la cui unica ragione di vita non può non ravvisarsi nella lotta perenne ad una borghesia marcia e debosciata. Un’impostazione questa, che porterà ben presto Sorel ad allontanarsi sempre di più dall’ortodossia marxista, sino ad arrivare alla conclusione che il proletariato non potrà mai compiere quella tanto preconizzata rivoluzione, tanto da arrivare a parlare di “Decomposizione del Marxismo” ed “Illusioni del progresso”, come ricordano i titoli di due suoi famosi scritti (oltre al celeberrimo “Riflessioni sulla violenza”). Ed ecco allora, il Sorel inaspettato protagonista di quel trait d’union tra il proprio particolare, eterodosso socialismo ed i nazionalisti dell’Action Francaise di Charles Maurras, imbevuti di un nazionalismo anch’esso profondamente ostile alle dottrine illuministe, razionaliste, repubblicane e mazziniane, allora patrimonio comune dei vari nazionalismi. La sintesi tra l’estrema sinistra e l’estrema destra, tutta all’insegnna di un profondo irrazionalismo, darà avvio a quel particolare  “socialismo nazionale”, che, tutto all’insegna di valori guerrieri e mistici di cui la classe media si dovrà far interprete, ora che il proletariato ha dimostrato i propri limiti. Violenza rivoluzionaria, mito della guerra di proudhoniana memoria, ma anche rispetto assoluto della famiglia e della proprietà privata e, non ultimo, della fede cattolica vista nell’accezione di disciplina interiore e non come fede “si et si”.

Queste sono le principali coordinate di pensiero che verranno via via sviluppate dal “Cercle Proudhon”, nello sforzo di creare quella sintesi che in Francia non decollerà dal punto di vista pratico, a causa della presenza di un forte substrato culturale progressista e, secondo poi, perché i francesi si mostreranno incapaci di andare al di là di un pensiero che non travalicasse i “ massimi sistemi”. Cosa questa che, invece, in Italia non accadrà, anzi. Gli ultimi mesi del 1902 vedono nascere all’interno del Partito Socialista, una frazione ispirata alle idee soreliane. Capo ed animatore del gruppo è Arturo Labriola che, accanto ad Enrico Leone ed altri, intraprenderà la pubblicazione del settimanale “Avanguardia”. Ben presto la corrente “rivoluzionaria” si contrapporrà ai riformisti di Filippo Turati, in un contrasto così violento da dover lasciare il partito nel 1907. Non ostante minoritario, questo gruppo per lo più animato da sindacalisti eserciterà una profondissima influenza su tutta la sinistra. Un’influenza di cui lo stesso Mussolini riconoscerà gli apporti, nonostante alcuni contrasti di ordine “tattico” tra il futuro duce ed i sindacalisti rivoluzionari. Al centro della riflessione di Labriola e Leone, la subordinazione della politica all’economia. Una riflessione che porta questi ultimi ad utilizzare alcuni parametri economici del marxismo, come la teoria del plusvalore, in un senso profondamente differente da quello da Marx indicato. L’obiettivo di Leone e Labriola è la ricerca dell’equilibrio generale, per usare un termine dell’economia neoclassica. Per arrivare a tale obiettivo non si esita a far ricorso alle teorie psicometriche della scuola austriaca ed agli apporti dell’economia edonistica della scuola di Walras.

Il punto d’arrivo di questa riflessione, è quello di una società di “produttori liberi”, in cui l’intervento dello stato sia ridotto alle oloe funzioni amministrative, in cui il libero mercato creerebbe le premesse per uguaglianza di costi, di profitti e salari. In tal modo il puro edonismo economico, creerebbe l’equilibrio tra libertà ed uguaglianza, spazzando via la società borghese e dando ai sindacati, il ruolo di guida del riscatto dei lavoratori. L’evoluzione del pensiero di Labriola, porterà ben presto alla ridefinizione del concetto stesso di proletario, superato ed accantonato da quello di produttori, che vede accomunati lavoratori dipendenti ed imprenditori nel perseguimento di un comune obiettivo: il benessere della nazione. Dalla classe alla nazione, dai sindacati alle corporazioni professionali che difenderanno e appianeranno i contrasti economici tra le categorie nel nome di un comune interesse.

Lanzillo, Orano, Olivetti, Panunzio, Bianchi, De Ambris, Corridoni, sono i nomi di coloro che traghetteranno il sindacalismo rivoluzionario verso il superamento del marxismo e la sintesi con il nazionalismo, rappresentato in Italia da Corradini. Il primo di Ottobre 1914, nasce il Fascio di Azione Internazionalista, (che conta tra gli aderenti di spicco Michele Bianchi) mentre Mussolini abbandona il Partito Socialista, per via del proprio interventismo, oramai incompatibile con quel partito.

La nascita ufficiale del movimento fascista, altro non sarà dunque, se non l’atto che sancirà il consolidamento di un processo ben preesistente alla figura dello stesso Mussolini. Un processo che troverà la propria coerente realizzazione nell’impostazione dello Stato fascista. Un’impostazione che, forte dell’esperienza della grande Guerra (la guerra “rivoluzionaria” dei nazionalisti), assisterà ad uno spinto interventismo economico dello Stato, volto a consolidare le conquiste dell’economia corporativa.

Lo spirito che guiderà ed animerà la costruzione del nuovo ordine può essere tranquillamente riassunta da queste due frasi di Camillo Pellizzi, professore di filosofia e discepolo di Gentile.” Il Fascismo è negazione pratica del materialismo storico, ma più ancora negazione dell’individualismo democratico, del razionalismo illuministico, e affermazione dei principi di tradizione, di gerarchia, di autorità, di sacrificio individuale verso l’ideale storico, affermazione pratica del valore della personalità spirituale e storica (dell’uomo, della nazione, dell’umanità), contrapposta e opposta alle ragioni dell’individualità astratta ed empirica degli illuministi, dei positivisti degli utilitaristi.”-ed ancora sullo Stato-“Intanto non concepiamo lo Stato né come associazione di “singoli cittadini” né come “quasi-contratto” attuantesi nel processo della storia. Lo vediamo, semmai, come la concretezza di una predominante personalità storica, conme lo strumento sociale per la realizzazione di un mito. Non è dunque una fissata realtà, ma un processo in atto; il quale non potrebbe esser processo se non fosse anche, in altro modo, continuazione di sé; non potrebbe esser novità di un mito se non fosse anche unità dialettica e tragica di miti anteriori…La stessa parola “Stato” è inapplicabile al nostro concetto; in questo nostro non-stato, la legge è in funzione del mito finale, non del mito iniziale, e il mito finale non potrà non essere, a suo modo, unità nuova di miti anteriori.” Questi due splendidi scritti, del ’22 e del ’24, ci mostrano la solidità e l’avvenuta formazione dell’ideologia fascista, già ai primordi dell’avvento al potere e ci pongono, però, dinnanzi ad una triste riflessione. Il Fascismo fu andare “oltre”. Oltre la Destra, liberale, reazionaria ed attaccata ad un significato dell’economia inteso unicamente nell’odioso senso di sfruttamento dei più deboli. Ma fu anche oltre la Sinistra, già allora superata, sbeffeggiata, umiliata nei suoi ridicoli schemi classisti, nei suoi limitati dogmi materialisti, nel suo decadente solidarismo d’accatto. Sorel, Berth, Lagardelle, ma anche Labriola, Leone, Olivetti, Lanzillo, Panunzio, Orano, De Ambris, Bianchi, Corridoni e tanti altri ancora…Di costoro si parla poco, troppo poco, quasi si provi vergogna al solo nominarli. Se la Sinistra si guarda bene dal farlo, per ovvie ragioni storiche, dall’altra “parte”, (ed in particolare tra gli umanoidi dell’area missina, che si continuano a considerare in qualche modo eredi dell’esperienza fascista) si è sempre parlato di un quanto mai vago e confuso “corporativismo”, accostato ad un’ altrettanto vaga e nebulosa “socializzazione”. Concetti questi, rispolverati di quando in quando dai polverosi scaffali di qualche biblioteca di sezione. Il tutto infarcito dai nomi dei soliti due-tre autori che conosciamo e stimiamo tutti, ma che non bastano a dare un quadro esaustivo e completo di quello che è stato il Fascismo e del clima culturale che ne ha accompagnato l’avvento. Il Fascismo considerato nella sua complessità di fenomeno politico e culturale, non deve essere l’oggetto di un quanto mai inattuabile tentativo di resurrezione. Esso deve, invece, fornirci dei validi spunti di riflessione, in grado di contribuire alla ricerca di quella nuova sintesi in grado di spingere ancora una volta le menti, “oltre” le sterili e vuote pastoie dell’occidentalismo.

Sinistra nazionale. Un chiarimento

 

Da un po’ di tempo a questa parte, il dibattito su alcune testate è andato incentrandosi sul termine “Sinistra Nazionale”, scatenando un vero e proprio vespaio. A onor del vero, va detto che questo termine non rappresenta certo una novità nel quadro politico nazionale ed internazionale. Usato per definire meglio certe correnti del Fascismo e del neofascismo post-bellico che si richiamavano alle esperienze del Fascismo delle origini e della RSI, sensibili a quella vocazione “di sinistra”, frutto di quella stretta interrelazione tra socializzazione e spirito risorgimentale, questo termine trova una collocazione nelle esperienze del nazionalismo terzomondista post-bellico. Sparito o comunque assorbito in quel calderone di esperienze che condussero agli anni bui della lotta armata, rifà la propria apparizione verso i primi anni’ 90 su “Orion”, come “nazional-comunismo”, con la rivalutazione degli scritti di Niekisch e Paetel, e di un po’ tutte le esperienze che ad un certo retaggio si rifanno. Il quotidiano “Rinascita” dalla seconda metà degli anni’90 si fa portatore di questa vecchia-nuova rappresentazione terminologica, suscitando le reazioni dei più rigidi esegeti della conservazione terminologica, o le più seccate osservazioni di chi, da certe esperienze vuol mantenere le distanze, od al contrario l’entusiasmo di chi pensa che l’innovazione terminologica, accompagnata ad uno scimmiottare le altrui posizioni, possa minimamente avvicinare ad una parte politica ostile ed intransigente per definizione. Niente di tutto questo. Per dare una giusta collocazione a questa definizione bisognerebbe anzitutto chiedersi cos’è la Destra e cos’è la Sinistra. Questo perché, ai due termini possono essere date due letture diverse, frutto di due differenti criteri di lettura. Il primo meramente politologico, è oggi vittima del rimescolamento di carte provocato dall’avvento della post-modernità che ha nel fenomeno globalizzatorio la propria princiaple manifestazione. Questa lettura tende a superare la dicotomia Destra-Sinistra in qualcosa di più calzante con l’attuale realtà, quale la dicotomia comunitario-liberal, o assoluto-relativo, può rappresentare. Un’altra lettura invece, derivante anch’essa dalla suddivisione ideologica verificatasi all’indomani della Rivoluzione Francese, è di carattere più intrinseco, tautologico e sfugge a qualsiasi logica di schieramento politico. E’ una lettura per opposte dicotomie che può semmai servirci a dare una serie di definizioni in grado di orientarci in questa nostra breve analisi. Alla Sinistra si fa generalmente corrispondere un’idea dinamica che fa il paio con un altrettanto statico concetto della Destra. Ciò che per l’una sarà movimento, unilinearità, materialità, cambiamento, sarà per l’altra 

stasi, ciclicità, spiritualità, conservazione. Una dicotomia del tutto apparente, se è vero che ognuna delle due opposizioni in termini presuppone l’esistenza dell’altra per potersi realizzare.

Dunque, se la Destra ha bisogno della Sinistra e viceversa, l’anima del mondo è costuita dall’armonia degli opposti. Non per nulla il poeta nazionalista D’Annunzio scelse di cambiare il proprio seggio in Parlamento da Destra a Sinistra, perché a Sinistra “c’è la vita”. Il marxista Sorel, scelse l’alleanza con gli ultraconservatori dell’Alliance Francaise, nel nome di una nuova forma di socialismo. Quando masse ed aristocrazie, futuro ed archetipo, razionale ed irrazionale si congiungono scattano quegli insuperabili momenti di sintesi, che costituiscono l’anima della storia.

Il termine “Sinistra Nazionale” è tutto lì a rappresentarci questa ulteriore propensione verso la sintesi. Una sintesi che, si badi bene, non potrà più essere la stessa né di venti, trenta o sessanta anni fa. Termini come Socialismo o Nazione vanno oggi considerati in un’accezione differente, adeguata ad una chiave di lettura che consideri l’attuale contesto post-moderno e le mutate prospettive

nei settori della politica e dell’economia. Parimenti sia chiaro a tutti che la Sinistra di cui qui si parla non può essere certo quella dei fallimenti marxisti o delle uterine isterie antifasciste o pseudo-solidariste, né l’espressione di un’arrogante e predatorio potere burocratico. Né il termine Nazione può “sic et simpliciter” rimandarci ad un obsoleto spirito patriottardo, troppo spesso legato agli interessi di gruppi di potere economici, che poco o nulla hanno a che vedere con le reali necessità di un popolo, e che troppo spesso sono stati una tra le cause dei disastri dell’ultimo secolo. La contraddizione in termini espressa da “Sinistra Nazionale”, deve costituire uno stimolo, una provocazione intellettuale in grado di traghettarci verso quella dimensione di trasversalità, primo passo per la rifondazione del Futuro.

I Totalitarismi davanti alla storia

 

Le ansie, le inquietudini, i fermenti che percorrono l’intero mondo occidentale tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, preannunciano l’esplosione del grande conflitto mondiale che, per la prima volta vedrà affrontarsi praticamente in tutto il mondo le potenze occidentali in una guerra combattuta all’insegna di una tecnologia mai vista sino ad allora. Lo scontro che ne risulterà sarà titanico, gli equilibri internazionali totalmente stravolti, ma, cosa più importante, quelle che sino ad allora erano state solo chiassose minoranze, troveranno la strada spianata per il potere nella maggior parte delle nazioni europee, a partire dalla Russia nel ’17 e dall’Italia nel ’22.

<Il marxismo andrà a realizzarsi nell’unico paese le cui condizioni socio economiche contraddicevano apertamente con i propri dettami ideologici., poiché costituito maggioritariamente da una massa contadina a fronte della quale stava una decadente aristocrazia. Le città con il loro proletariato urbano e la loro sparuta classe borghese, costituivano in tale quadro una rigorosa eccezione. Lenin verrà al potere in seguito al colpo di mano di una minoranza, quella bolscevica, mettendo con le pive nel sacco la multicolore coalizione a capo della quale stava il social democratico Kerenskij.

Una minoranza prevalentemente costituita da appartenenti alla piccola-media classe borghese, da alcuni elementi provenienti dai ranghi medio-bassi delle forze armate e da uno sparuto numero di “proletari” e contadini. Ben lontano quindi dall’iconografia marxista di una generale ed entusiastica sollevazione di popolo, il marxismo si affermerà come la Rivoluzione di un eterogeneo gruppo di minoranza sotto i compiaciuti occhi di una massa inerte resa ancor più povera da un disastroso confronto bellico con la Germania del Kaiser.

Le iniziali aspirazioni ad una più equa redistribuzione delle risorse economiche del paese si scontreranno ben presto con l’esigenza di una netta trasformazione delle strutture economiche, sino a quel momento quasi esclusivamente caratterizzato da una prevalenza del settore agricolo.

A quel punto ad irrompere sulla scena sarà la figura di Stalin che opererà una trasformazione a tappe forzate dell’Unione Sovietica, facendone una potenza industriale e, stravolgendo gli iniziali contenuti della Rivoluzione d’Ottobre, renderà lo stato sovietico un’immensa ed informe burocrazia collettivista, animata da aspirazioni imperiali che, poco o nulla avrebbero avuto che vedere con le iniziali istanze legate all’internazionalismo marxista.< Se la Rivoluzione d’Ottobre rappresenta il compimento e la sintesi tra tutte quelle istanze volte a coniugare utopismo, hegelismo e positivismo in un sol corpo, quello marxista, passando da Fourier a Saint Simon, da Hegel a Comte, da Marx agli apologeti dei modelli comunitari slavi della “obscina” e della “zadruga”, sino a Lenin ed al suo pragmatismo rivoluzionario (magistralmente espresso nel “Che fare?”), il Fascismo segue un percorso del tutto differente.   

Frutto della sintesi tra il sindacalismo rivoluzionario, le istanze di modernità espresse dal movimento futurista e le spinte di un nazionalismo sempre più lontano dai valori dell’egualitarismo illuminista, il Fascismo rappresenterà, unico caso in Occidente dopo la Rivoluzione Francese, il primo tentativo di superare la dicotomia ideologica Destra-Sinistra che sino ad allora aveva predominato e di cui la stessa Rivoluzione Bolscevica rappresentava un elemento di estrema continuità. Conservazione e Progresso, Tradizione e Modernità qui convivono e si congiungono in una sintesi i cui contorni vanno a poco a poco definendosi ed adeguandosi ad un quadro in continuo movimento. I Fascismi nascono e si sviluppano in contesti sociali caratterizzati da una complessità sconosciuta all’arcaica società russa.

Qui sono costretti a convivere nello stesso ambito interessi, scopi, aspirazioni spesso in contrasto, egualmente accomunati dall’ansia di trovare una risposta totalizzante al problema di una sempre maggior presenza della tecnica e dell’economia nella vita quotidiana. Il Fascismo assurge così a ruolo di catalizzatore in grado di ridare senso e significato a termini come Popolo e Nazione isteriliti da un imputridito liberalismo. Adattando le proprie radicali istanze ad una società la cui complessa multiformità va sempre più seguendo gli incalzanti ritmi di un’economia industriale in piena ascesa, il Fascismo riesce ad armonizzare ed accomunare interessi altrimenti inconciliabili.

Frutto dei precedenti decenni di instabilità ed inquietudine intellettuale, l’onda rivoluzionaria del ’17 partita da Oriente all’insegna del massimalismo marxista si concretizza in Occidente all’insegna di una sofisticata soluzione di pensiero, al di là delle obsolete soluzioni di “destra” e di “sinistra” che, già agli inizi del Novecento, andavano oramai perdendo di senso e di valore. Di quella grande ondata rivoluzionaria, il totalitarismo fascista rappresentò l’ala più pragmatica, poiché costretta a confrontarsi con i non semplici problemi delle società industrializzate d’Occidente. E’ dunque alla luce di questa impostazione che bisogna rivedere tutti quegli episodi che videro la repressione sia in Italia che in Germania di tutte quelle correnti “di sinistra” che avrebbero voluto la realizzazione “tout court” di una rivoluzione che non tenesse in alcun conto della complessa situazione socio-economica che ambedue i contesti presentavano. La messa in disparte dei sansepolcristi italiani, al pari della sanguinosa repressione scatenata dalle SS hitleriane contro le SA di Ernst Rohem, o la repressione franchista del falangismo spagnolo di Josè Primo de Rivera testimoniano quanto poc’anzi detto.

Ma, nonostante tutte le cautele del caso, il totalitarismo fascista finirà con il riaffermare risolutamente il contenuto dirompente della propria intima impostazione. L’irrompere di una nuova fase della Modernità sul proscenio della Storia finirà con l’imprimere una drammatica accelerazione agli eventi, coinvolgendo tutte le forze in campo, senza alcuna esclusione.

Il grande errore dei fascismi sarà quello di aver creduto di poter affrontare i problemi di una società in corsa verso la fase terminale della Modernità con gli stessi criteri delle cancellerie europee del 18° e del 19° secolo. La Grande Guerra avrebbe, con i suoi immani disastri, avrebbe dovuto indurre le classi dirigenti italiane e tedesche ad una accorta valutazione delle forze in campo, considerando una posta in giuoco esponenzialmente elevata dall’ingresso in campo della potenza economica americana e delle sue aspirazioni globali. In un contesto simile, lo spazio per azioni militari locali e mirate sarebbe risultato pressochè nullo, a causa del dirompente effetto domino che ne sarebbe risultato e che tutto avrebbe stravolto, cosa che poi, con gli eventi che tutti conosciamo, si verificò puntualmente. Al di là di quelle che possono essere le giuste e dovute considerazioni su tutto il carico di orrori e tragedie che l’ultimo conflitto mondiale portò, va ripetuto che i totalitarismi fascisti, quello fascista italiano e quello nazional socialista tedesco, finirono con l’essere travolti dalle dinamiche di un’epoca “in accelerazione”, connotata da una parte dall’inaugurazione della nuova fase fordista e tailorista dell’economia mondiale e, dall’altra, dall’irrompere sulla scena geopolitica mondiale della potenza talassocratica per eccellenza, gli Stati Uniti d’America, unico paese al mondo connotato dal fatto di non avere alle proprie frontiere rivali di sorta, se non stati dalle economie scarsamente sviluppate (Messico) o scarsamente popolati ed ancora soggetti al dominio coloniale anglosassone (Canada), oltretutto circondato e difeso da due Oceani, Atlantico e Pacifico, che stanno lì a riparare il grande paese dalle tensioni che invece pervadono il Vecchio Mondo. Da qualunque punto la si voglia vedere, i totalitarismi rappresenteranno il primo tentativo di dare una risposta organica al problema del nuovo e complesso rapporto dell’economia con la società, assumendo, sia nel caso del Fascismo che in quello del Marxismo, la connotazione di una vera e propria religione laica, visto che sino a quel momento il ruolo delle religioni sembrava sempre più esser soppiantato dal primato dell’economia.

Il termine “totalitarismo” non è frutto di una scelta casuale; esso implica l’adesione ad un’ideologia che si fa anzitutto stile di vita, interpretazione del mondo, abbracciando in una visione onnicomprensiva qualunque aspetto dell’esistenza, che diviene in tal modo parte di una visione “totale” dell’esistenza, in grado di supplire in qualche modo al relativismo di una incondizionata adesione all’economicismo. Se il Fascismo e le sue varianti furono totali e totalizzanti, altrettanto si può dire del Marxismo, sia nella sua versione in salsa staliniana che nella sua ancor più tarda versione maoista o nord coreana, ove si assisterà ad un vero e proprio culto dello stato e delle personalità ai suoi vertici. Se il Marxismo si perpetuerà sino ai giorni nostri, spalancando, grazie al proprio intransigente pauperismo, le porte al turboliberismo più scatenato, (come dimostrato dagli eventi dell’Europa dell’Est), il Fascismo, nonostante la sconfitta bellica, trasmetterà un lascito, sulla cui natura controversa nessuno ha mai avuto la voglia (o il coraggio) di andare a ficcare il naso, nel timore di scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora.

Un chiarimento programmatico

 

Lanciando uno sguardo a tutto campo sul panorama politico nostrano, non si può non rimanere indifferenti allo spettacolo di ordinario squallore che ci si para dinnanzi agli occhi. All’indomani dell’annuncio delle tanto auspicate elezioni, è tutto un arabattarsi alla ricerca di quel “posticino al sole” , oramai assurto al ruolo di vero e proprio rito di perpetuazione dei privilegi di una classe politica ( o sarebbe meglio dire “casta”, sic!) che di voglia di cambiare le cose in Italia sembra proprio non averne, anzi. Già, perché se non ci si fosse dimenticati, è suppergiù da un quindicennio, ovvero dalla nascita della cosiddetta “Seconda Repubblica” che nel nostro paese accanto alla conclamata esigenza di cambiare le cose, non segua proprio nulla di quanto auspicato, anzi. Ma procediamo per ordine. Gli inizi degli anni ’90 avevano riposto, nella nascita del fenomeno leghista, (accompagnato da tutta una serie di epifenomeni quali Tangentopoli, etc.)  le speranze di riforma e ristrutturazione “ad integrum” del sistema italiano che allora iniziavano a percorrere l’intera società italiana. Ma ben presto la Lega rivelerà la propria intrinseca debolezza, costituita dal fatto di essere una formazione politica la cui forte caratterizzazione etnica e regionale, ne impediva l’affermazione a livello nazionale, relegando ad un livello puramente locale quelle istanze di cambiamento oramai assurte a patrimonio comune all’intera comunità nazionale. La nascita di Forza Italia sembrò realizzare, a livello nazionale,

quelle aspirazioni che la Lega aveva interpretato ed a cui sembrava volesse dar corpo a livello locale. Ma anche qui, all’iniziale entusiasmo, dovevano seguire delusioni e difficoltà. L’apertura indiscriminata del neonato partito a transfughi e spezzoni del vecchio sistema, accanto agli errori determinati da un’impostazione neoliberista, annnacqueranno di molto quelle istanze di rinnovamento di cui il nostro paese tanto sentiva ( e tuttora) sente il bisogno.

L’ultimo capitolo riguarda la vicenda di quella parte politica che aveva, in qualche modo, cercato di raccogliere e rielaborare (sia pur confusamente) l’eredità dell’esperienza fascista sotto le insegne del Movimento Sociale Italiano. La nascita nel ’94 di Alleanza Nazionale sembrava anch’essa avvenire sotto l’impulso di quel vento di cambiamento che in quel momento investiva l’intera società nostrana.

Cambiamento, non accantonamento di qualsiasi istanza identitaria forte, in grado di dare risposte forti ai grandi interrogativi della vita, che generalmente si esprimono attraverso bisogni di tipo politico ed economico. La vicenda di AN, invece, ha rappresentato quel percorso di trasformazione che ha portato da un soggetto animato da determinate istanze politiche ad un contenitore vuoto, totalmente disanimato, subordinato ed appiattito sulle posizioni di Silvio Berlusconi, giuste o sbagliate che queste fossero. Al virtualismo politico di AN, in questi anni, ha in qualche modo cercato di rispondere tutta quella congerie di partitini e movimenti il cui indirizzo può essere, con un termine alquanto vago, definito di “estrema destra” ed i cui risultati politici sono stati ben al di sotto di qualsiasi aspettativa, anche causa dell’eccessiva frammentazione deigruppi in questione. La nascita della “Destra” rappresenta forse il più significativo momento di rottura di questi ultimi anni, verificatosi all’interno di un’area in cui il monopolio delle forze con un certo rilievo istituzionale era sinora rimasto di esclusivo monopolio del contenitore MSI-AN. Ma anche qui sarebbe bene effettuare un chiarimento fondamentale.

A scanso di equivoci il termine “destra” andrebbe recepito in un’accezione

diversa da quella in cui, usualmente, viene inteso. Vi è tutto un fiorire di dibattiti sull’opportunità dell’uso delle categorie politologiche di “destra” e di “sinistra” che l’avvento della Post Modernità avrebbe reso quanto mai desuete e prive di un senso compiuto. Sinistra come spinta al divenire e ad un inarrestabile progresso da una parte, Destra come stabilizzazione della realtà, conservazione di essa “sine die”. Tempo e movimento da una parte, stasi ed immobilità dall’altro; apertura ai grandi movimenti della società da una parte, chiusura e strenua conservazione dell’ordine costituito dall’altro.

Il vecchio clichè bobbiano di progresso contro reazione, oggi giustamente non troverebbe una sua concreta rispondenza nella realtà politica di quei movimenti politici che a tale termine si richiamano, come per il caso della neonata “Destra”. Questa modalità di designazione politica, dovrebbe assumere la valenza di una vera e propria metafora ideologica da intendersi come pensiero “forte” risolutamente contrapposta al relativismo di un pensiero altrettanto debole ed assoggettato ai desiderata di un imperante economicismo.

“Destra” deve quindi esprimere l’idea uno stato in grado di avere le mani libere al fine di programmare il proprio intervento in modo “flessibile” e mirato, non in base ad un ottuso e dispendioso statalismo burocratico, privilegiando le fasce più deboli e bisognose della popolazione. Destra deve saper esser movimento in grado di interpretare tutte le molteplici istanze della società italiana, all’insegna di un’ottica di trasversalità tale da saperle conciliare e valorizzare nel nome di una superiore idea di stato e movimento.

Destra deve rappresentare la capacità di un’idea di farsi interprete delle reali istanze della gente anche e specialmente, di quelle più scomode.

Il gravissimo problema del rapporto salari-prezzi, assurto a vera e propria emergenza nazionale, grazie all’ improvvida assunzione della moneta unica europea (euro), ed a cui non hanno mai fatto seguito degli incisivi provvedimenti economici in grado di tutelare il potere d’acquisto delle famiglie. L’invasione, pardon l’immigrazione, la cui provenienza sia comunitaria che extracomunitaria finisce con il favorire l’assunzione di manodopera straniera, tutta a detrimento dei lavoratori nostrani, incrementando i profitti del grande capitale ed allargando progressivamente la forbice tra ricchi ed indigenti, grazie al costo quasi nullo di tale tipo di manodopera.Tutto questo, senza contare i gravi ed irresolubili problemi di che la convivenza tra diverse etnie viene a determinare, e di cui quotidianamente costituiscono eloquente testimonianza le varie cronache

sull’ordine pubblico. Il problema di una spesa pubblica fuori controllo, che si vorrebbe risolvere tagliando, o quanto meno, riducendo al minimo le spese previdenziali, proseguendo invece con il mantenimento di una dispendiosa ed inutile macchina militare all’estero, giusto per asservire i “desiderata” strategici dei centri del potere finanziario cosmopolita. Il tutto, come al solito, a detrimento degli italiani che vedono quel minimo di benessere talora conquistato con decenni di duro lavoro, essere gradualmente eroso nel nome di un ipocrita e peloso solidarismo d’accatto. Ed infine, i necessari e non più procrastinabili mutamenti istituzionali, da compiersi non più in base a quanto mai alambiccati ed incomprensibili sofismi giuridico-istituzionali, bensì in base ad un principio che, al proprio interno, sappia coniugare sintesi e semplicità.

Il decentramento amministrativo e lo snellimento della macchina burocratica, debbono saper convivere con un potere esecutivo forte che, nel riproporre la formula presidenzialista, sappia trasmettere ad un elettorato confuso da tanti sofismi e tecnicismi, una parola d’ordine chiara e forte. Una sfida, quella della neonata “Destra” che, se interconnessa a tutta la serie di tematiche qui sommariamente trattate, e che oggidì costituiscono parte indissolubile del risentimento della gente comune contro la “casta”, potrà dare corpo a quelle istanze di rinnovamento tuttora presenti nella nostra società e la cui realizzazione rappresenta tutt’ora una strada aperta, ma sicuramente in salita.

La questione imperiale

 

Imperialismo, impero, imperatore, imperiale, e via discorrendo, tutta una serie di termini che se, da un lato, sembrano voler richiamare alla nostra mente un guazzabuglio di concetti e stati d’animo opposti. Imperialista è oggi chi opprime popoli e nazioni, negando loro il sacro diritto all’autodeterminazione. D’altro canto “Impero” ci richiama alla mente le passate glorie della Roma imperiale, l’apoteosi di un modello di civiltà divenuto nei secoli l’archetipo di qualunque idea di ordinamento universale. Le due accezioni terminologiche si incontrano ed intersecano in tal modo, da ottenere il paradossale effetto di far convivere nel medesimo ambito ideologico l’idea di impero con quella di stato-nazione, o quella di avversione all’imperialismo con l’idea di un’ordinamento globale delle libertà, delle istanze, dei diritti, che a guisa di un vero e proprio impero si sotituisce all’obsoleto concetto di stato-nazione. Altrove invece si auspica l’avvento dell’impero di una fede universale in grado di spiazzare e sostituire tutte le espressioni di una laicità corrotta e decadente, tra le quali in primis non può non spiccare, l’ immarcescente imperialismo planetario USA. In tal modo però, si rischia di fare del termine impero un guscio vuoto che oramai si presta a più interpretazioni, dando oltretutto luogo a pericolose confusioni ideologiche e terminologiche.

La prima definizione storicamente corretta, che pensiamo si possa dare di impero, riguarda la presenza di uno stato che contempla al proprio interno il convivere di più nazioni; tale entità è altresì caratterizzata da una continuità territoriale in grado di marcarne la differenza rispetto agli altri contesti, caratterizzati dal principio “una terra, un popolo”. Imperi furono quello assiro, quello iranico, quello, sia pure effimero, di Alessandro Magno, quello romano, quello bizantino, il Sacro Romano Impero, l’Impero Austro-Ungarico, l’Impero Ottomano, quello russo, e perché no? l’ex URSS. Abbiamo detto che ciò che accomuna tutte queste costruzioni statali, è sicuramente una continuità territoriale, inscindibilmente affiancata ad un comune riferimento istituzionale. Presupposto questo che non si verifica, per esempio, con i cosiddetti “imperi coloniali” che, dagli albori dell’Età Moderna hanno marcato  con la propria presenza la storia del mondo intero. Qui a mancare è il presupposto della continuità territoriale, quella omogeneità continentale che ha sempre fatto dell’impero un qualcosa di duraturo perché inserito a pieno titolo nel contesto degli equilibri regionali di una determinata area geografica. Non solo. A determinare la nascita degli imperi erano scelte per lo più dettate dalla ragion di stato, e non dalle varie Compagnie di commercio inglesi, olandesi etc.

Gli “imperi” coloniali di sicuro non mancheranno di trasmettere ai vari popoli sottoposti le proprie istanze culturali e religiose. Nonostante tutto questo, nell’arco di un tempo medio di tre secoli verranno tutti scalzati dalle istanze identitarie provenienti dagli ambiti geografici sottoposti alla loro influenza più o meno diretta. Questo è quanto avvenuto con gli imperi coloniali spagnolo, britannico, francese, olandese, etc. C’è un’ulteriore forma di espansione statale a cui, in qualche modo, si è attribuito la qualifica di impero. Tale forma è il risultato dell’espansione politico-militare delle istanze ideologiche di un singolo stato. Il caso dell’imperialismo fascista da una parte e di quello bolscevico dell’URSS dall’altra è, a tale scopo, esemplificativo. Nel caso dell’Italia fascista, parlare di “impero” riguardo all’annessione di Etiopia e di Albania è quanto di più improprio si possa fare. Il Fascismo sorge proprio come variante eterodossa del socialismo e di quel nazionalismo repubblicano e mazziniano di cui non rifiutò mai le istanze primarie trovando, anzi, nell’esplosione del Primo conflitto mondiale la magica occasione per fare ingresso a pieno titolo tra i protagonisti della storia. E’ bene ricordare che l’entrata in guerra dell’Italia fu determinata in base ad una ben precisa istanza anti-imperialista di cui il Fascismo si farà fedele ed intransigente interprete. L’istanza imperiale di cui il Fascismo si farà interprete rappresenterà una vera e propria contraddizione in termini, visto che qui si dovrebbe parlare di “impero-nazione”, arrivando così all’apparentamento di due concetti agli antipodi. Altra cosa è invece il tentativo di instaurare un fronte che accomuni ed apparenti più nazioni nel nome di un comune ideale, cosa che i Totalitarismi novecenteschi tentarono di fare: in modo più affrettato e confuso Fascismo e Nazismo, in modo sicuramente più organizzato il marxismo sovietico. In quest’ultimo caso, il cosmopolitismo marxista accompagnato alle istanze espansionistiche sovietiche dette luogo ad un qualcosa di simile ad un impero; laddove l’Unione Sovietica ed i paesi confinati rappresentavano il vero e proprio impero continentale ed il resto erano nazioni alleate, sottoposte o sottomesse, nella veste di “domini d’oltremare”. Dunque quello sovietico, anche se un ibrido, può esser considerato l’ultimo degli imperi nella più corretta accezione di questo termine. Gli USA stessi, oggidì additati quale “impero” non possono esser considerati tali, se non nel senso più lato, limitato ad un brutale espansionismo ideologico ed economico. Gli USA, ma anche il sionismo, il Vaticano, i poteri forti dell’economia, potrebbero essere considerati dei veri e propri imperi, molto più eterei, invisibili, intangibili, ma non per questo meno pericolosi. L’Impero rappresenta quindi un concetto oggidì svuotato di qualsiasi contesto geopolitico, per assumere invece una connotazione eterea, proteiforme, in conformità al nuovo scenario globale che va delineandosi. Qui comunità, nazioni, imperi sono sempre più superati e resi obsoleti dalla nozione di “contesto” e “scenario”, sicuramente più appropriati alla situazione che va delineandosi. Il conflitto epocale che va via via delineandosi non sarà più tra “buoni” e “cattivi”, tra chi romantico fautore di un “imperium” contrapposto ai “cattivi” dell’altra “parte”, finirà, sua nonostante, con il trovarsi a militare sotto le insegne dell’impero USA (tanto sempre di un impero si tratta, visto che per certa gente basta prendere ordini…). Il conflitto prossimo venturo sarà tra chi crede, nonostante tutto, ad una soluzione universale ad un problema universale, e chi, invece, crde che esista soluzioni particolari ad un problema universale. Per gli uni, una soluzione valida per tutto e per tutti, una specie di passe partout in grado di garantire l’accesso alla salvezza eterna, al paradiso terrestre. Per gli altri, la capacità propria a ciascun contesto di saper trovare una soluzione originale (conforme cioè al proprio modo d’essere) ad un problema universale. Il ventunesimo sarà il secolo dello scontro tra Globalismo e localismo, tra universalismo e particolarismo, tra assetti multipolari e realtà comunitarie.

La progressiva tendenza all’uniformazione dell’intero mondo ai canoni di pensiero occidentali sta spalancando la porta ad uno scontro senza precedenti; in giuoco la sopravvivenza di un pianeta che rischia di essere sopraffatto e soffocato dall’uniformità e dal grigiore di uno stile contrapposto ai mille colori, ai mille suoni, alle mille istanze di un meraviglioso arcobaleno che, nella sua infinita gamma di colori non finirà mai di stupirci.

Islam e Globalizzazione: il problema

 

Con l’attentato alle Torri Gemelle e la conseguente defenestrazione del regime talebano in Afghanistan e di quello baathista iraqeno da parte di coalizione a guida USA, si è riaccesa la riflessione ed il dibattito su quello che sembra essere divenuto un po’ il tormentone del nuovo millennio: i rapporti tra il mondo occidentale e quello islamico. Ad un primo e superficiale colpo d’occhio sembra di aver proprio a che fare con una rinascita demografica, politica e religiosa di quello che nei secoli passati fu lo spauracchio delle monarchie di mezza Europa: ovvero l’espansionismo islamico, inizialmente portato avanti dagli Arabi sotto la sapiente guida di Maometto ed in seguito divenuto il cavallo di battaglia per giustificare l’espansione politico-militare dei Turchi Ottomani. Ma a ben vedere il problema di uno scontro Islam-Occidente, è in verità un non problema, in quanto parte da una formulazione iniziale non esatta. L’Islam innanzitutto. Islam sta per “devozione o sottomissione assoluta” ad un Dio, Allah, che fa del Profeta Maometto il proprio fido portavoce, colui che vero e proprio “orecchio di Dio” dovrà raccogliere con certosina pazienza e devozione quanto via via gli verrà rivelato. La raccolta dell’intera rivelazione divina costituisce il Corano, il libro sacro dell’Islam. L’Islam rappresenta quindi l’anello finale di quella rivelazione che, inizialmente trasmessa ad Abramo, passa attraverso la rivelazione di Cristo, sino ad arrivare allo stadio finale, costituito da Maometto, ultimo tra i Profeti. L’Islam nasce quindi all’insegna della continuità con le precedenti grandi religioni rivelate verso cui, anzi, non si pone in un senso di rivalità, bensì come teologia posta a suggello delle precedenti di cui vuole essere completamento e prosieguo. Non solo. L’Islam ha sempre guardato con attenzione e simpatia ai filosofi greci, (ad Aristotele principalmente, senza lesinare simpatie per Platone) visti come validi supporti alle dottrine dei Profeti. Avicenna, Averroè, Al Kindi, sono solo alcuni tra i nomi di coloroi che della filososfia ellenica mutuarono i concetti operando una sapiente rielaborazione in senso più propriamente teosofico (volto cioè a realizzare un’approfondita meditazione su ed all’interno della sostanza divina). Senza contare la profonda interazione con la Gnosi, sulla cui scia l’Islam si colloca decisamente, tramite una visione decisamente dualista del rapporto tra l’uomo e l’elemento divino, non antropomorfizzabile, non conoscibile, non definibile se non  all’insegna delle coordinate di una ferrea sottomissione: L’Arcangelo Gabriele che piange disperato perché pur vicino ad Allah, non può contemplarlo in tutto il suo splendore, rappresenta la riconferma di quanto affermato. All’inizio del proprio percorso interiore, Maometto, uomo sicuramente attento ai fermenti che attraversavano le società del Vicino Oriente nel 7° secolo DC, guardò con molta attenzione al fenomeno dei Monofisiti ed a quello dei Nestoriani ed al dibattito che questi ingenerarono.

Mentre l’eresia di Nestorio teneva ben disgiunte la natura divina da quell umana del Cristo, i Monofisiti posero invece l’accento sulla natura esclusivamente divina di quest’ultimo. Da queste concezioni Maometto trarrà linfa vitale nell’elaborazione della propria percezione del divino. Dopo questa rapida carrellata sulle effettive radici culturali della dottrina islamica, non si può non arrivare alla conclusione che essa, in quanto tale, dell’Occidente rappresenta una filiazione o, quanto meno, l’adattamento dei parametri di pensiero di “certo” Occidente alle popolazioni semitiche della penisola arabica ed in seguito a tutte quelle del Vicino Oriente ed oltre. Punto primo. L’Islam in quanto mutua dall’Occidente le proprie principali coordinate doi pensiero, non è collocabile “si et si” in una posizione conflittuale verso quest’ultimo. Punto secondo. Coerentemente con quanto poc’anzi detto, va piuttosto definito contro “quale” Occidente l’Islam si vorrebbe collocare. Punto terzo, e di non poca rilevanza. Se è vero che l’Islam con l’Occidente condivide alcuni fondamenti, è anche vero che ne dovrà condividere le problematiche. Per dare una chiara risposta a questi tre punti problematici

è necessario partire da un assunto di base. L’Islam sembra condividere le aspirazioni universalistiche dell’Occidente globalista, in quanto religione connotata da una forte istanza universalistica, che in tal modo sembrerebbe rappresentare il perfetto contraltare all’irrefrenabile avanzata dell’altro universalismo, tutto all’insegna di un esasperato tecno-economicismo e di cui gli USA sembrano essere il perfetto alfiere. La condivisione di fondamenti culturali con l’Occidente porta però anche alla scomoda condivisione di tutte quelle problematiche attinenti alla struttura stessa del pensiero, alla sua “forma formans”. Di queste problematiche, quella che maggiormente incarna l’essenza dell’Occidente è rappresentato dal problema della struttura del pensiero metafisico. Il pensiero filosofico di alcuni autori come Heidegger, Cassirer ed altri ancora, è incentrato sulla considerazione dell’insufficienza della metafisica occidentale a penetrare ed a capire l’essenza della realtà, proprio perché la metafisica, nata come la più completa ed onnicomprensiva sintesi interpretativa della realtà, finisce per divenire invece un ostacolo che si frappone tra noi e quest’ultima, grazie ad un graduale processo di sclerotizzazione che sembra irrimediabilmente abbattersi sull’intera costruzione metafisica. Ecco dunque affacciarsi prepotente il problema del senso che, dinnanzi all’inesorabile scorrere di un impietoso divenire, finisce con il divenire non senso, lasciando l’uomo in preda allo smarrimento ed all’incertezza più totali. Apparentemente corredato da fortissime certezze metafisiche, l’Islam si trova sempre più costretto ad interagire con un Occidente di cui sicuramente molto avversa, ma con cui sicuramente si trova, come abbiamo già visto, a condividere molti aspetti. Sinora il mondo islamico aveva potuto fruire di quelle inossidabili certezze che solo un mondo non globalizzato, fatto di limiti, confini nazioni, imperi, poteva permettere. Oggi invece, il mondo della Post Modernità va sempre più strutturandosi come un’immenso reticolo interconnesso di uomini, esigenze, società, o addirittura spicchi e settori di quest’ultima, tutti accomunati e mortalmente condizionati da un modello economico assurto ad unica ragione di vita per milioni e milioni di individui. La stretta interconnessione tra economia e tecnica crea una dipendenza da cui è ben difficile liberarsi, poiché essa anzitutto sembra rappresentare la liberazione da quell’infinità di problemi che sembrano quotidianamente affliggere l’umana esistenza. Una liberazione che finisce con il rivelarsi momentanea ed illusoria, visto che i problemi si ripresentano puntualmente all’orizzonte dell’umana esistenza, aggravati da una forma di sempre più insolubile dipendenza. Il fatto è che la interconnessione tra economia e tecnica è dotata della proprietà di autocontraddirsi, che solo il primario senso della convenienza economica è riuscito sinora a determinare, rischiando in tal modo di mandare a gambe per aria qualunque forma dipensiero totalizzante, che in tal modo ne risulta continuamente messa alla prova. Sino a che non si riuscirà a determinare una nuova sintesi di pensiero in grado di conciliare al proprio interno le principali opposizioni metafisiche rappresentate da Essere e Divenire, sarà ben difficile che una religione foss’anche quella islamica con tutte le sue incrollabili certezze, potrà aver ragione della Globalizzazione. In questa cornice il confronto tra Islam e mondo occidentale sembra piuttosto rappresentare uno stadio intermedio tra l’iniziale incontro tra differenti assetti di civiltà, ed un successivo omologarsi ed adeguarsi ad un unico e sempre più pervadente modello di sviluppo.

Stranamente taluni tra i più attivi centri di irradiazione di certo integralismo islamico sono saldamente impiantati in quelle nazioni che, maggiormente tra altre, hanno rapporti con la potenza nord americana. Arabia Saudita, Pakistan, Paesi del Golfo, rappresentano un eloquente esempio di quanto detto, lasciando intravvedere all’origine di certi fenomeni un’accorta regia.

Evocare lo spettro di uno scontro delle civiltà fa il paio con il sostenere ad oltranza la società multirazziale. L’uno giustifica l’altra, in un inscindibile giuoco delle parti in cui tutti coloro che in qualche modo provano a difendere la propria identità vengono demonizzati, spinti allo scontro fisico con l’ “altro”,  grazie all’imposizione di innaturali modelli di convivenza e sviluppo su scala globale. La strisciante guerra civile tra sunniti e sciiti in Iraq e Pakistan, che non si sa bene a chi dei due contendenti possa realmente far comodo, la strana questione del nucleare iraniano, dietro cui vi è in giuoco il dominio di un’intera area strategica da parte di certe persone e così via per altri esempi.

Alla base di tutto sta sempre un’accorta e stisciante disinformazione che tutto distorce ed addomestica, grazie ad un generale clima culturale in cui a farla da padrone sono media i cui spunti di riflessione non vanno oltre “Striscia la notizia” ed “Il Grande Fratello”.

Monopolare o bipolare?

 

Sul “Corriere della Sera” di Lunedì 20 Maggio, è apparso un’interessante articolo di Ernesto Galli Della Loggia dal titolo “La frattura invisibile”. Il corsivo prende lo spunto dall’ingresso nella NATO, sia pure in un rapporto di partecipazione esterna, della Federazione Russa. Ciò che, a parere dell’autore, desta notevole preoccupazione, è la creazione di un blocco geostrategico euro-occidentale\russo\americano, tutto collocato nell’emisfero nord del pianeta e quindi contrapposto al sud del medesimo emisfero. Siamo, dunque, all’inizio di quella più vasta e generale contrapposizione di civiltà, che tanto paventata dall’Huntington, vedrebbe ora sempre più contrapposti Nord e Sud del pianeta, in uno scontro dagli esiti imprevedibili? Una cosa è certa: con la caduta del Muro gli scenari geopolitici sono cambiati, offrendo agli studiosi del settore la possibilità di elaborare le più svariate proiezioni. Diciamo che tra le varie “ipotesi di lavoro”, due sono quelle che in questo momento si affrontano: la prima che vede la Storia ancorata ad un criterio teleologico, cioè finalistico. Per coloro che seguono tale impostazione, la Storia è arrivata alla fine, grazie al trionfo del libero mercato e dell’ideologia liberale, che ci regalerà un mondo senza guerre, tutto imperniato sull’etica del buon borghese (Fukuyama). Oppure, per dirla col buon Toni Negri, siamo alla fase dell’Impero Globale, capitanato dalle Multinazionali, caratterizzata  dalla globalizzazione della lotta di classe. Per altri ancora, tale globalizzazione è frutto di un complotto, che capitanato dalle “plutocrazie occidentali” e dalle proprie consorterie finanziarie, sta gettando il mondo ai loro piedi.

Dall’altra parte abbiamo una schiera di autori, che seppur con accenti e visioni diverse, sono accomunati da una visione “multipolare”, dell’evoluzione dei prossimi eventi storici.

“Multipolare” perché, a sentir costoro, il mondo va sempre più organizzandosi, sia politicamente che economicamente, attorno a vari “poli”, espressione dell’aggregazione delle varie civiltà del pianeta. Una divisione non più basata sull’adesione o meno ad una determinata ideologia, bensì sull’aderenza ad una certa area etnico-culturale. Taluni, come Huntington, vedono queste aggregazioni in conflitto tra loro. Altri come Immanuel Wallerstein e Paul Kennedy, vedono addirittura gli USA in una fase di profonda decadenza, a cui seguirà un periodo di ri-nazionalizzazione globale, accompagnato da una lunga conflittualità etnica. Secondo il primo autore, il Capitalismo morirà per i propri eccessi, mentre per il secondo gli USA non hanno alcuna voglia di assumersi la responsabilità del governo del mondo (sic!). Autori come Saul B. Cohen, (seguito da Etzioni, Haas ed altri) invece, tali aggregazioni le vedono come alternativa di maggior equilibrio rispetto al vecchio bipolarismo USA-URSS, in una formula di regionalismo multipolare. Kissinger e Brzezinsky, preconizzano rispettivamente un ordine mondiale pentapolare e trilaterale, (USA, Europa, Urss, Giappone e Cina) \ (USA, Europa e Giappone).

Edward Luttwak ha un approccio, riguardo a tale problema, che rappresenta un salto di qualità.

Secondo questo autore, difatti, la conflittualità militare nel mondo industrializzato non è più possibile, e viene per questo sostituita da una perenne conflittualità di tipo “geoeconomico”. Si viene così ad avere uno scenario mondiale dominato da grandi blocchi, che si muoverebbero in ragione di conquiste economiche, di cui gli Stati rappresenterebbero l’ideale piattaforma di lancio. Il conflitto militare classico, rimarrebbe invece prerogativa dei paesi più poveri. Uno scenario perfettamente in sintonia con le aspirazioni USA, non c’è che dire! Le varie analisi, qui brevemente riportate, presentano quello che è lo svantaggio connaturato alla geopolitica, che, in quanto tale, non è una scienza, e quindi non può esser fornita di quel determinismo e di quello scientismo in grado di garantire risultati certi. Questo perché la geopolitica “si et si” rappresenta un approccio multidisciplinare a quello che è il problema dell’analisi che precede l’azione politica, in questo caso rapportata alle relazioni internazionali. Un discorso soggettivo, dunque, anche se confortato da dati esterni obiettivi.

Che il mondo vada riorganizzandosi “motu proprio” in base a criteri d’appartenenza etnico-culturale, è vero. Ma questo avviene come reazione all’invadenza del modello politico-economico “occidentale”. Che le varie civiltà entrino sempre più frequentemente in conflitto con gli interessi occidentali, è vero. Ma in questo specifico caso, accade sempre e solo grazie alla vertiginosa espansione del modello occidentale, che da dieci anni a questa parte, non ha più conosciuto ostacoli di sorta, se non quella che può esser definita una fisiologica e disperata resistenza di qualche raro caso. Il Sud Est asiatico e la Cina mettono in pericolo la supremazia politico-economica USA? Bene, lo sapete quali sono i maggiori investitori in Cina? Ma naturalmente gli USA, seguiti dagli altri partners occidentali. Avete dimenticato il recente scivolone delle economie Est asiatiche, grazie alle manovre speculative dei vari Soros? E la recessione giapponese, nata da una strutturale debolezza dell’ economia di quel paese, venuta fuori con la prima seria recessione economica internazionale? E la “minaccia islamica”? Le turbolenze del Vicino Oriente, nascono dalla totale assenza di un’autorevole presenza politico-diplomatica della vicina Europa, sostituita dagli interessi americani, di tutt’altra natura rispetto a quelli europei. Gli USA hanno bisogno di un mondo multipolare, così da poter meglio dividere i costi e le responsabilità della gestione politico-economica di un sistema globale, che da soli non potrebbero gestire, a causa dei costi troppo elevati che un’opzione del genere richiederebbe. Questo, fermo restando l’assoluto monopolio nord-americano sul sistema finanziario mondiale, vero strumento di controllo globale e che potrebbe permetter loro di campare di rendita per i prossimi cento anni. E’ chiaro che, ogni impero che si rispetti ha i suoi vassalli inquieti, le sue province ribelli, i propri Spartaco da punire e redarguire. Ora si tratta di capire se, nell’ottica di un complessivo riordino dell’assetto geopolitico in un senso multipolare, tramite la redistribuzione di poteri tra gli USA e vari referenti, non si rischi di innestare quello “scontro di civiltà”, tanto caro a certi autori. Uno scontro che finirebbe col rivelarsi esiziale per gli stessi Stati Uniti. A questo punto, solo un obiettivo esame della Storia, liberato da pericolose incrostazioni ideologiche, potrà darci delle risposte autorevoli.

La guerra civile mondiale

 

Strano inizio di millennio, questo. Tra speranze per un avvenire globalizzato, infarcito di slogan e di banalità, e la progressiva materializzazione dell’incubo di una silenziosa e strisciante guerra combattuta da tutte e da nessuna parte. La “guerra infinita” di Bush e soci, dichiarata dalle potenze occidentali contro il “terrorismo”, o qualcos’altro? Il problema è che ogni volta che un disegno contraddistinto da un forte messianismo ha voluto irrompere sul palcoscenico della Storia nel ruolo di protagonista in esclusiva, si  sono verificati problemi e guai a non finire. Eppure qualcuno vi dirà che la Storia è finita, o giù di lì, qualcun altro vi affermerà che si tratta solo di far “adattare” gli altri ai civili usi occidentali, pena lo scontro tra civiltà, ma nessuno, vi dirà qual’è la reale natura dello scontro in corso. Cominciamo con il dire che l’avvento dell’ideologia liberal capitalista, è stata contrassegnata da una serie di reazioni che via, via sono aumentate di intensità, proporzionalmente all’aumento della posta in giuoco, che oggi corrisponde al dominio del mondo da parte di questa ideologia, che ha negli USA il principale mentore e portabandiera. Va dunque accantonato il concetto di silenziosa e pacifica omologazione del mondo al Globalismo, in favore invece di un fenomeno la cui irrefrenabile ascesa è invece caratterizzato da una serie di alti e bassi derivanti dalla sempre più completa interazione tra politica ed economia.

Ma veniamo un momento ad analizzare sul concreto i fenomeni

“di rigetto”, venutisi a creare con l’attuale stato di cose. Dalla caduta del Muro in poi, si può parlare principalmente di tre fenomeni. L’etnicismo esasperato, di cui la guerra nella ex Yugoslavia e nelle regioni dell’ex URSS, è l’esempio più evidente. Un fenomeno caratterizzato dal totale rifiuto della società multi-etnica, così come invece esasperatamente postulato dall’attuale Globalismo, a cui fa da logica conseguenza il risveglio delle varie coscienze religiose, di cui quello islamico risulta essere quello di gran lunga il più vitale.

Supportato da un vero e proprio “record” di natalità, esso si porta sovente appresso tutte le frustrazioni di quel settore di popolazione mondiale che non hanno diretto accesso ai vantaggi derivanti dai utili sulla produzione petrolifera, con poche eccezioni. Palestina, Iraq, Cecenia ed Afghanistan, sono i principali focolai di tensione, senza però dimenticare Aceh, Filippine e Sinkiang. Terzo fenomeno, la nascita della realtà No Global. Nonostante frammentato in una miriade di realtà, spesso contraddittorie nel modo di porsi dinnazi ai problemi, si può dire rappresenti al giorno d’oggi l’unica realtà in grado di opporsi al Globalismo in Occidente.

Il problema ora, è di valutare quanto e come tutte queste realtà incidono sulla attuale situazione. La prima considerazione da farsi, è che tutte e tre i fenomeni da noi presi in considerazione, sono soggetti a “tutele” e manovre esterne di vario tipo che spesso ne inficiano o quantomeno ne riducono pesantemente la reale carica di fenomeno “eversivo”. Nel caso della ex Yugoslavia e del Kosovo, i contrasti inter-etnici sono spesso stati usati per arrecare concreti vantaggi geo-strategici alle varie potenze coinvolte (USA in primis),

neutralizzando qualsiasi avversario “scomodo”, tramite la creazione “ad hoc” di Tribunali Internazionali, e fomentando colpi di mano interni alle singole realtà statuali (valga per tutti l’esempio della Serbia). Per il caso dell’integralismo islamico, il fenomeno è più difficilmente neutralizzabile. Caratterizzato anch’esso da un a storia di forti infiltrazioni da parte americana (e russa, in passato), rimane molto più difficilmente manovrabile, a causa del contesto universale e quindi extra statuale a cui si riferisce. Bin Laden, inizialmente combattente al soldo della CIA in Afghanistan, ben presto si trasforma in un fiero nemico degli USA e dei sauditi, al pari di altri suoi compari. Il movimento No Global, sebbene infiltrato e troppo spesso addomesticato, si fa interprete di un’ideologia, di un modo di vedere che oramai non trova più un autorevole referente in quella che era la super potenza ideologizzata per eccellenza, cioè l’Unione Sovietica. Venuta a mancare quest’ultima sulla scena internazionale, la Sinistra Antagonista si è dovuta praticamente muovere da sola, a parte qualche occasionale e saltuario appoggio esterno. Se antecedentemente al crollo del Muro, qualunque situazione conflittuale era facilmene riconducibile alla logica del confronto Est-Ovest, USA-URSS, oggi il confronto sembra essersi spostato da una parte tra il blocco occidentale (capeggiato dagli USA) e tutti quegli Stati che in qualche modo rifiutano di accettarne i principii-guida in tema di politica e di scelte economiche, i cosiddetti “stati-canaglia”. Dall’altra parte, si viene invece profilando uno scontro tra il blocco occidentale e quelle entità a carattere sovranazionale, caratterizzate da forti motivazioni ideologiche. Dalle varie entità organizzative della Sinistra Antagonista (Movimento No Global, realtà ecologiste, ma anche i gruppi di fuoco anarchici italiani ed europei, le nuove Brigate Rosse, etc.), ai movimenti dell’integralismo islamico come Al Qaeda, sino a passare per i gruppi indipendentisti Baschi, Còrsi, Irlandesi, Curdi, Ceceni, Palestinesi, (che, pur caratterizzati da un forte etnicismo, rappresentano solamente un’aspirazione a divenire stato e possono essere tranquillamente inclusi nella categoria di quei movimenti che agiscono a livello sovranazionale), sembra che oggi si stia profilando quello scenario da Lenin e Trockij ventilato più di ottant’anni fa, e cioè quello di una guerra civile mondiale. Una guerra civile tanto più insidiosa, quanto più caratterizzata da nuovi soggetti che molto spesso rifuggono dalla dicotomia classista “proletario-borghese”, ma che rientrano sicuramente in quella interclassista “sfruttatori-sfruttati”, che finisce per accomunare sotto la stessa bandiera situazioni tra loro spesso diversissime. Un’antagonismo che oggi trova le proprie radici nella compressione identitaria ed in una frustrante interdipendenza economica che del processo globalizzatorio costituiscono la caratteristica primaria. Un conflitto dunque, i cui sviluppi sono resi ancor più imprevedibili proprio da quella globalizzazione, che del progressivo abbattimento delle barriere culturali fa la propria massima aspirazione, arrivando così a rendere partecipe il genere umano preso nella sua interezza,  di tutte quelle situazioni conflittuali che via via si presentano e che finiscono inevitabilmente con l’assumere una portata universale. Globalizzazione dunque, anche come percezione di eventi e come inevitabile terreno di coltura per quella “guerra infinita”, che altro non sarà se non una strisciante guerra civile che, senza esclusione di colpi, avrà come teatro l’intero globo. Sfruttati contro sfruttatori, nuove categorie di soggetti che aspirano a tutta una serie di libertà, economiche, identitarie, politiche, si scaglieranno a varie riprese contro quel tanto auspicato Nuovo Ordine Mondiale, in un imprevedibile crescendo di eventi determinato dall’entità della posta in giuoco, ovvero il dominio sul mondo intero. Un dominio che, invece, sembra per ora consolidarsi saldamente nelle mani di una ristretta oligarchia politico finanziaria, animata da una precisa scelta ideologica che, nell’economicismo di matrice illuminista, ha il proprio asse portante. Un gruppo ristretto, perfettamente organizzato ed animato da scelte ben precise, si contrappone ad un fronte variegato ed animato dalle più diverse esigenze e motivazioni. A chi la palma della vittoria, dunque? Se dovessimo applicare per esteso al nostro caso le categorie di pensiero leniniste o anche quelle del più puro elitarismo paretiano, a risultare vincente

dovrebbe essere il gruppo delle oligarchie finanziarie; ma le vicende del mondo, si sa, sono spesso dominate da quell’imprevedibilità in grado di spalancarci innanzi nuovi ed inaspettati orizzonti. Oltretutto non è detto che un logorante conflitto tra fazioni debba portare per forza alla vittoria netta e decisiva di una delle parti. Anche in questo caso, la Storia dovrebbe farci da maestra. Le istanze illuministe trovarono terreno fertile al termine della lunga guerra civile interreligiosa, che aveva lungamente contrapposto cattolici e protestanti sui campi di battaglia di mezza Europa sino al 17°secolo inoltrato. L’Europa delle nazioni sorgerà sulle ceneri di una altro celeberrimo conflitto senza reali vincitori: quello medioevale, tra gli ordinamenti a carattere universale di Papato ed Impero. Si potrebbe continuare così all’infinito ma, al di là delle singole analisi, permane attualissima la considerazione sulla fallacità dell’essere umano, da qualunque posizione si trovi questi ad agire. Male hanno fatto i Signori dell’Oro a risvegliare certe forze, credendo di poterle manovrare per i propri fini. Peggio hanno fatto, scaricando o tradendo i propri alleati per fini di opportunismo tattico. Ma di una cosa siamo certi: questi signori non dormiranno più sonni tranquilli.

Chi vivrà vedrà!

Geopolitica ed imperialismo

 

Il recente smantellamento di una estesa rete spionistica israeliana in tutto il territorio USA, ed in particolare in quelle città, nelle quali è stata rilevata la presenza di nuclei dell’organizzazione Al Qaida (Hollywood, per citare una delle più famose), ci pone dinnanzi ad un fatto gravissimo, che non può esimerci assolutamente dall’analizzare in modo più profondo e meno massimalista, quelle che sono le “ipotesi di lavoro”, strettamente interrelate alla tematica della Globalizzazione, ultima ed attuale frontiera degli studi storici e geopolitici. Anzitutto, mi sembra sia necessario chiedersi in che senso oggi noi parliamo di Globalizzazione, ovvero quale è l’esatto “modus agendi” in cui tale fenomeno va inquadrato. Il non dare una risposta a tale quesito, comporterebbe una visione distorta degli eventi che, limitata al fenomeno “si et si”, non potrebbe offrirci quelle risposte oggidì tanto urgenti. Il fenomeno globalizzatorio va, anzitutto, inserito in quello che è lo studio comparativo delle civiltà, e del loro svilupparsi all’interno della Storia umana.

Già, per chi non lo avesse capito, la storia dell’uomo è anche Storia di civiltà, che si susseguono in un continuo di alterne vicissitudini. Studiosi come Weber, De Gobineau, Durkheim, Spengler, Haushofer, Toynbee, Bagby, Quigley, Braudel, Fukuyama, Huntington, solo per citarne alcuni, hanno tentato di dare una definizione del concetto di civiltà, in grado di definirne anche le modalità di sviluppo. Il concetto di civiltà anzitutto. Civiltà è quel collant etno-culturale che accomuna differenti realtà comunitarie. Un collant, che, sebbene parta sempre caratterizzata da un elemento etnico di base, può tranquillamente finire con l’accomunare sotto di sé una pluralità di elementi etnici differenti, in quanto ciò che finisce col caratterizzare, anzitutto, una civiltà è proprio la comunanza di cultura. La razza finisce, col tempo, per divenire un elemento relativo al contesto “civiltà”. Difatti possiamo benissimo avere razze differenti accomunate da un medesimo modello culturale o religioso (l’ecumenismo religioso cattolico o islamico, per esempio), o, viceversa, razze o etnie del medesimo ceppo, profondamente divise quanto a contenuti culturali (il caso della ex Jugoslavia è, a tal proposito, illuminante). Civiltà, dunque, come entità “totali”, in grado cioè di inglobare al proprio interno i più svariati elementi, che sempre a tali entità dovranno far capo per essere identificati. Toynbee, molto discutibilmente, afferma che le civiltà inglobano, ma non sono a loro volta inglobate. Le civiltà, dunque, come entità prevalentemente culturali, sono provviste di una dinamica che le porta ad attraversare varie fasi. Vi sono studiosi come Quigley che vedono l’evolversi del processo civilizzatore in stadi definiti, altri come Melko in processi molto più dinamici, di continuo consolidamento da una fase all’altra, altri come il Toynbee, pensano ad un processo di continua risposta a determinate sfide, altri ancora come De Gobineau, vedono nella civiltà l’espressione di una determinata e definita realtà etnica, irrimediabilmente destinata alla decadenza, sin dal suo immediato sorgere, grazie alla continua opera di annacquamento dell’elemento razziale di base e via di questo passo. A parte le logiche differenze che caratterizzano i vari autori, tutti sembrano però esser accomunati dalla conclusione che le civiltà sono tutte caratterizzate da tre distinti momenti: quello della nascita, accompagnato da una forte conflittualità, quello del consolidamento che porta all’universalizzazione di quello che, inizialmente, era un contesto locale, ed infine, la decadenza, ovvero la fine di quella stessa civiltà. Tornando a noi, dunque, il concetto di “globalizzazione” non è nuovo agli occhi della Storia. Globale era la civiltà Classica, che accomunò ad una visione del mondo, un territorio che andava dalla penisola iberica al settentrione dell’India. Non meno globali, se vogliamo, erano le civiltà sorte sulle rive del Tigri e dell’Eufrate. Dalla struttura di governo teocratica, al particolare politeismo, sino all’architettura, molto spesso  caratterizzata da una forma di gigantismo nell’edificazione di mura e templi, questo tipo di civiltà conoscerà una espansione che le garantirà tre millenni di sopravvivenza, interrotti dall’irrompere sulla scena, dei popoli indoeuropei.

Lo stesso Medio Evo, imperniato sulle strutture  feudali, ha rappresentato, in un certo senso, una forma di civiltà “globale”, almeno per l’intera Europa ed alcune entità statuali del vicino Oriente, come Bisanzio. Allora, quale è l’elemento che definisce “globale” l’attuale civiltà occidentale, demonizzandola agli occhi di molti? L’economicismo, diranno molti di noi. Il Liberalismo e la democrazia, vi diranno altri. Le scoperte scientifiche accompagnate da un’ipertrofica crescita economica, affermeranno altri ancora. La sintesi di questi ed altri elementi ancora, si potrebbe dire, estesa ad un contesto geopolitico planetario. Arrivati a questo punto, però, prima di arrivare a frettolose conclusioni, è bene orientarsi e capire, quali sono i più recenti sviluppi offerti dalla ricerca storica.

Al riguardo, possiamo sommariamente distinguere tre scuole di pensiero: quella di derivazione marcatamente liberal-positivista, che vede nel proprio “enfant prodige” F.Fukuyama l’autore di punta. Perno centrale di questa scuola, è l’ineluttabilità del processo di adeguamento del mondo intero all’ideologia liberal-capitalista. Scintilla di tale processo starebbe nella caduta dell’Unione Sovietica, che porterebbe alla cosiddetta “fine della Storia”, ovvero ad un mondo omologato al liberalismo, e per questa stessa ragione, depurato da qualsiasi rilevante conflittualità.

La seconda scuola, è di derivazione marxista, con sfumature razionaliste. Il più recente ed accreditato rappresentante di tale scuola, è Toni Negri. Nel suo “Empires”, costui preconizza l’avvento di un’entità sovranazionale, svincolata addirittura dalla potenza USA, che vede nel dominio economico delle Multinazionali l’impalcatura portante di tale disegno. Prospettiva principale, all’interno di tale entità è il raggiungimento della cittadinanza universale, vero strumento di liberazione globale, in grado di realizzare una totale parità di diritti, nell’ambito di una mai sopita, ottica di lotta di classe. La terza scuola di pensiero, ha in S.Huntington il principale cantore, seguito da autori come G.Faye ed altri. Si potrebbe dire, che qui si voglia prendere le mosse dalle analisi di uno Spengler o di un De Gobineau, sviluppandole successivamente in un’ottica di etnocentrismo di stampo “liberal”. Questo tramite una visione dell’Occidente (inclusi gli USA), visto come una civiltà in declino, a cui farebbero da contraltare tutta una serie di realtà extraeuropee, animate da un forte sentimento di rivalsa nei riguardi di quest’ultimo. L’attuale momento storico, non sarebbe visto come caratterizzato da un’espansione in senso universalistico della civiltà occidentale, bensì da un acuirsi della suddivisione del mondo per civiltà, avendo le ideologie, con la caduta dell’URSS, perduto ogni senso d’esistere. Tali divisioni, imperniate su fattori etno-culturali, determinano l’esplosione di conflitti, che si verificano in determinati punti geostrategici “caldi”, (teoria delle cosiddette zone “faglia”). Per evitare un disastroso acuirsi di tali conflitti, l’unica soluzione proviene dalla reciproca comprensione delle singole differenze, lasciando che ognuna si gestisca entro la propria area di appartenenza geopolitica. Tutte e tre queste analisi, presentano sicuramente delle prospettive affascinanti, per il solo e semplice fatto di analizzare il presente e l’immediato futuro con dei criteri che stravolgono la quotidianità degli eventi, in quanto tendono ad enfatizzare uno solo degli aspetti che la complessa realtà odierna ci presenta. Tutte queste teorie partono, però, inficiate da profondi vizi strutturali. Fukuyama nel preconizzare la “fine della Storia”, è stato travolto dal successivo dispiegarsi degli eventi che, anzi, ha visto riproporsi in tutta la loro “magnitudo”, conflitti e contrasti che nella sua visione, avrebbero dovuto essere superati dalla stessa storia. Questo a causa di un errore di fondo: l’eccessiva fiducia nel modello liberale hegeliano, la cui capacità di indirizzare l’umana volontà di potenza, verso traguardi di vita piccolo-borghesi è ben lungi dal poter essere realizzata. Il concetto di “Impero”, dal Negri delineato, non è di per sé errato, anzi. Parte, però, inficiato dal vizio di un’analisi materialista che, in quanto tale, non può non portare che a soluzioni della medesima valenza del male che si vuole curare, al massimo intrise di un improvvido e fallace solidarismo classista. Il pensiero di Huntington, invece, pecca di una profonda ingenuità. La giusta considerazione sulla decadenza occidentale, non deve però, portare né alla sopravvalutazione delle realtà extra-europee, afflitte da mille problemi, dove sovente a fasi di impetuosa crescita economica, seguono fasi di violenta crisi. Allo stesso modo, se l’Europa ha visto ridimensionato il proprio ruolo politico, altrettanto non può dirsi per gli USA, rimasta l’unica e vitale super-potenza planetaria, in piena fase di ascesa. Il fatto che qualcuno ne contrasti la politica globalista, fa parte del normale e plurimillenario giuoco delle cose. Strano ed innaturale sarebbe, se nessuno osasse contrastare minimamente tale potenza. La Storia stessa, d’altronde, ci ha già mostrato come dopo periodi di grande conflittualità, seguano fasi di calma, a cui faranno sicuramente seguito fasi più movimentate. Lo stesso attentato di New York, o le gesta del terrorismo ceceno a Mosca, ci mostrano una situazione di nuova conflittualità, prima inconcepibile. Il bipolarismo USA-URSS, spostava i conflitti nelle aree periferiche del mondo. Africa, Asia meridionale, America Latina, erano, per lo più, i teatri di battaglia scelti dalle due superpotenze per risolvere in modo indolore i propri contrasti. La fine del bipolarismo, porterà tali conflitti sino al cuore delle due potenze. La situazione che così ci si prospetta, è molto più complessa di quello che a prima vista si potrebbe credere. Si può dire che essa è la sintesi di tutte e tre le teorie, perché se oggi è vero che quello che noi chiamiamo Mondialismo o Globalismo, (frutto e sintesi politico-economica occidentale degli ultimi 400 anni) rappresenta l’elemento in grado di catalizzare e convogliare verso un unico fine tutte le realtà nazionali del pianeta, è altrettanto vero che il raggiungimento di tale fine non è (come vorrebbe Fukuyama) lineare, ma intramezzato da profondi contrasti che determinano profonde discontinuità. Il fatto che l’Occidente (USA ed Europa Occidentale) annacqui le proprie radici identitarie in favore del melting-pot, non significa annacquamento dell’economicismo, anzi. L’eventuale sorgere di potenze extra-occidentali avviene sempre sotto l’attenta tutela dei centri di potere economico-finanziario che, ieri da Londra, oggi da New York, domani (perché no?) da Shangai o Tokyo, o da tutti e tre insieme, stanno arrivando al controllo pressochè totale del mondo.

Se qui si può azzardare il paragone, il mondo è oggi nella stessa situazione in cui si trovava ai tempi dell’Ellenismo.

Permeato da una ideologia universale, l’economicismo di matrice illuminista, vive una situazione che vede una potenza politico-economica, (gli USA) in fase di piena espansione. Una espansione che privilegia il lato economico-culturale, anziché quello della occupazione militare “de facto”, limitandosi questa all’uso di basi extraterritoriali o all’imposizione di determinate scelte politiche, tramite pressione economica (le cosiddette “sanzioni”). Un disegno di espansione che potrebbe, in qualche maniera, ricordarci il primo Impero Romano, costruito su alleanze con stati vassalli autonomi, piuttosto che su annessioni territoriali dirette. Questo perché, un eccessivo sforzo militare di tipo espansivo, porta a quello che Von Clausevitz ha magistralmente definito, come “stato di sfinimento strategico”, ovvero il logoramento determinato dall’eccessiva profusione di mezzi e risorse, in un raggio d’azione troppo vasto. Il ridimensionamento delle frontiere dell’impero romano operata da Adriano, rispetto alle conquiste ad Est di Traiano, l’attuale taglio alle spese militari di USA, Russia, Gran Bretagna ed altri, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, sono due magistrali dimostrazioni di tale concetto strategico. Nel caso degli USA ed i suoi alleati, si preferisce oggi adottare la nozione strategica di “Forza di intervento rapido”, sinonimo di una nuova mobilità strategica a livello globale, coadiuvata da un supporto tecnologico di alto profilo. Tutto questo per “normalizzare” situazioni anomale (Irak, Afghanistan, Somalia, o in futuro Corea, Yemen, Georgia, etc.). Dietro agli intenti puramente “normalizzatori”, potrebbe, però, nascondersi la chiave in grado di interpretare tutta questa situazione. Coloro che detengono il potere economico-finanziario globale, non sono settariamente uniti, anzi. Il fatto che oggi vi sia in giuoco il dominio del mondo intero, fa sì che, mai sopiti contrasti, riesplodano oggi con virulenza. L’incertezza dei risultati della campagna elettorale USA, con la conseguenza di una pericolosa instabilità politico-istituzionale, il taglio agli armamenti, la recessione della locomotiva economico-finanziaria, accompagnata da una generale discesa in basso delle Borse di mezzo mondo, hanno rimesso in giuoco la necessità di un evento in grado di rivitalizzare e trascinare le spinte alla speculazione finanziaria, pericolosamente trascinate in basso dalla recessione. Niente di meglio di una guerra di lunga durata, come quella dal presidente Bush oggi preconizzata. Una guerra non ufficialmente dichiarata, condotta con rapide azioni, in più contesti strategici nel medesimo tempo. Una concezione che però non vede tutti i globalizzatori d’accordo, anzi. Diciamo che oggi sono due le anime che si combattono. La prima vede il Globalismo come un fenomeno di crescita spontaneo, di cui l’azione politica rappresenterebbe solo un supporto in grado di accompagnare, con continui aggiustamenti di tiro, l’inarrestabile marcia dell’economia liberista. In tale contesto, l’opzione militare presenterebbe una valenza di puro contenimento, in situazioni di estrema instabilità. Caposaldo di tale politica è l’ecumenismo progressista, che, creando un un mondo senza frontiere, favorirebbe i fautori del liberismo finanziario più spinto. In tal modo, costoro, avrebbero accesso immediato a masse di mano d’opera a costo zero, e potrebbero compiere operazioni di speculazione finanziaria senza più dover fare i conti con le frontiere, l’unica barriera in grado di frenare o quanto meno modulare, queste vere e proprie aggressioni. La seconda “scuola”, vede la Globalizzazione come un processo che necessita di forti motivazioni, in grado di spingere tutte quelle realtà a ciò riottose, ad un forzoso  riconoscimento dell’Occidentalismo quale unica e valida alternativa. Il mobilitare le coscienze contro un comune nemico, tramite il classico “scontro delle civiltà”, che ha nella demonizzazione di chi è culturalmente diverso il perno centrale, fa parte di un disegno che, volto a distogliere l’attenzione dalle nefaste conseguenze del liberismo economico, finisce con l’esaltare la vittoria del “civile” occidente sull’incivile “oriente”, in un perfetto remake del colonialismo britannico dei bei tempi andati. Mobilitare, ridistribuire le responsabilità, in un contesto di controllo policentrico del mondo (come il recente riavvicinamento tra la Casa Bianca e Pechino, per es.), fanno parte di tale strategia.Un contesto in cui rientra, altresì, l’ambivalente e disinvolto uso di alleanze con Israele e con i Paesi Arabi al contempo, in grado di dare un ampio  margine di manovra alla politica USA. Un subdolo giuoco di alleanze che vede in Israele l’antico e fedele alleato (nel ruolo di più importante base USA in Medio Oriente), ma che al contempo non esita a sponsorizzare, tramite l’alleato saudita e pakistano, i movimenti fondamentalisti sunniti (Al Qaida?). Israele, in quanto principe degli stati-satellite USA, potrebbe essere stato usato dalla fazione di “destra” dello schieramento mondialista, fornendo così un valido supporto organizzativo e logistico nell’organizzazione degli eventi americani del Settembre 2001, come da qualcuno sospettato. Ma, al di là delle innumerevoli analisi sulla natura e le modalità di crescita del fenomeno globalizzatorio, quali possono essere le possibili vie d’uscita ad una, apparentemente irrefrenabile, realtà? La soluzione potrebbe venire da quella realtà che S. Huntington ama contraddistinguere con il termine “indigenizzazione”. Difatti, secondo questo autore, la globalizzazzione porta come conseguenza la riscoperta della specificità culturale, determinando dalla caduta del Muro in poi, la progressiva creazione di blocchi di interscambio economico regionale, alla cui base starebbe proprio la tanto decantata comunanza di valori culturali. I recenti tentativi delle varie “tigri” e “tigrotte” dell’Asia Orientale di dar vita ad un blocco contraddistinto dall’ ”Asianesimo”, ovvero un comune modo di concepire la vita politica e le relazioni economiche, la Comunità Europea, il Mercosur tra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, il Blocco andino, costituito dalle nazioni del versante della costa pacifica dell’America del sud, i patti di assistenza economica tra i vari paesi dell’ex URSS ed altri ancora. Tutte queste realtà da una parte costituiscono uno strumento in grado di agevolare la penetrazione del globalismo, in quanto permettono al liberismo di adattarsi alle locali realtà socio-economiche, stravolgendone con il tempo le fondamenta. Ma da un’altra parte queste realtà potrebbero, del liberismo, divenire la tomba. Basterebbe che quella spinta all’ “indigenizzazione” si facesse reale, tramite una più spinta accentuazione della dimensione locale e regionale dell’interscambio economico, ed il processo globalizzatorio perderebbe la sua ragion d’essere. Conditio sine qua non perché ciò si verifichi, una decisiva presa di coscienza da parte delle opinioni pubbliche e delle “intellighentzije” delle varie realtà comunitarie, di tale dato di fatto. Un fenomeno, dunque, di ampia portata e sui cui tempi e capacità di realizzazione, ci sarà ancora molto da discutere ed aspettare.

La “shock terapy” di Naomi Klein
 

Giovedì 24 Ottobre, presso la libreria Feltrinelli di Viale Libia si è svolta la presentazione del libro “Shock Economy” scritto da Naomi Klein, giornalista ed icona del movimento No Global, presso cui ha precedentemente ottenuto notorietà con il suo “No Logo”, oramai divenuto uno dei testi

sacri di quel movimento accanto all’ “Impero” di negriana memoria.

Alla presentazione era presente l’autrice, il che ha reso l’evento ancor più interessante e denso di significato. Tesi principale del libro è che tutti i tipi di eventi catastrofici verificatisi negli ultimi anni, abbiano rappresentato l’occasione d’oro per pertmettere al neoliberismo di imporsi in modo ancor più virulento nel contesto preso in considerazione. Nel fare questo, la Klein passa in rassegna una serie di eventi alla base dei quali sta un’impostazione mutuata dagli studi sul condizionamento psicologico coercitivo che trova la sua più appropriata applicazione con l’elettroshock. Dai primi studi alle applicazioni della CIA negli interrogatori, è tutto un procedere attraverso una serie di terapie d’urto il cui campo d’applicazione va sempre più estendendosi all’ambito della politica economica delle varie nazioni che, al pari di un malato psichiatrico, in seguito ad uno “shock” di tipo politico, militare o naturale vedono sostituire quello che è il modello di sviluppo più confacente con le proprie tradizioni con il neoliberismo. Dal Cile dei famigerati “Chicago Boys” di Milton Freidman, all’Iraq invaso ed occupato, passando per l’11 Settembre, sino al più recente tsunami del 2004 ed all’uragano Katrina e la distruzione di New Orleans, ovunque ci si rivolga la morale è sempre la stessa: il Mondialismo non esita a farsi scudo di questi eventi per privatizzare, speculare, alienare, impoverire, senza alcuna pietà né compassione per i popoli soggetti alla “shock terapy”. La Klein descrive con dovizia di particolari come il neoliberismo non abbia esitato in Sri Lanka, all’indomani del disastroso tsunami, a cacciare i locali pescatori dalle coste e ad iniziare un’intensa opera di edificazione a fini speculativi, alla faccia dei risultati elettorali che avevano dato per vincente una coalizione di centro-sinistra, ufficialmente ammantata di anti liberismo. O le indegne speculazioni ai danni dei più poveri di New Orleans, cacciati e respinti dalle proprie zone di residenza, per far posto ad appartamenti di lusso. O la privatizzazione delle strutture economiche dell’Iraq, imposta attraverso bombardamenti, saccheggi e guerra civile. O quale indegno atteggiamento abbia tenuto l’amministrazione Bush in occasione della tragedia dell’11 Settembre, rifiutando di analizzare le radici profonde di quell’evento, ritenendo anzi una cosa simile un vero e proprio atto di ostilità nei confronti della nazione.

Qualunque tipo di analisi critica rappresentando comunque un insostenibile affronto, in quanto larvata forma di arretramento nei riguardi di posizioni di indiscutibile supremazia geopolitica considerate, dall’amministrazione USA, inviolabili. A detta della Klein, quindi, il Globalismo per imporsi necessita di quella violenza che si manifesta attraverso tutta una serie di eventi “shock”, in grado di traumatizzare e riprogrammare le menti dei popoli, in direzione di un modello di sviluppo neoliberista. Nel soffermarsi lungamente nella descrizione degli eventi, la Klein sembra tralasciare o passare in secondo piano la natura multiforme del fenomeno globale. Laddove questo si impone con uno shock finisce per provocare rivolte e proteste che, in qualunque modo, ne possono mettere in discussione la supremazia, come accade in Iraq, America Latina ed altri contesti mentre, laddove si imponga in modo più subdolo e latente, attraverso parole d’ordine, segnali, immagini, così come oggidì succede in molta parte del contesto cosiddetto “occidentale”, il successo è più duraturo. In questo forse Naomi Klein risente di un’impostazione spettacolarizzante, tipica di certa cultura americana; qui si bada più alle immagini ad effetto e non alle cause prime. Che la violenza sia (talvolta) il mezzo con cui produrre quella rottura talora necessaria tra un vecchio ordine restio a farsi soppiantare da un nuovo e più alienante ordine, questo è sicuro. Ma di un mezzo contingente pur sempre si tratta, visto che il problema risente di un vizio d’origine intimamente connesso con la cultura occidentale in sé e pertanto non affrontabile con i mezzi tradizionali di cui l’agire politico dispone.

A prova di quanto detto, la stasi e le difficoltà che i movimenti antagonisti in genere trovano nel confrontarsi con un pensiero ed un modello, quale quello Tecno Economico, la cui sintesi è sinora risultata vincente su tutte le opzioni ideologiche novecentesche. Di fronte all’insufficienza delle nostre categorie di pensiero non rimane altro che addivenire a nuove sintesi di pensiero, varcando la grande soglia del definitivo superamento della sinistra e della destra, oggidì sempre più riconducibili a categorie archetipiche del nostro pensiero, ma non più fruibili nei termini di un confronto senza quartiere con una Tecno Economia la cui irresistibile avanzata, ci ha lasciato e ci lascia tuttora sconcertati, senza riposte efficaci a portata di mano.

Il riconoscere determinati limiti deve costituire uno stimolo per fare meglio e di più, partendo proprio da noi stessi, dalle nostre individualità che, attraverso nuove idee, soluzioni innovative, all’insegna della più totale originalità, potranno ergersi al ruolo di protagoniste nel grande confronto tra “Umanità” e Tecno Economia che caratterizzerà questo nuovo, travagliato, millennio.

Val di Susa: un esempio da imitare

 

In un’Italia sempre più narcotizzata e lobotomizzata da grandi fratelli, da ipocriti solidarismi in salsa buonista e da un continuo martellamento catastrofista per cui, “o si fa così o si muore” ovvero, o si accettano passivamente e codinamente tagli, gabelle, degrado, miseria e sfruttamento o “si muore”, ovverosia i grandi centri del potere economico finanziario, via via interpretati da vari attori e comparse( quali Francia, Germania, Gran Bretagna, Usa, Israele, FMI, Nazioni Unite e via via tanti altri ancora…), non realizzano i propri profitti e puntano i piedini ed allora sono guai grossi per tutti. Guai che vanno dagli ostracismi davanti ad una pubblica opinione ammaestrata al politically correct, sino alle sanzioni, ai sabotaggi, arrivando alla vera e propria eliminazione fisica del dissenziente, attraverso la detenzione, se di singoli trattasi o, se parliamo di nazioni o intere comunità, attraverso “bombardamenti umanitari”. Ma, anche nell’Italietta dei Vespa, dei Fede, dei Celentano e delle farfallette di Belèn, della dabbenaggine elevata a criterio di pensiero dominante, bene, anche in questa Italia c’è qualcuno che ha il coraggio di dire “NO”. No ad inquinamento, degrado, miseria, sporcizia, profitti (per gli altri), privatizzazioni di utili a vantaggio di pochi, condivisione di perdite per un’intera comunità…I folli progetti degli eurocrati che dell’Italia e dell’Europa vorrebbero fare un’unica, immensa, pista asfaltata e chiodata di binari, un lurido cantiere, una nuova discarica a cielo aperto (come ahimè è avvenuto nel Meridione della nostra penisola, vedi “Gomorra”, sic!) alla faccia di bellezze naturali, tradizioni, salute degli abitanti che ci vivono, perché a Bruxelles così han deciso, per far contente le cosiddette “imprese” a cui oramai tutto deve essere indiscutibilmente consentito, quei folli progetti, dicevamo, si sono una volta tanto arenati dinnanzi alla pugnace volontà degli abitanti della Val di Susa, il cui unico, imperdonabile peccato è aver detto di “NO”. E allora urla, botte, lacrimogeni e tante, troppe polemiche. Ecco il potere, i partiti, i “poli”, usualmente così litigiosi, stavolta stranamente uniti, nel condannare, nel demonizzare, nell’ostracizzare, nel mettere alla gogna, affibbiando definizioni ritirate fuori dai polverosi cassetti della più recente storia italiana. Già qualcuno ha latrato di “terrorismo”, parola che evoca gli Anni Bui ma anche, e specialmente, leggi speciali e criminalizzazioni di italica memoria. E’ vero: inizialmente il governo nel 2005, ci era andato con la mano pesante, aprendo i cantieri e militarizzando il territorio, distribuendo manganellate a chi, da anni, si batteva contro un progetto folle. Se mobilitarsi e reagire è giusto, non bisogna però, commettere l’errore di cadere nella trappola di un sistema, la cui miglior legittimazione è offerta dalla criminalizzazione del dissenso politico. I film No Global di Genova o di S. Giovanni, a Roma, hanno decretato il definitivo isolamento delle idee antagoniste e la diretta discesa in campo dei rappresentanti dei poteri forti alla Monti, stavolta senza più alcuna mediazione di una politica ridotta a ruolo di muto comprimario di scelte dettate da ben altri soggetti. La rivolta dei Forconi, i No dal Molin, al pari dei No Tav, le rivolte meridionali contro “a munnezza”, rappresentano tutte il tangibile segnale di un malessere trasversale che attraversa tutti i segmenti della società italiana. A questo malessere l’unica risposta può esser data dalla prassi della democrazia diretta. Lo strumento del referendum, del consulto plebiscitario, anche se a livello locale o, al massimo regionale, dovrebbe essere investito di un valore vincolante per un potere politico che dovrebbe esser messo di fronte ad un preciso aut aut. L’ostinato rifiuto della volontà popolare espressa da una consultazione referendaria, dovrebbe aver per risposta lo sciopero fiscale ad oltranza, ovverosia il rifiuto di pagare qualsivoglia tributo allo Stato, ai Comuni, alle Regioni. L’obbligo giuridico della contribuzione fiscale, dovrebbe automaticamente venir meno nei riguardi di una pubblica autorità che, attenta alla salute, al benessere ed alla sopravvivenza dell’ecosistema dei propri cittadini, attraverso iniziative in tal senso. Fare di una splendida vallata un polveroso cantiere, sbudellare una montagna, con il pericolo della fuoruscita di polveri velenose,  trasformare un Paradiso in una discarica a cielo aperto alla Gomorra, rappresentano un intollerabile attentato alla salute pubblica ed alla sopravvivenza delle generazioni presenti e future della Val di Susa e non solo. A questo punto il non  versare più alcuna forma di tributo, non diviene più soltanto una mera rappresaglia politica, ma una risposta dovuta ad uno Stato che attenta alla vita dei propri cittadini. Come si può ben vedere, la possibilità di dare risposte politiche incisive, dure e concrete, esiste eccome. Senza dovere arrivare a sputare ed insultare quei rappresentanti delle Forze dell’Ordine, loro nonostante trascinati lì a far da argine ad una situazione di cui non sono responsabili. Non lasciamo quindi, alle oche capitoline del sistema l’occasione di criminalizzare, demonizzare ed infine isolare una giusta protesta. E’ un film che abbiamo già visto troppe volte e che non vorremmo più veder ripetuto. Nel ribadire, la nostra più totale solidarietà alla lotta degli abitanti della Val di Susa, il nostro auspicio è in un deciso salto di qualità nella presa di coscienza, in direzione di quella democrazia diretta, la cui prassi rappresenta la sola via d’uscita ad una situazione altrimenti destinata alla messa all’angolo. L’esempio della Val di Susa ci dimostra che quello di adesso non è “il miglior mondo possibile” e che si può ancora dire NO. NO alla privatizzazione dell’esistenza, alla mercificazione ed al degrado dell’ambiente. NO all’esproprio delle nostre vite, delle nostre necessità vitali e dei nostri diritti fondamentali, quali salute, previdenza, istruzione, diritto alla casa ed al lavoro. L’esempio della Val di Susa ci dimostra altresì che non è vero che il nostro ecosistema è destinato ad un’ineluttabile destino di decadimento globale, così come non è detto che i sia pur potentissimi padroni del vapore, massoni, bilderberghiani, trilateralisti ed altri consimili possano riuscire a farla franca, affermando il dominio dell’oro sul sangue. Ancora esiste un retaggio plurimillenario, un archetipo vivente che riaffiora nei peggiori momenti della storia di un popolo o, in questo caso dei popoli, e fa di un anodino insieme di individui un popolo, una comunità di destino. Questo qualcosa si chiama LOTTA e rappresenta il passato, il presente ed il futuro di ogni uomo che voglia dirsi tale. La lotta rappresenta il Divenire dei popoli e ciò che ne contraddistingue la peculiare natura rispetto a qualunque altro atteggiamento di codina accettazione è la resistenza. Resistenza alla paura, alla protervia, all’infamia, al ricatto, all’inciviltà del capitalismo globale. Per questo senza paura, senza reticenze, ci auspichiamo che per l’Italia, l’Europa ed il mondo sorgano dieci, cento, mille Val di Susa.                                                              Un mondo come questo ha, oggi più che mai, bisogno di simili esempi. Per questo, contro la carogna capitalista ed i suoi servi, contro il prevalere dell’interesse privato sul pubblico, contro l’usura e la predazione, si levi un unico grande grido:

 

 

                                                              ORA E SEMPRE: RESISTENZA!

Obama: presidente reale o virtuale?

 

“Habemus papam”. Con questa frase si potrebbe definire lo stato d’animo che ha accompagnato le elezioni presidenziali USA. Difatti, mai come questa volta, le presidenziali d’oltreoceano hanno così massicciamente e passionalmente coinvolto i media di mezzo mondo. A tirare la volata a questa sovraesposizione mediatica il delicato momento che gli Usa ed il mondo intero stanno attraversando. La crisi finanziaria globale anzitutto. Anni di deregulation finanziaria hanno permesso l’accesso sul mercato dei cosiddetti prodotti finanziari “strutturati”, quali i mutui subprime, creati per favorire i consumi interni di un paese invaso da manufatti prodotti a basso costo in paesi come la Cina. Questi strumenti finanziari rivelatisi dei veri e propri pezzi di carta privio di qualsivoglia garanzia, favorendo la grande speculazione, hanno mandato a gambe per aria il sistema bancario e milioni di risparmiatori, bruciando miliardi di euro in una pericolosa escalation che si è tirata appresso l’economia reale, quella produttiva, andando ad innestare un meccanismo recessivo globale. Punto secondo. Il fallimento della politica bellicista Usa è sotto gli occhi di tutti. Se quella irachena è stata una vittoria di Pirro, (pagata al salato prezzo di migliaia di giovani americani morti o tornati invalidi dalle terre irachene), e di cui non si vedono ancora dei risultati politici duraturi se non con l’ausilio delle truppe USA, l’Afghanistan, invece, sta sempre più rivelandosi un pantano da cui non si vede uscita. Le forze Nato si trovano sempre più coinvolte nella virulenta ripresa dell’iniziativa militare talebana, favorita dallo squilibrio geostrategico occidentale, tutto incentrato sull’Iraq.

Il quadro afghano è, tra l’altro, ulteriormente complicato da una  conformazione geografica montuosa e da un’indomabile bellicosità tribale, accompagnata da una volubilità nella scelta delle alleanze da parte dei vari gruppi in causa. Punto terzo. Il sogno liberal ha iniziato a mostrare le sue crepe anche nella patria dei Reagan, dei Gringrich e dei Bush. La speranza nelle cicliche risalite dei mercati accompagnate da ondate di euforia, non bastano a coprire le magagne di un sistema quasi totalmente privo di serie tutele sociali per il cittadino medio, in primis sotto il profilo sanitario. Obama rappresenta quell’ansia di riscatto che pervade gran parte dell’opinione pubblica americana e mondiale. Obama è giovane e, cosa di non poco conto, è afro americano. Incarna, quindi, appieno quelle istanze espresse dalle minoranze, in ispecial modo afro americane, che negli USA furono deportate dall’Africa, proprio in nome di quella democrazia, di quel progresso e di quel libero mercato, all’insegna del peggior Protestantesimo, nel nome dei quali, a cavallo di due secoli, fu commesso uno dei peggiori genocidi della storia, di cui l’Africa paga tuttora le conseguenze in termini di squilibrio demografico. Obama dunque, è il vessillo vivente di una nazione che, della propria multirazzialità ha fatto un irrinunciabile assioma a cui, contrariamente a quanto si può pensare, gli USA non hanno mai rinunciato. Una cosa è, difatti, respingere le turme di disperati che quotidianamente assaltano la frontiera con il Messico, altro è la continua affluenza di ondate migratorie ben accette e necessarie a fornire il propellente umano atto a smuovere la grande macchina del capitalismo USA. Cinesi, vietnamiti, coreani, russi, etiopi, caraibici, latino americani ed altri ancora, continuano ad affluire senza soluzione di continuità nel grande paese, stravolgendone via via il background etnico e culturale; a tal proposito basterebbe provare ad osservare il rapido cambio della composizione del pubblico nei vari comizi attraverso gli anni. Dai lineamenti Wasp e mitteleuropei degli anni passati, si è passati ad un’indefinibile mistura tra bianchi, orientali, latino americani, in un melange dai toni e colori indefinibili. Obama rappresenta il culmine della vicenda di un Impero, quello americano, che per sostenere le proprie aspirazioni ideologiche ed i propri interessi, non ha più bisogno di una classe dirigente legata ad un determinato fattore etnico, (quale quello Wasp nella fattispecie, sic!), poiché sorretto da un’incrollabile fede nella propria salvifica missione universale. E qui veniamo ad un fattore decisivo. Sbaglia di grosso chi crede all’immagine di un’America cinica ( nel vero senso filosofico della parola, ovvero seguace di quel Diogene convinto assertore dell’inutilità di dogmi e convenzioni qualsivoglia, sic!) e priva di motivazioni ideali. Una volta di più Obama ha saputo incarnare quel misto tra messianismo e volontarismo che costituisce l’anima dell’America profonda. Il gap tra Usa e Vecchio Mondo non è tanto determinato da ragioni di ordine economico, quanto da motivazioni di ordine interiore. La frase “In America tutto è possibile” rende bene l’idea di quanto qui affermato. Il credere prepotentemente alla possibilità di modificare la realtà a proprio piacimento, il volontaristico entusiasmo, fanno parte dello spirito di quell’ “estremo occidente”, di cui gli USA sono elemento costituente, e che porta appunto alle conseguenze estreme tutte le istanze di cui, nel bene o nel male, il Vecchio Mondo è portatore, ma che qui rimangono nel regno delle possibilità, mentre lì si fanno invece pratica di vita. Al ciclico ritorno di vitalistico ottimismo degli USA, fa da contrappeso il lagnoso e stanco trascinarsi degli europei, tra governicchi pavidi e sottomessi, tra squallide giaculatorie catto-protestanti su solidarismo, bullismo e buonismo, tra veline, grandi fratelli e carta patinata, mentre le energie giovani sono sempre più castrate da una eurocrazia ottusa e soffocante. L’Europa, e l’Italia in particolare, puzza di vecchio e stantio, soffocata dai fantasmi di un passato che non vuole passare, e che, per questo non riesce ad investire sulle energie giovanbi e sul futuro, ed ora sta avviandosi verso una recessione che altri è se non il sintomo di declino. Quanto sin qui detto non vuole rappresentare l’esaltazione dell’ “american way of life”, tutt’altro. Conosciamo tutti i macroscopici difetti di uno stile, di una visione del mondo assolutamente non condivisibile, ma solamente attraverso un’analisi che vada a fondo del problema si potrà trovare una via d’uscita ragionevole per noi ed il mondo intero, iniziando a capire proprio il segreto di un successo, e cercando di applicarne la “lectio” alle coordinate europee. Obama potrebbe rappresentare un segnale in tal senso. Meno privato più stato, più attenzione alle fasce deboli, maggiore sensibilità alle istanze di liberazione, e quindi maggior disponibilità a trattare.Tutte aspirazioni che, anche se non dovessero  trovare  integrale applicazione (e possiamo scommetterci che non ne troveranno!), rappresentano un elemento simbolico di forte rottura con le certezze ideologiche degli ultimi decenni, contribuendo comunque a spingere il mondo verso direzioni diverse da quelle sinora offerte dal turboliberismo. Le recenti uscite di molti autorevoli nomi dell’economia e della politica, (come il nostrano caso del ministroTremonti) in direzione di una soluzione “altra” rispetto alle politiche liberiste, rappresenta un primo, timido segnale di quanto sin qui detto. Questo non significa illudersi su utopici ravvedimenti USA. Il Mondialismo alienante e mercificatore non si farà certo fermare dagli slogan di un Obama che, come tutti i presidenti USA, non può che non essere l’espressione dei poteri forti dell’economia e della finanza,ed i cui interessi sono chiari ed evidenti. Oltretutto, sotto il buonismo democratico USA si è sempre nascosto un inaspettato pugno di ferro come nel caso del buonista J.Kennedy, le cui “teste d’uovo” concepirono e prepararono la strategia della tensione in Italia, l’intervento in Viet Nam e la Baia dei Porci, o nel caso di B.Clinton protagonista dell’invasione della Serbia e della definitiva colonizzazione dei Balcani e del Kosovo, assoggettato ad un regime fantoccio di magnaccia e narcotrafficanti. Resta però, forte, l’impressione di un segnale di discontinuità, frutto di un sempre più persistente malcontento, che, se non nell’immediato, nel medio e nel lungo termine, potrebbe rappresentare, (non solo per gli Usa ma per il mondo intero) l’incipit in direzione di radicali cambiamenti di rotta.

Chavez, l’eroe post moderno

 

Venerdì 19 marzo, alle 21.00 si è svolta presso la sede di Forza nuovo in P.zza Vescovio un’ interessante conferenza incentrata sulla situazione del bolivarismo in America Latina, alla luce degli avvenimenti dell’ultimo decennio di vita politica venezuelana incentrati sulla figura del colonnello Chavez. La brava Alessia Lai ha commentato il filmato attinente al tentativo di golpe messo in atto nel 2001 da parte della parte più retriva e conservatrice del Venezuela ai danni della presidenza Chavez; golpe peraltro fallito grazie ad una spontanea e massiccia mobilitazione popolare che, oltre ad aver riportato in sella lo stesso Chavez ha posto una linea di demarcazione tra la Modernità ed una nuova e significativa Post Modernità. Nella sua semplice, ma efficace prolusione, Alessia Lai ha mostrato la peculiarità di una rivoluzione che, caso più unico che raro in un contesto quale quello latino americano, si è affermata senza spargimenti di sangue, se non qualche raro e comunque contenuto scoppio di violenza. Ma nono solo. Chavez è stato regolarmente eletto, grazie ad una massiccia affluenza popolare ed ha sinora esercitato il suo mandato senza ricorrere ai brutali metodi dittatoriali e repressivi tanto comuni nei paesi di certo Terzo Mondo, anzi ha lasciato intatte le fondamentali libertà democratiche, andando invece a colpire là dove in America Latina (e non solo) è difficile colpire: i privilegi dei più abbienti e delle classi borghesi. In un contesto quale quello latino americano e terzo mondista in cui la concentrazione della ricchezza di un paese è prerogativa di poche ed adunche mani, Chavez ha iniziato un graduale, ma deciso processo di redistribuzione della ricchezza, sia attraverso statalizzazioni e nazionalizzazioni mirate (quali quelle realizzate nei riguardi delle imprese petrolifere su cui avevano gettato occhiatacce ingorde le lobby USA, sic!) che attraverso un fitto programma di alfabetizzazioni attraverso le cosiddette “misiones”. Pur essendo sotto gli occhi di tutti il deciso sostegno cubano all’azione chavista, va sottolineata la radicale differenza tra i due regimi, di cui il primo è ancora legato ufficialmente all’ortodossia marxista leninista, mentre il secondo si rifà ad un modello di socialismo patriottico bolivariano, coniugato però in un’ottica post moderna, di per sé lontano dai vecchi e desueti schematismi ideologici che avvelenano il clima politico nostrano. Un capitolo a sé va dedicato alla politica estera chavista improntata ad un nuovo concetto di geopolitica e geoeconomia, volta a realizzare un asse che, accomunando in varie tonalità e gradi le varie nazioni del cono sud dell’America Latina si riallaccia alle istanze dell’Iran khomeinista, (oggidì sempre più vicino alla totale autonomia energetica, grazie al tanto osteggiato programma di sviluppo dell’energia nucleare), andando ad intersecarsi alle istanze della Russia di Putin ed a quelle cinesi. In questo tentativo di modifica degli assetti degli equilibri mondiali, Chavez rappresenta colui che  ha dato il la in direzione di un mutamento, indirizzando il continente latino americano verso il terzaforzismo bolivarista, senza nostalgismi né stupidi revanchismi. Ecco, all’Italia ed all’Europa mancano gruppi di personalità in grado di spingere le rispettive società dalle pastoie senza uscita del confronto tra blocchi simil-progressisti/simil conservatori, ambedue tributari degli interessi delle lobbies del grande capitale. Quello di Chavez è un esempio che qui non può essere emulato, ma può ben rappresentare un punto di riferimento, una base di partenza da cui impostare una nuova realtà politica, lontana da logori e desueti schemi politici, definitivamente al di là di Fascismo e Marxismo.                                                                       

Anni ’70 e dintorni. una risposta a Valerio Morucci

 

Quella sui terribili 70’s sembra essere una diatriba destinata a non morir mai. Prima nascosti, negletti, dimenticati, ai più sconosciuti, sembrano ora rivivere una seconda giovinezza, fatta stavolta di dotte disquisizioni, riassunti tra il cronachistico ed il romanzato, cronistorie infarcite di nomi che neanche chi quegli anni visse, riesce a rammentare, il tutto pubblicizzato così ampiamente, da non poter non far sorgere il sospetto che, molte volte, non di coraggiosa e doverosa ricerca storica trattasi, bensì di collaudati tentativi di far qua e là pubblicità ad un qualche nuovo “target” editoriale. Ed allora benvenute le parole critiche di un Morucci quando, con giusto sospetto bolla di massima superficialità o, peggio, di squallida collateralità certe iniziative editoriali, certe “ipotesi di lavoro”. Va però ripetuto, a onor del vero, che da criticarsi non dovrebbero essere le ipotesi scaturenti dalla naturale ed inevitabile ricerca storica, che sempre dovrebbe operare quella salutare opera di cesura e riaffastellamento degli eventi, rendendoli in tal modo più leggibile e comprensibili, quanto invece lo spirito con cui in questo caso essa è stata compiuta, a quel sottile velo di menzogna che, inquietante, incombe come una spada di Damocle sulla narrazione di quegli eventi. Il fatto è che, a ben vedere, sembra che, a destra come a sinistra, nessuno si sia accorto che sui tragici “anni di piombo” in Italia si è sempre raccontata una mezza verità. La prima mezza verità ci parla degli anni del disagio giovanile, della contestazione, delle grandi lotte operaie e delle tensioni sociali. Ci parla di sigle, movimenti, nomi. Tanti nomi, di destra, sinistra, centro e chissà dov’altro. Sono nomi di coloro che di quegli anni sono considerati i tragici attori, ora nel ruolo di colpevoli, ora in quello di vittime inconsapevoli. Giovani, tanti, troppi, giovani. Giovani le cui facce riempivano i manifesti messi lì a coprire il grigiore delle città italiane del dopo-boom. Giovani vittime, da onorare con tanto di ossequiosa presenza di capi di partito o dall’altra parte, schiaffati lì sulla prima pagina dei quotidiani, sottoposti a quella gogna mediatica che, attraverso l’appellativo di “superlatitante” ne sanciva la damnatio memoriae da parte di una intera società che non ha saputo, e non ha voluto, chiedersi il “perché” profondo, il senso compiuto, di quei tragici accadimenti. Già perché è proprio a quel “perché” che si è fermata la società italiana, protesa a fare di quegli anni una sorta di mass mediatica spettacolarizzazione di cui bisogna chiedere il conto unicamente a Loro, ai giovani o ex tali. E allora giù con le vendette postume. Ordini di cattura, inseguimenti sino all’altro capo del mondo, processi ultratrentennali, inchieste infinite. Ma la verità, quella no, mai. A guardar bene, qui in Italia, un’altra verità ci racconta di una classe politica praticamente impunita. Gente che oggidì si gode la propria pensione di deputato, presidente o senatore, con tanto di onorificenze magari e invece in quegli anni, soffiava sul fuoco, o magari, ancor peggio, fece finta di nulla, lasciando che corresse il sangue, salvo dopo fare leva sui soliti ipocriti discorsi sulla “solidarietà nazionale”. Già, perché se ce ne fossimo dimenticati, in quegli anni vi fu chi, nel bel mezzo dell’irrompere di una crisi epocale (quale quella generatasi a ridosso degli anni ’60) non fece nulla per impedire, o quantomeno, raffreddare gli animi che da noi andavano pericolosamente surriscaldandosi, cercando di evitare, o quanto meno, di contenere la politicizzazione del mondo studentesco, in ambiti più civili e meno violenti. No, lorsignori lasciarono che si soffiasse sull’odio fra fronti contrapposti, tra giovani e tra interi segmenti della società italiana. “Uccidere un fascista non è reato” ed altri simili amenità ben presto divennero vere e proprie parole d’ordine, imperativi categorici che escludevano assolutamente qualsivoglia forma di dialogo con chi non la pensasse come te, nero o rosso che fosse. Vecchie carogne dagli occhiali a fondo di bottiglia lasciarono scivolare l’Italia verso la tragedia degli anni di piombo, mentre si riempivano la saccoccia con innominabili affari. Gente che per quattro denari vendette al miglior offerente quel che rimaneva della già limitata sovranità nazionale italiana. E così il Bel Paese era divenuto d’un tratto, un’autostrada per i Servizi segreti di mezzo mondo. USA, URSS, Gran Bretagna, Israele e chissà quali altri ancora, fecero strame dei nostri interessi, facendo della vita politica ed economica nostrana un’immensa ed inestricabile trama intessuta di sudiciume e violenza. E’ strano come in Italia si urli tanto allo scandalo al solo parlare di modifiche costituzionali, quando poi Lei, la onnipotente Costituzione venga frettolosamente scordata quando non fa comodo. Esiste una precisa figura di reato che in questa fattispecie troverebbe un fertile campo di applicazione: l’istigazione a delinquere che, così com’è trattata dal codice penale con l’art.414, anche se di scarso impatto, offre quanto meno la sponda all’idea di comminare una pena simbolica per una figura di reato veramente odiosa e di grave impatto sociale. Con la stessa alacre meticolosità con cui si dissotterrano casi vecchi di decenni, (vedi Battisti, ma anche il caso di Adriano Sofri e tanti altri ancora…), bisognerebbe procedere contro i sino ad oggi illibati protagonisti della vita politica di allora, di qualunque tendenza o estrazione essi fossero. E non solo per istigazione a delinquere, ma anche per spionaggio ed alto tradimento, visto che molti di costoro intrallazzarono con i servizi di mezzo mondo. Opera difficile si dirà, anzi difficilissima in un paese come l’Italia dove, chiacchiere garantiste a parte, la magistratura costituisce tutt’ora un intangibile potere a sè e dove, guarda caso, vige l’infame pratica del “segreto di Stato”, applicato senza alcuna vergogna anche alle pagine più tragiche e dolorose della vita del nostro paese. Regolare l’uso di questo sigillo d’infamia, limitarlo a pochi, selezionati casi e per un tempo limitato, costituirebbe un primo, importante passo. Certo, ce ne sarebbe per tutti: la vecchia partitocrazia nostrana ha le mani che grondano di sangue. A partire da quel PCI anima ed ispiratrice occulta di tanti tragici eventi, iniziati nei lontani anni della delazione togliattiana contro gli esuli anarchici e comunisti nell’URSS di Stalin, passando attraverso i massacri del triangolo rosso in Emilia, sino ai più recenti anni della manipolazione e dell’infiltrazione delle lotte studentesche ed operaie, strumentalizzate al solo fine di allargare i propri consensi elettorali, e subito dopo abbandonate in nome di quella sana realpolitik che prevedeva la solita, onnipresente opera di delazione, come accaduto con il blitz del 7 Aprile. E poi la vecchia, cara Balena Bianca, con i suoi intrallazzi, le sue trame oscure, il suo tentacolare muoversi attraverso intrallazzi e schifezze d’ogni tipo, con quel suo accomodante laissez faire tanto gradito ai vari burattinai…Ed in ultimo come non ricordarsi del MSI, e del suo caro, vecchio, doppio petto, vera scuola d’italica ipocrisia, non seconda nemmeno a quella del PCI. Da una parte la destra, quella dei valori patriottardi e della legalità, dall’altra quei giovani mandati scientemente allo sbaraglio, contro i “rossi”, a finire sprangati o, meglio ancora, a morire, per lo meno il “partito” ci avrebbe guadagnato in consensi elettorali. Quella destra che non esitò ad allearsi in segreto con il PCI durante i duri anni della contestazione, pur di non vedersi realizzare un movimento di contestazione unitario, mandando i Caradonna all’Università. E tutti quei “ragazzini” prima armati, poi scientemente mandati in galera, come accadde per il caso di Loi e Murelli, all’indomani dei tragici fatti di Milano. E poi quelle stragi infinite, quegli eccidi senza volto né nome, in cambio di soldi e favori a profusione per una classe politica legata a doppio filo alle varie potenze straniere. Trascinarli tutti in tribunale si dovrebbe, costituirebbe un vero e proprio obbligo morale…Ma probabilmente mai si potrà fare tutto ciò, troppo rimescolamento di carte e troppe resistenze da parte del sistema si verrebbero a verificare, vanificando qualsiasi tentativo in tal senso. Molto più realistico potrebbe essere, sulla falsariga di quanto svoltosi in Sudafrica sotto la presidenza di Nelson Mandela, l’istituzione di un “confessing day”, accompagnato da una definitiva rimozione del segreto di stato su quanto successo in Italia negli ultimi sessant’anni, costi quel che costi. E lì un’intero paese dovrà guardare se stesso, i propri peccati. Chi confesserà pubblicamente qualunque cosa abbia fatto, non potrà mai essere legalmente né imprigionato né condannato, ma sarà il paese ad uscire da questa esperienza con una nuova coscienza. La delusione, lo sconcerto per tutto quello che salterebbe fuori, mostrerebbe la realtà di un paese ancora governato dalle stesse logiche di potere degli ultimi decenni, di quei partiti oggidì nel ruolo di dirette filiazioni delle formazioni di quella Prima eterna Repubblica mai veramente morta. L’esempio di quanto sta accadendo con le rivelazionio sugli assurdi silenzi dello Stato nella tragica epopea delle stragi di mafia, dovrebbe costituire un primo, e lampante esempio. Aprire dossier, rimuovere omissis, rivedere tutto, costringendo mandanti e burattinai ad uscire allo scoperto, costituirebbe quell’inappellabile condanna morale in grado di imprimere una spinta decisiva verso il cambiamento. Solo facendo i conti con il proprio passato, senza vendette, senza rancori, senza inutili rigurgiti di postumo giustizialismo, un paese potrà veramente cambiar pagina ed entrare in una nuova fase della propria storia. Una comunità che non sa fare i conti con il proprio passato, non ha nessuna possibilità di sopravvivere al futuro.

Chi fa la spia…

 

Certo per far perdere la pazienza alla inossidabile “culona d’acciaio” della politica germanica, la tetragona fedelona all’asse Euro-USA, la talebana dell’austerità targata Euro, beh…ce ne è proprio voluta! C’è voluto un mix  tutto particolare: la crisi mondiale, con la conseguente tentazione di pensare un po’ tutti di più agli affari propri, alla faccia di sempre più scomode alleanze, la sbadataggine di un Obama che, intento a far passare improbabili riforme sociali nella terra del liberismo estremo, ha lasciato la briglia troppo sciolta ai più “creativi” tra i suoi scagnozzi Cia, Nsa, etc. e poi, al di là di tutto, sempre Lei, la crisi, che ha colpito nelle certezze ( e nelle tasche!) anche gli ambienti più “allineati” della compagine mondialista. Certo, a sentire tutta questa storia, osservando i politici europei (Frau Merkel in primis), non può non sorgere la domanda se non ci troviamo davanti ad una banda di completi deficenti. “Ma l’America ci spia!” e tutti sembrano cadere dalle nuvole. Ma non stavate nella Nato? Non avete sempre latrato ai quattro venti la vostra fedeltà al Patto Atlantico? Ma non eravate le Vestali del Liberismo senza se e senza ma? Il fatto è che fare il servo ed il lecchino dei più forti, può sicuramente avere i suoi vantaggi. Grandi soddisfazioni economiche, immunità, potere, prebende e soddisfazioni, ma anche qualche rischio, di cui sicuramente non si tiene mai conto nel modo dovuto. Il padrone, può, al momento che lui ritenga più opportuno, scaricarti, venderti, abbandonarti, sino alla morte o, bene che possa andare, non fidarsi mai totalmente di te e limitarsi, tanto per farsi gli affaracci tuoi, a sorvegliarti, spiarti e condizionarti. Certo loro, i signorini delle varie “caste”, i travet di Bruxelles, questo proprio non se lo aspettavano. Sicuri che la propria totale subalternità alle direttive mondialiste, potesse garantir loro una sorta di impunità, vivevano sinora nel limbo dorato delle cancellerie internazionali, con la bocca gonfia di belle parole, al cadenzato ritmo dei cerimoniali diplomatici, lontani dai problemi della gente, liberi di farsi i cavoli propri, negli oscuri meandri di quelle tanto amate cancellerie…E invece no! Ora si scoprono spiati, sin nei più intimi anfratti delle proprie mutande e reagiscono stizziti, perdendo calma ed aplomb, come Frau Merkel, per l’occasione. Certo, è un duro colpo a quegli splendidi quadretti di famiglia. Ronnie e la stentorea Maggie spacca-tutto e poi Zio Julio, Kossiga, Helmut e tanti altri, tutti appassionatamente assieme, sino a George Bush/Capitan America, il “liberatore” dell’Iraq, e Silvio, che addirittura si davano del “tu”. Lui che sponsorizzava Lui, un amore senza fine. E, come succede un po’ tra padrone e cane, dovunque George chiamava, Silvio correva, sempre, con l’entusiasmo di un innamorato cucciolone. Ma tanto amore, tanto entusiasmo, è stato sempre mal ricambiato. All’indomani della prima, discutibile, guerra irachena, il compianto Giulio Andreotti, si ritroverà stranamente accusato di collusioni con ambienti mafiosi, con correlata l’accusa di uno scambio di baci tra lui ed esponenti di quel bel mondo. E mentre Bush/Capitan America, si gode il suo meritato riposo tra le praterie del Texas, il Silvio nazionale invece rischia di finire i propri giorni a marcire nelle patrie galere o, se gli andrà bene, di prestare servizio sociale come spazzino, in qualche cooperativa Comunale di Roma o di Milano. “Mala tempora currunt”, dicevano gli antichi. Di fronte a tutto questo giro di considerazioni, qualcuno potrebbe ( e già lo stanno facendo i media, sic!), risponderci che da quando mondo è mondo, tutti spiano tutti, ogni nazione spia il proprio vicino, foss’anche il miglior alleato, dunque perché tanta meraviglia se un grande e democratico paese, naturalmente animato da altrettanto grandi interessi, fa quel che fan tutti, ovverosia spia? Il problema è che le attuali modalità di comportamento, anche in questo settore, hanno oggidì subito un radicale mutamento, dovuto al profilarsi di uno scenario assolutamente diverso da quelli precedenti. Gli Stati Uniti sono oggidì il braccio armato di quei poteri forti dell’economia e della finanza, che ambiscono in modo sempre più sfacciato ed aperto al controllo globale su nazioni, popoli e continenti e pertanto non si fanno problemi, nel perfezionare sempre più sofisticati sistemi, per il condizionamento di massa. Già dagli anni ‘50 e ‘60 si vocifera che la Cia avesse messo a punto un programma di condizionamento mentale (il famoso MK Ultra) che metteva assieme una serie di tecniche “miste”, quali elettroshock, percosse, varie forme di coazione psicologica, al fine di creare dei veri e propri automi umani, in grado di obbedire ciecamente a qualunque ordine. Programma che poi, a detta di taluni, avrebbe continuato ad esser perfezionato ed affiancato dal Progetto Monarch, o attraverso l’uso di mefitiche scie chimiche o delle emissioni magnetiche delle antenne del sistema Haarp, in grado di scatenare terremoti. Senza però volerci addentrare nel regno di ipotesi al limite della fantascienza, ci basterà ricordare invece i molto più dozzinali sistemi con cui “lor signori” esercitano ( o quanto meno tentano di farlo…) un determinante controllo sulle menti dei popoli del mondo intero. In primis stanno i media “embedded”, radio-tivvù e giornali, nel ruolo di vere e proprie casse di risonanza, in grado di orientare e condizionare l’opinione pubblica, a seconda delle necessità che, al momento, ispirano l’azione dei vari gruppi di potere. Gli slogan per la pubblicità commerciale fanno il paio con le parole d’ordine del “politically correct”, ripetute sino alla nausea, come nel caso dell’Olocausto e di qualunque vicenda ad esso connessa. Gli stessi varietà, le trasmissioni di intrattenimento di prima e seconda serata, rientrano nel novero di questa categoria. Un ulteriore livello è rappresentato dalla registrazione di tutti i movimenti bancari ed assicurativi, oggidì privilegiata dall’uso sempre più diffuso di carte elettroniche (bancomat, carte di credito, etc.) che lasciano una incontrovertibile tracciabilità dell’operazione effettuata. L’uso delle comunicazioni in Rete, attraverso la tecnologia informatica, accompagnato dall’avvento della telefonia mobile, nel determinare una vera e propria rivoluzione nella velocizzazione dei contatti, hanno comportato una esponenziale rapidità nei processi di rintracciabilità ed identificazione degli utenti, prima sconosciuta. La tecnologia spaziale, attraverso l’uso di satelliti per le comunicazioni, connessa alle novità tecnologiche a cui abbiamo qui accennato, hanno fatto il resto. Impianti radar e satelliti, connessi a reti e banche dati informatici, nelle mani “giuste” possono oggidì  tranquillamente controllare ogni voce ed alito che si muova sull’orbe terracqueo. Ma l’esclusivo dedicarsi ad ascoltare e coordinare miliardi di comunicazioni al minuto, oltre ad essere impresa improba, può rappresentare uno sforzo inutile, se non viene tenuto conto dell’imprevedibilità dell’umano agire, che molto spesso sfugge a qualsiasi variante, legge statistica o pavloviano riflesso condizionato che dir si voglia. A questo punto, nel nostro discorso entra a gamba tesa una seconda parte del progetto di dominio globale, costituita da quelle inquietanti forme di condizionamento occulto che, partendo da banali episodi di cronaca “noir”, finiscono inevitabilmente con  il proiettarci in quel regno dell’ “altrove”, fatto di ipotesi che, apparentemente assurde, vanno progressivamente assumendo una propria inquietante consistenza, lasciandoci con non pochi interrogativi, sinora irrisolti. Si inizia dagli strani segreti “di stato” sulle stragi in Italia e si va via via passando alla sequela degli omicidi del “mostro di Firenze”. Dalle inquietanti sparizioni  delle tante, troppe ragazzine alla Emanuela Orlandi, Denise Pipitone e via dicendo, alle improvvise esplosioni di follia familiare, alle incontrollate mattanze e stragi in Italia, Germania, Francia, USA e chissà dove ancora, sino ad arrivare all’inquietante ipotesi lanciata dal magistrato italiano Paolo Ferraro, nell’ambito delle indagini sulla morte di Melania Rea, circa l’esistenza di sette massonico-militari in odore di satanismo, dedite a pratiche di violenza e sesso estreme, al fine di condizionare in modo totale le menti dei propri adepti. Violenza, sesso, con il solito contorno di satanismo e di occultismo deviato, al fine di lanciare messaggi subliminali, tali da determinare in modo silenzioso quell’ “anestesia” delle anime, necessaria alla realizzazione di un uomo che, interamente decerebrato ed assuefatto alla violenza, abbia come unico scopo la soddisfazione dei propri istinti primari, accettando pertanto, in modo totalmente passivo l’onnipervadenza della dimensione tecno economica. Il tutto, condito dal degrado globale di quell’orbe terracqueo, grazie al quale abbiamo, sinora, campato e prosperato, e di cui ora, rischiamo di far le spese noi tutti le generazioni che ci seguiranno, solo per accontentare i “desiderata” delle lobby mondialiste. Verità o Mistificazioni? Gioco degli specchi o rappresentazione di una realtà ai più celata? E chi lo sa…Una cosa è però certa e che i vari spioni-spiati ce lo consentano: l’imprevedibilità dell’agire umano, l’irrazionale sentimento della volontà, la spinta alla vita, che da sempre albergano nell’animo umano, possono vanificare tutte le più sofisticate reti di ascolto e controllo globali, tutti i Grandi Fratelli di questo mondo, lasciando in braghe di tela sette, logge, lobby, gruppi di pressione e congreghe varie a cui, quando nel corso della Storia puntualmente esplodono delle rivolte, altro non resta che la via di una  precipitosa fuga verso quelle fetide fogne da cui costoro erano emersi, per non finire con la testa su qualche patibolo o, per bene che gli possa andare,  rinchiusi in qualche gulag a patire i salubri rigori di un clima siberiano. Pensare che una ristretta elite di criminali, usurai e speculatori possa farla franca impoverendo, ammorbando, inquinando, terrorizzando e controllando il mondo intero, sotto lo sguardo e l’approvazione di qualche miliardo di individui, è follia pura. Certo, viviamo in un momento di grave disagio. Sembra che il tentativo di estendere a livello globale il dominio dei gruppi di pressione economico finanziari, inizialmente targati USA-Israel-GB ed ora sempre più confusi nel gioco del “domino” multipolare, sia prossimo a realizzarsi in terra e che l’unico destino possibile e perseguibile, sia quello di uno sviluppo senza se e senza ma, non disgiungibile da ingredienti come degrado ambientale e povertà globali. Uragani, tifoni e scorie radioattive sembrano preannunciare imminenti  catastrofi a livello planetario…ma la vera catastrofe sarebbe se qualcuno iniziasse ad usare “in proprio” le molte energie alternative ai soliti idrocarburi di esclusiva monopolio USA-GB. O se iniziasse a stampare moneta in proprio, cioè senza pagare l’aggio alle varie banche private. O se iniziasse a rivedere i vari accordi-cappio internazionali (vedi GATT…) siglati negli ultimi anni. O se andasse a nazionalizzare le proprie industrie strategiche. O se ristabilisse le proprie frontiere politiche ed economiche, alla faccia di Unioni ed Alleanze, costruite senza rispettare popoli, usi e consuetudini, solo per acconsentire ai “desiderata” dei vari padroncini di turno. Certo, per arrivare a tutto questo, di mazzate se ne dovranno ancora prendere, bisognerà imparare che il capitalismo globale non sta attraversando nessuna fase di crisi, perché è esso stesso che della crisi ha bisogno per perpetuare la propria esistenza. La riscossa e la rivolta sono però parte di inscindibili dinamiche storiche, che qua e là cominciano ad affiorare. Occupy Wall Street, le varie e periodiche sollevazioni in Grecia, Spagna, accompagnate dalla nascita e dalla diffusione di movimenti “scettici” e populisti (alcuni dei quali al governo di paesi come Islanda, Norvegia ed altri…) in un po’ tutto il Vecchio Continente, rappresentano un primo ed ineludibile segnale di stanchezza e di voglia di cambiar pagina. Non se ne facciano un cruccio dunque, i nostri cari spioni- spiati. Per quanto possano credere di continuare a raccontarci storie, non sarà il minor costo del denaro o qualche altra fola pre elettorale a far cambiare il corso di una Storia, che ben saprà come procedere nel suo corso, facendo ben presto pulizia di incertezze, ambiguità ed equivoci.

Crisi globale: istruzioni per l’uso
 

Sono esattamente passati trenta mesi dall’inizio di quella che, non senza euforia, viene definita la più grave crisi economico-finanziaria degli ultimi cinquanta anni. E’ vero: va dato atto che i vari governi occidentali e non, si sono dati da fare (anche se in ritardo) per cercare di limitare al massimo i danni arrecati dalla tempesta finanziaria scatenatasi a seguito della crisi legata ai mutui USA. Il governo italiano, per mano del ministro dell’Economia Tremonti ha spiccato in tal senso per proposte ed intraprendenza. E’ altresì vero che Oltreoceano Obama ha tuonato contro banche e banchieri, promettendo ed annunciando nuovi e più incisivi provvedimenti atti ad arginare lo strapotere degli istituti di credito, ora sul banco degli imputati per la recente crisi. Le apparenze, le belle parole e le buone intenzioni sinora generosamente profuse, non debbono però trarci in inganno su un “però” che grava come un macigno su tanto bel concionare. Punto primo. I vari Obama, i Tremonti e compagnia bella, oggi puntano il dito sui manager e le loro astronomiche retribuzioni (anche qui, a dire il vero oggetto delle critiche non sono tanto queste ultime, quanto i premi di produzione ad esse connesse, sic!), come se l’indebitamento delle banche fosse causato da questi ultimi, oggi pare assurti all’inverecondo ruolo di oscuri burattinai, che invece spetta a ben altri personaggi. A tirar le fila di tutti questi bei guai, non possono essere quelli che altro non sono che dei semplici dipendenti, anche se profumatamente retribuiti. Dietro ai vari manager c’è sempre un gruppo di pressione, una proprietà che tira le fila e ne ispira l’azione, a seconda delle proprie occulte necessità strategiche. Il manager, di tali strategie, è il fedele interprete e quindi addossare sulle sue spalle l’intera responsabilità di una crisi è quanto di più sciocco ed in mala fede si possa fare. La soluzione del problema va cercata a monte, cioè colpendo il potere dei grandi centri di interesse finanziari. Punto secondo. Ora il dibattito si va concentrando su un altro punto focale. Ridimensionare le grandi banche o, piuttosto, dividerne le varie funzioni e settori operativi, arrivando addirittura alla realizzazione di contabilità separate per meglio controllare le singole attività ed evitare, quanto più possibile, investimenti a rischio? Anche qui, ci troviamo di fronte ad un’ altra domanda insensata. Pensare di ridurre le dimensioni di una banca lasciandone unite le funzioni operative o, viceversa dividerne le varie funzioni lasciandone intatte le grandi dimensioni, senza agire sul problema a monte, ovverosia i grandi gruppi di pressione finanziaria che ne stanno alla base è come dare un’aspirina ad un malato di cancro, ovverosia serve a poco o nulla. Altra nota dolens. Qua e là su qualche grande quotidiano nazionale, (vedi “Repubblica”) sembra che tra le righe traspaia una sensazione di soddisfatta quiescenza di fronte al fatto che a Davos il vice premier cinese Li Qekiang, abbia fatto sfoggio delle performances in termini di crescita di PIL (8% annuo) ottenute nel corso del 2009 dalla Cina. Il nostro, non senza soddisfazione, avrebbe annunciato che la Cina si farà locomotore della ripresa mondiale, creando un mercato interno di consumatori, a patto che nessun si azzardi a frapporre alcuna legittima barriera tra di sé e gli impetuosi interessi cinesi. Tutto questo, mentre ci si dimentica che “Cindia/Cina –India” assurte oggidì a nuove locomotrici dell’economia mondiale, hanno investito tanto, tantissimo nei titoli del debito pubblico USA. Facciamo l’ipotesi, oggidì non tanto ipotetica, di una nuova crisi che stavolta colpisse ben benino il dollaro. In un attimo “Cindia” si troverebbe tra le mani un bel sacco di carta straccia, trascinando sé stessa ed il mondo intero in una rovinosa ed ingloriosa caduta. Non solo. Economisti come Nouriel Roubini, Jacob Frenkel, Joaquin Almunia, Domenico Siniscalco, Kenneth Kogoff, Moises Naim, interpellati da “Repubblica”, concordano nel dire che 1) la ripresa economica non sarà nè facile né rapida 2) l’esistenza di un duopolio USA-Cina non è assolutamente accettabile 3) l’Europa deve quindi trovarsi assolutamente un ruolo di rilievo nello scenario degli equilibri macro economici mondiali. Ed anche qui si ragiona fingendo di ignorare il problema di base. Non è con semplici provvedimenti strutturali che si colpiscono i poteri forti dell’economia, né auspicando una quanto mai vaga e fumosa presenza dell’Europetta degli euro burocrati sul proscenio, né confidando sulle aperture di mercato cinesi. Sarà solamente attraverso il netto rifiuto del sistema economico globale o, quantomeno, attraverso un suo costante ma continuo ridimensionamento, che l’Europa e le sue nazioni, ed il resto del mondo potranno meglio tutelarsi dagli sbalzi umorali di un mercato oramai lasciato completamente a sé stesso. La totale revisione degli accordi Gatt attraverso una graduale ri-localizzazione dell’economia, tramite il ritorno sul proscenio del primato della politica imperniato sul ruolo centrale della nazione. L’intervento mirato dello stato nell’economia e nella finanza attraverso l’estromissione delle banche private dalla gestione delle banche centrali, ponendo in tal modo fine all’infame meccanismo del signoraggio sull’emissione di danaro. Utopia? Sciocco idealismo? Forse, ma sicuramente minore di quello dei vari cervelloni dell’economia che credono di fregare le banche ed i centri di potere occulti dell’alta finanza con la politica delle buone intenzioni.

Proposte per una effettiva democrazia diretta

Che il confronto tra Bersani e Renzi altri non sia che il paravento, dietro cui si celano antiche ruggini interne ai meccanismi di potere dell’attuale PD, è cosa risaputa. E che tra i due abbia vinto il Bersani, anziché Renzi, cambia poco, ed cosa è altrettanto risaputa. Ma di un fatto bisogna sicuramente avvedersi: il fenomeno di straordinaria partecipazione di pubblico alle “primarie” piddine, per quanto gonfiato possa essere, ci offre un dato su cui riflettere a fondo e cioè quello della volontà di partecipazione della gente ai meccanismi decisionali del nostrano potere politico. Un sentimento, quello della partecipazione, sicuramente più diffuso a livello di confusa aspirazione, piuttosto che di una vera e propria volontà politica, ma pur sempre una sentita istanza. Il grande problema dell’Italia di oggi (e forse dell’Occidente intero…) è dato dal fenomeno delle “caste”, ovverosia dallo sclerotizzarsi delle varie classi politiche in qualcosa di stantio, avariato ed infruttuoso. In entità, cioè, incapaci di sapersi rinnovare e perciò stesso di saper stare avanti con il passo rispetto al comune sentire. Invece le varie caste cercano di interpretare nel senso più codino e restrittivo il sentire di una collettività, divenendone i fedeli interpreti dei peggiori difetti, anziché dei pregi e dei lati più ingegnosi. Così in Italia. La classe politica ha saputo magistralmente interpretare ed introiettare il peggior burocratismo, l’associazionismo parassitario di mafie e congreghe criminali varie, lo spirito da mandolino del “tiramm’a campà”, il peggior localismo campanilista, affiancato dal più deleterio spirito inquisitoriale, che hanno prodotto decenni di sprechi, malaffare, ingiustizie e distorsioni d’ogni genere e tipo. Di converso stanno il merito ed il genio italici, espressi da letteratura, poesia, pittura ma anche da quello d’intrapresa e creatività nel lavoro,accompagnati dall’indefessa onestà di milioni di lavoratori, che hanno fatto del lavoro italiano e dei suoi frutti, un qualcosa di ammirato ed invidiato nel mondo intero, ad ogni latitudine. Ma sulla testa di tanti meriti grava e pesa come un macigno Lei, l’immarcescente, la casta, con i suoi privilegi, messa lì a strangolare istanze, aspirazioni ed energie. Casta non è solo politica, ma anche aggregato di varie espressioni di poteri forti. Si va dalla casta dei magistrati, a quella dei banchieri, a quella dei sordi e grigi burocrati, a quella dei preti, senza scordarci di quella delle onnipotenti mafie e massonerie deviate che quatte quatte, tutto gestiscono e condizionano…L’Italia ha bisogno certamente di un cambiamento ma, questo non può nuovamente tradursi in un confusionario ammasso di istanze utopistiche, alla base delle quali non vi sia un nucleo forte di proposta per l’agire politico. Oggi si fa un gran parlare di “democrazia diretta e partecipata”. Bene. Proprio per cercare di non ridurre la politica ad un vago esercizio di retorica, vediamo in quale concreta proposta, questa può esser tradotta. L’Italia, più di tanti altri paesi, soffre di quella che, azzardando un neologismo sociologico, potremmo definire un’ ”ipertrofia associativa”. Da noi, più che in altri paesi,  l’appartenenza ad una determinata associazione, clan parentale, gruppo, partito o sindacato che dir si voglia, conta molto di più delle capacità individuali, costi quel che costi, proprio nel nome di una interpretazione distorta di quello che dovrebbe rappresentare un sano e giusto senso di appartenenza ad una comunità, nel nome del quale bisognerebbe essere anche in grado di sacrificare e metter da parte i propri individuali egoismi, in virtù di un obiettivo più alto; il che finirebbe poi con il ricompensare tutti. Invece nel nome di questo malinteso senso di comunità, ci si finisce per trovare di fronte ad uno dei classici processi degenerativi delle categorie del politico, così come a suo tempo descritti da Aristotele. Dalla democrazia alla demagogia, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla monarchia alla tirannide e, diciamo noi, dalla comunità alla setta, alla greppia. I detrattori “liberal” della comunità effettuano la propria critica in base all’immagine degenerata che in determinate realtà del mondo essa offre (vedi il nostro paese, per l’appunto). Così facendo, certe persone trovano l’alibi morale per l’esaltazione del più sfrenato e controproducente individualismo, dimentichi della funzione di equilibrio etico che la comunità dovrebbe offrire, permettendo la crescita e lo sviluppo creativo delle individualità più dotate, senza per questo deprimere e penalizzare i meno capaci. Per iniziare un percorso di cambiamento, bisogna sicuramente partire dalla cima, cioè dal vertice della società, incarnato dal potere politico. Partire da una riforma generale che fluidifichi i meccanismi della politica è quindi il primo, fondamentale, passo. L’accesso alle cariche pubbliche elettive, dovrebbe essere regolato in modo tale da far sì che l’eletto non possa permanere per più di una legislatura. Dopodichè o sarà eletto ad una carica di grado più elevato, (da deputato a ministro, per fare un esempio)  o, per essere eletto, dovrà aspettare un minimo di due legislature. Una volta poi eletti a premier non si potrà più, in alcun modo, essere rieletti. In questo modo sarebbe reso più facile l’accesso alle cariche pubbliche, ma altrettanto più facile l’uscita, favorendo un continuo ricambio. In tal modo, la stessa attività politica, tornerebbe a divenire una forma di carica onorifica al servizio della comunità, assumendo oltretutto, una valenza sempre più legata a quella del mondo del lavoro in cui il politico, terminato il proprio mandato, dovrebbe in ogni modo tornare, visto che, uno tra i primi passi in questo senso, dovrebbe essere l’abolizione delle “pensioni d’oro” per i politici. La prassi del continuo ricambio nell’ambito politico, potrebbe, di converso, rappresentare un profondo incentivo ad adeguare le altrettanto, sfittiche dinamiche, del nostrano mondo del lavoro, in direzione di maggior dinamismo e meritocrazia, creando nuove opportunità per tutti coloro che ne abbiano voglia e capacità, e non solo ai soliti raccomandati di turno. Particolare attenzione, si dovrebbe inoltre prestare a tutte quelle forme di  reato associativo, per le quali andrebbero considerevolmente inasprite le pene e le misure preventive. Sul versante amministrativo, andrebbero rigorosamente vietate le grandi concentrazioni societarie, con rilievo a quelle bancarie ed assicurative, senza dimenticare il fermo divieto di connubio tra i due comparti. Certo, continuando di questo passo, si può arrivare a preconizzare il miglior mondo possibile ma, credere di cambiare una società in base a riforme o ad alchimie istituzionali, è quanto di più illusorio si possa fare. Qualunque tipo di riforma o rivoluzione, anche la più radicale, non potrà mai sortire un effetto duraturo, se non sarà accompagnata da un profondo rinnovamento etico, condotto da un movimento politico che sappia agire in piena sinergia con il sentire della società. E qui si giunge dinnanzi al classico “nodo di Gordio”. L’Italia è posta per l’ennesima volta, a distanza di neanche un ventennio, dinnanzi ad una scelta di cambiamento che la dovrebbe portare dalla Seconda, morente Repubblica, ad una Terza, nascitura Repubblica. Le elezioni sono alle porte ed il quadro ci sembra esser confuso e contraddittorio come non mai. Il primo segnale proviene da una Sinistra che, in barba ai tanto conclamati slogan di rinnovamento, ha scelto la linea politica più conservatrice, privilegiando l’ “apparatchjk” Bersani in luogo dell’outsider liberal Renzi. La destra, dopo alcuni tentennamenti verso le primarie, sta tornando alla vecchia gestione berluschista, preparando il proprio rientro in campo, con il colpaccio di una ben calcolata sfiducia al governo Monti, a cui forse i poteri forti non hanno perdonato la “marachella” del riconoscimento della Palestina come stato osservatore all’ONU. Chiaramente di fronte a tanta inquietudine, i “soliti noti” stanno ben pensando di neutralizzare il più possibile qualunque movimento di opposizione, attraverso campagne orchestrate ad orologeria, come quella sul negazionismo per esempio, o cercando di attribuire inesistenti matrici politiche ad episodi da stadio o ancora fomentando odii, divisioni e scandali all’interno e tra le varie realtà d’opposizione, Grillo incluso. L’unico elemento di ottimismo, sta nel fatto che, rispetto a qualche tempo fa, è aumentata e sta aumentando tuttora la percezione collettiva di un pericolo reale, rappresentato dall’attacco concentrico che i poteri forti stanno oramai portando a tutto campo, contro il benessere di una comunità, tassando, chiudendo imprese e bruciando posti di lavoro (vedi Ilva), penalizzando le menti migliori tagliando fondi alla cultura, oltre che a comparti vitali come la ricerca, la sanità e la sicurezza. Forse la soluzione, inaspettata, viene proprio da quella che potremmo definire la “prassi della crisi”, cioè la coscienza di vivere una profonda ed ineluttabile crisi sistemica, dalla quale l’unica uscita può essere solo quella di un decisivo, radicale, cambiamento di rotta.

Per un fronte comune

 

In sessant’anni e passa di democrazia repubblicana, mai si era assistito ad una simile beffa, realizzata ai danni dei cittadini italiani. L’onda lunga della crisi che sta travolgendo tutte le certezze su cui, molto ingenuamente, si era cullato il mondo occidentale negli ultimi decenni, ha d’improvviso reso più pavida del solito una classe politica avvezza a giravolte, rinnegamenti e voltafaccia d’ogni tipo e sorta. Costoro, di fronte al profilarsi di una crisi la cui soluzione non era certamente a portata di mano ( o quanto meno di cui non si voleva né si vuole vedere la esatta portata, e cioè la crisi irreversibile del sistema liberal capitalista, sic!) hanno sic et simpliciter preferito passare la mano, ovverosia in barba al mandato elettorale loro conferito e che IMPONE “de iure” l’obbligo a chi è eletto di intraprendere decisioni politiche, non di demandarle a chi, non eletto, viene nominato frettolosamente senatore a vita e presidente del consiglio, in modo da accollarsi le decisioni più difficili, lavandosi in tal modo le mani e scaricando su altri la responsabilità di scelte dure. Certo il Professor Mario Monti possiede un aplomb ed una classe fuori dal comune, che nulla hanno a che vedere con i modi cacioroneschi e guasconi del suo predecessore. Anche quando si tratta di propinar tagli e gabelle, il Presidente non perde mai il suo garbato aplomb, né tantomeno quando con un altrettanto garbato candore è là a dirci che è “colpa degli italiani che non si sono resi conto” degli sprechi e delle magnonerie dei governi succedutisi nei decenni. E che dire, invece, quando con solenne tranquillità, ci afferma la sua totale estraneità dalle “cattive frequentazioni” di poteri forti, gruppi di pressione e via discorrendo? Lui il novello “Saddam Hussein” dell’economia globale, a detta di qualche commentatore d’oltreoceano un po’ risentito ed affetto da un’imbecillità, la cui inguaribilità è testè dimostrata dal non aver capito un’acca sulla reale natura di un potere, quale quello economico, oramai non più appannaggio di una singola e limitata realtà nazionale, bensì dell’intero consesso umano, nel nome della realizzazione di una cosmopolita  “ecumene” dell’economia e della finanza, sempre più propensa ad affermare apertamente la propria supremazia a livello planetario. Messe da parte timidezze e ritrosie, l’Impero oramai ha deciso di collocare i propri uomini direttamente nei posti giusti, scavalcando mediazioni , consensi e consociativismi d’ogni tipo e sorta. E’ iniziata una nuova fase della Storia del Globalismo: l’ascesa del Leviatano. Di fronte all’inanità dei poteri politici ed all’insensatezza delle categorie politiche si erge terrificante colui che, di Destra o Sinistra, di democrazia parlamentare o presidenziale, di laicità o religione ha fatto finalmente strame: il Leviatano. In Lui non c’è dubbio o interrogazione sulla moralità dell’azione politica, Lui è oltre la politica. Agisce nel nome del profitto. Gelido e determinato come non mai, costi quel che costi, anche a costo di provocare una catastrofe ecologica globale. Anche a costo di mandare a picco le economie di mezzo mondo o di  schiacciare senza esitazione nazioni, paesi, realtà che non si adeguino all’istante ai propri suicidi “desiderata”. Lui, il Leviatano, è il mostruoso simulacro di una civiltà arrivata alla propria fase terminale o, al contrario, all’estremo tentativo di superare l’ultima barriera di umanità rimasta, nel nome di un modello che, oltre l’uomo, vada verso la sua trasfigurazione in un indefinibile modello transumano. Quanto John Locke andò prefigurando più di tre secoli fa, va ora realizzandosi, con modalità e principi che, forse, nemmeno lo stesso Locke avrebbe previsto. Una sfida, forse. Lanciata a tutti coloro che nel nome di una determinazione eguale e contraria a quella del Leviatano, pensano che la realtà intera vada cambiata radicalmente dalle fondamenta: i rivoluzionari, per i quali è arrivata l’ora di mostrare se sono capaci di agire o no sulla realtà del mondo. Ultimo passetto della tragicommedia occidentale, il così definito (dalla Merkel, sic!) “rivoluzionario” provvedimento di forzare le economie europee verso un’unica, alienante direzione. Quella dell’adeguamento alle logiche del mercato, per cui i singoli paesi europei non potranno, attraverso politiche di bilancio, tutelare i propri cittadini. Ha vinto la Merkel e con lei il FMI, gli USA e la speculazione di Wall Street. Per questo, ora urlare più forte che mai il nostro NO! a questa Europa ed all’Euro è un dovere primario. Per scardinare il disegno di asservimento globale, bisogna far leva sul “particulare”, partendo necessariamente dal basso, dalle esigenze delle masse, di cui le avanguardie del pensiero-azione dovranno farsi giuocoforza interpreti. Il primo punto di partenza è la gestione dell’economia dal basso. Mi sovviene quanto accaduto pochi mesi fa in alcune fabbriche in Nord Italia, in Emilia Romagna in particolare, dove alcuni stabilimenti in fase di chiusura, sono coraggiosamente stati rilevati dai lavoratori, mettendo mano alle proprie liquidazioni ed a finanziamenti vari. A questo punto, sarebbe necessario invece, metter mano al meccanismo dei finanziamenti comunitari, incentivando la pratica dell’autogestione delle attività produttive. Un intervento pubblico, volto al finanziamento delle micro attività, slegate da ostacoli e vincoli di natura burocratica, snellirebbe l’intero comparto economico, liberandolo dai condizionamenti dei grandi gruppi di pressione e, attraverso la pratica dell’azionariato diffuso, andrebbero in direzione di una benefica ri-localizzazione dell’economia. Colpire il perverso meccanismo del signoraggio, attraverso la nazionalizzazione delle varie banche nazionali e l’introduzione di un doppio regime di circolazione monetaria, migliorerebbe di molto la tenuta dei conti pubblici, consolidando e preservando i risparmi dei lavoratori. La lotta al dominio oligopolistico della finanza, non può non passare attraverso la prassi della democrazia diretta, in economia non meno che in politica. Solo alcune proposte che ci ricordano come l’economia gestita, là dove possibile, dal basso, fa il pari con la prassi referendaria e plebiscitaria in politica. Detto così tutto sembra ovvio, facile, a portata di mano, invece non è così. Perché una progettualità politica trovi sbocco nella realtà dei fatti, è necessaria una chiara presa di coscienza. La Globalizzazione, anzitutto. Non si può pensare di intraprendere una lotta simile, senza aver esatta coscienza dell’entità del problema globale. Essere contro la Globalizzazione, comporta una serie di conseguenze a cascata che non si possono eludere e che non permettono sfumate posizioni di compromesso, pena il completo invalidamento delle proprie istanze, che finirebbero solamente con il fare da parafulmine per il fisiologico scontento delle opinioni pubbliche. Illusorio è altresì credere di affrontare il problema con la soluzione del partito di stampo fascio-stalinista, gerarchizzato, militante ed uniformato ad un unico credo. Abbiamo già visto e stiamo tuttora assistendo all’ingloriosa fine delle realtà dell’antagonismo militante, in bilico tra la trasformazione in sette o nel divenire semplici valvole di sfogo per teppistiche intemperanze giovanili. A fronte di un tendenza all’uniformazione globale, la risposta non può non essere se non quella dell’unità nella diversità, nell’immagine di un arcipelago da contrapporre al monoblocco mondialista. Tante realtà, tante provenienze diverse, dunque, ma tutte egualmente accomunate dalla basale comprensione del meccanismo della globalizzazione e di tutte le sue ricadute. Partire da iniziative concrete, passo dopo passo. Trasformare le prossime elezioni in un plebiscito contro la partitocrazia, perché coloro che, eletti dal popolo, nel momento delle scelte difficili hanno preferito delegare ad altri, non eletti, siano definitivamente estromessi dalla vita politica del paese. Identificare nella lotta al signoraggio, alla moneta globale ed all’allestimento della nuova gabbia europea, quei motivi-cardine attraverso i quali iniziare il processo di disarticolazione dell’economia liberista a livello europeo e mondiale. E farla, una volta per tutte, finita per sempre con la logica gruppettara e ducistica che ha contraddistinto la vita politica delle entità antagoniste di questo ultimo quarto di secolo. Lavoro di equipe contro sorpassati verticalismi ed una maggior democrazia diretta, rappresentano la ricetta vincente per affrontare le grandi sfide del presente e del futuro. Una sfida dal sapore immediato, attuale, che non può aspettare oltre, i tempi sono sin troppo maturi. Aspettare o tergiversare oltre, significa lasciare definitivamente la mano al Leviatano ed ai suoi cortigiani, con tutte le disastrose conseguenze che ne deriveranno.

Fronte comune: un contributo

 

Il travagliato periodo di crisi, politica, economica, ma anche morale, che il nostro paese sta attraversando, sta riproponendo a tutti coloro che possiedono un minimo di coscienza antagonista, quella mai sopita e completamente abbandonata riflessione sul “che fare?” di leninista memoria. Una riflessione che ha recentemente subito un’impennata, determinata dall’accelerazione della crisi del centro destra italiota e dall’insufficiente caratura politica del centro sinistra e quindi dalla prospettiva dell’apertura di nuovi spazi di consenso, precedentemente catalizzati attorno ai due grandi schieramenti politici nazionali. Ecco allora tutto un fiorire di iniziative, convegni e via discorrendo, tutti appunto incentrati su quel tanto travagliato “che fare” testè citato. L’appello dell’amico Mariantoni, le iniziative di Alba Mediterranea, la Confederatio, il Centro Studi Socialismo Nazionale, il raduno di questi giorni di Monte Livata, il Manifesto Fasciocomunista e via discorrendo, rappresentano in qualche modo il sintomo di un profondo disagio, la punta di un iceberg che però, se non sarà accompagnato da proposte concrete, rischia di rimanere nell’ambito del “tanto rumore per nulla” a cui certi ambienti ci hanno, da troppi anni oramai, abituato. Esiste una soluzione al paradosso di un ambiente che dell’azione pura ha fatto il proprio mito fondante e che, invece, vive da troppo tempo oramai, una fase di ristagno che ha tanto il sapore di un processo di epocale decadenza? La soluzione si chiama chiarimento. Sui punti programmatici, innanzitutto, ed in conseguenza, anche sull’azione. Cominciamo con il dire che, accanto al rispetto per la specificità di ogni singola persona, gruppo o associazione con cui ci si trovasse ad interagire, vi sono alcuni “paletti”o punti fermi che dir si voglia, non oltrepassabili, pena lo snaturamento e l’annullamento degli obiettivi che ci si vorrebbe porre. Una sola parola sopra tutte: Globalizzazione. Se siamo in grado di dare, di tale termine, una definizione esaustiva  e di comprenderne la piena portata, allora potremo essere in grado di agire di conseguenza. Se per Globalizzazione oggidì intendiamo l’occidentalizzazione forzata dell’intero orbe terracqueo, attraverso un processo volto a fare dell’economia l’unico leit motiv della vita dei popoli, attraverso l’imposizione a tappe forzate del liberismo economico, allora cominciamo a capirci. Se a base di questa Globalizzazione, inoltre, poniamo l’asserzione dell’incontrovertibile esistenza di astratti valori universali quali libertà, uguaglianza, pace, giustizia, etc., che vanno imposti urbi et orbi, attraverso la guida di alcune nazioni “elette”, portando per conseguenza all’omologazione universale ed al conseguente annullamento delle singole identità, allora avremo fatto un altro passo avanti. E’ chiaro allora che, da tutte queste elementari considerazioni discendono a cascata tutta una serie di conseguenze. O si è CON o si è CONTRO la Globalizzazione, non esistono soluzioni mediane. Quanto qui affermato implica il fatto che, chiunque si presenti all’edificazione di un progetto antagonista in questo senso, di qualunque eredità culturale o ideologica fosse portatore, dovrà aver compiuto quell’opera di necessario chiarimento al proprio interno, tale da poter procedere coerentemente, evitare in tal modo di venire a perdere il proprio tempo. Dunque, se un liberale, un marxista, un un cattolico o un destro positivo, ci si dovessero presentare animati dalle migliori intenzioni, dovranno sicuramente aver svolto quel necessario processo di autocritica e superamento dei propri orizzonti ideologici, considerando le proprie precedenti esperienze come dei validi spunti per un’azione nel presente coniugata, però, secondo altri parametri. L’idea di libertà individuale, tanto cara al liberalismo, non è in disaccordo con un progetto anti globale, se radicata all’interno di un ambito profondamente identitario e comunitario. L’idea di giustizia sociale, tanto cara al marxismo, non è in disaccordo con un progetto anti globale, se svincolata dai criteri di materialismo di stampo economicista a cui è invece sottoposta nella dottrina marxista. La religiosità, se intesa come strumento di crescita ed arricchimento interiore, non è di per sé in contrasto con un progetto anti globale, se non va assumendo la connotazione di una forma di omologazione culturale universalizzante. L’idea di stato forte, fondata su un’idea di autorità garantita da una tradizione, posta a retaggio della continuità spirituale di un’intera comunità, propria della destra, non è in contrasto con un progetto anti globale, a patto che non si trasformi in un cieco autoritarismo quasi sempre al servizio di lobbies economiche e di vari potentati. Da quanto detto, discende che non ci può essere nessun percorso in comune con chi è fautore dell’odierno status quo internazionale, rappresentato dall’interventismo USA ed occidentale in genere. Quanto detto vale anche per tutti coloro che, nel nome di “universali principi” sostengono la necessità dell’avvento di una società multiculturale e razziale in Europa, facendo di fatto in tal modo, il gioco delle grandi lobbies finanziarie, interessate alla scomparsa dell’identità (e dei diritti, sic!) dei popoli europei. Potremmo continuare in questo modo, all’infinito, ma la sostanza permane una sola: oggi siamo arrivati al banco di prova per un’intera area umana e politica. Di fronte alla presa di coscienza sul problema della Globalizzazione e di tutto quello che ne consegue, occorre ora iniziare a dare delle risposte concrete, a partire da una serie di iniziative pubbliche, che dovranno rappresentare il banco di prova per un’area che, sinora, su certi temi si era limitata alle parole. Organizzare per la fine di Settembre una manifestazione nazionale contro l’imperialismo anglo americano ed i suoi sostenitori, rappresenterebbe la linea di discrimine tra chi è “con” e chi è “contro”la Globalizzazione, questa volta senza “se”  e senza “ma”. E’ da troppo tempo, oramai, che su certi temi determinati ambienti non solo si limitano alle parole ma poi, ancor peggio, intrattengono delle nemmeno tanto nascoste, connivenze con aree o ambienti politici totalmente estranei e manifestamente ostili a certe tematiche.E allora basta quindi con fratellanze, sorellanze e cameratismi vari. Basta con i memento nostalgici sugli oramai trascorsi e decotti anni ’70. Non esistono né aree, né ambienti da unificare, bensì gruppi ed individualità da aggregare, coniugati all’insegna di un comune sentire che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, non deve tradursi nella pratica della violenza. Il concetto di antagonismo politico non deve per forza far rima con illegalità o violenza, è bene ricordarlo. Se vi sono soggetti che la pensano diversamente, costoro fanno parte della schiera di chi, inconsciamente, lavora per la criminalizzazione di certe idee. Certo, può essere che, quanto sin qui detto dia fastidio a chi vuole far mantenere il comodo status quo della letargia poltronaia, con cui si vorrebbe infettare un’intera generazione di italiani. Certo, può essere che molti si tireranno indietro e rimarranno per strada, sino a che certe istanze finiranno nelle mani di altri soggetti. Un rischio che, d’altronde, non si può evitare di correre se si vuole, in qualche modo, far decollare un nuovo sentire nell’oramai inaridito ambito della politica nostrana.

In alto a destra: la vergogna

 

Ho avuto modo di leggere sul magazine informatico di Miro Renzaglia il lungo pezzo introduttivo di Giuliano Compagno sul libro “In alto a Destra/Attorno a Fini: tre anni che sconvolgono la politica”, rinnovando la mia meraviglia attorno a quanto da quest’ultimo scritto. Anche in questa, come in tante, troppe occasioni da oramai più di quindici anni, ciò che muove le riflessioni di una certa destra è uno sfacciato intento auto celebrativo, per altro non corredato da alcun serio motivo di reale soddisfazione. Anzitutto il Nostro parte lancia in resta, per dirci che il loro è un libro di riflessioni collettive, lì messo a celebrare il rilancio di una certa destra che, di nazional populismo, terzaforzismo o formule eterodosse varie non sa proprio che farsene, anzi. Certo, loro rispettano le dolorose vicissitudini di un certo ambiente ma preferiscono aderire al più sicuro e meno impegnativo alibi del finiano “post ideologico” per rilanciare un modello di identità “liquida” conformemente a certa vulgata post moderna alla Zygmunt Baumann, per cui qualsiasi principio di identità viene rifiutato nel nome dell’ansioso sforzo di adattamento ai dettami di una quanto mai olistica ed onnicomprensiva globalizzazione. Ed ecco qui sorgere quella destra “buona”, solidale anti razzista, che si scandalizza dei privilegi dei pochi a discapito dei molti, pronta a far aprire cuore (e tasche) dei cittadini all’invasione migratoria, nel nome del tanto osannato melting pot; quella stessa destra che dice di sentirsi lontana ed estranea al modello berlusconiano da cui dice di aver da sempre preso le debite distanze ideologiche. E’ proprio vero, in tempi di Globalizzazione spinta, può accadere che identità, collocazioni, programmi, vadano a confondersi nell’immane calderone del “politically correct” a cui certa destra ha deciso di aderire da quel dì e che poi, non la differenzia poi tanto da certa sinistra, lamentosa buonista e melensa. Il tutto viene dato per scontato, quale evento prodotto da un fato la cui ineluttabilità viene posta a conditio sine qua non dell’agire politico (e culturale, prima di tutto, sic!) Ecco, è questo il dramma su cui si impernia l’intera vicenda di una certa area disomogenea, ma omogenea al contempo, degli ultimi quindici anni. Il superamento della dicotomia fascismo-antifascismo, la conseguente storicizzazione dell’esperienza del Ventennio, poteva avvenire anche in altro modo aprendo la strada ad una forma di nazional populismo adeguata ai tempi ed alle istanze del momento, in grado di conciliare la grande richiesta di cambiamento del quadro politico istituzionale da parte della società italiana, con il principio di identità. La ristrutturazione del sistema economico senza la venuta a meno della solidarietà e delle principali tutele sociali. Il rispondere alla scomparsa del bipolarismo globale, con una maggiore attenzione agli interessi nazionali e non a quelli sempre più debordanti del blocco atlantista. Il voler addivenire alla creazione di una formazione politica all’insegna di un nazional populismo o di un terzaforzismo, adeguati e rimodulati secondo le esigenze di oggidì ( come successo nel Venezuela di Chavez) non significa essere a favore di pericolosi rigurgiti dittatoriali. L’essere contrari alle dinamiche imperialiste della politica nord americana e dei suoi attachè israeliani, non deve comportare l’immediato apparentamento con il terrorismo islamico né tantomeno con l’esperienza del nazismo. Una risposta chiara e netta alle sfide della globalizzazione, senza se e senza ma. Oggi la vera sfida non è tanto tra categorie quali “destra” e “sinistra”, di bobbiana memoria, quanto tra chi la globalizzazione la accetta o meno, intendendosi con questo termine l’occidentalizzazione dell’intero orbe terracqueo all’insegna della tecno economia e di tutte le sue ricadute politico economiche. Destra e sinistra appartengono oggidì a quella dimensione archetipale dell’agire umano, e per ciò stesso sempre più slegate dall’agire politico, per cui si può benissimo essere di destra ed anti globali ed invece di sinistra e filo globali o viceversa. Per addivenire a tutto ciò, all’interno di una certa area, sarebbe stato necessario però un chiarimento nei principi fondanti e nelle modalità dell’agire politico che, in verità non c’è mai stato, perché non si è mai voluto fare, preferendosi la scelta della supina accettazione al diktat del più forte del momento, cioè Silvio Berlusconi. Ora qualcuno potrebbe benissimo accusarmi di utopismo, malcelato nostalgismo o di spirito poco “pratico” e con una scrollata di spalle dribblare qualunque risposta in merito, proprio nel nome di quella concretezza che, almeno apparentemente, certe considerazioni sembrano voler allontanare da sé. Concretezza. Strano a dirsi, ma da quindici anni a questa parte, cioè da quando è sorta la beneamata “seconda repubblica” ( caratterizzata dalla presenza sul proscenio di un Silvio Berlusconi supportato alla grande dai nostri “neo destri”) il livello di benessere  dell’Italia è andato via via, irrimediabilmente scemando. L’introduzione della moneta unica europea (euro), non accompagnata da alcun serio controllo dei prezzi ha provocato il raddoppio dei prezzi al consumo, tenendo invece i salari e tutte le forme di pagamento legate a prestazioni lavorative, legate ai vecchi standard, provocando in tal modo un raddoppio dei prezzi ed un dimezzamento del potere acquisitivo dei cittadini. Una politica di codina accettazione ai diktat della politica nord americana fa sì che l’italia sia oggi, dopo gli Usa, il secondo paese al mondo per il numero di uomini e mezzi impiegati in missioni estere, con un appesantimento della spesa pubblica i cui contorni sono a tutt’oggi poco pubblicizzati, al contrario dei tagli alla spesa sociale (quelli sì pubblicizzati, nel nome di uno strano modo di concepire il risparmio sulla spesa pubblica). La scellerata politica delle porte aperte all’invasione migratoria, tanto cara a padroncini, preti e partiti in crisi, che in questo modo possono continuare a perseguire i propri privati interessi grazie a manovalanze a costo zero, il tutto a discapito della stabilità e della sicurezza sociale degli italiani, sempre più ridotti ad un ruolo di impoveriti comprimari. La totale quiescenza di fronte all’invadenza di un mercato senza regole, che permette oggi a signori come Marchionne e Company di delocalizzare e licenziare a piacimento, con i soldi pubblici. Ecco queste sono alcune delle cosette che a questa “destra” andrebbero di tanto in tanto ricordate. Il benessere degli italiani negli ultimi quindici anni è andato paurosamente scemando e, riforme o non riforme, conflitto di interessi o meno, nostalgie e celebrazionismi  o meno, questi sono i fatti. Ed alle poltrone di comando, negli ultimi quindici anni, ci sono stati loro; di occasioni per cambiare le cose ve ne sono state sin troppe, ma si vede che a certa gente, abituata a servire padroni da antica data, chiacchiere e nostalgie da gadget a parte, non è mai interessato. Eccolo, dunque, il vero volto di questa destra:  dall’iconografia nostalgica ma dall’anima filo atlantista e democristiana sino alle midolla, come quella notabilare di Michelini, o quella di Almirante, penamortista e bastonatrice di universitari in rivolta, o quella di Fini che, nel continuo valzer di cambio di opinioni ed alleanze, dimostra di avere dei contenuti intorno allo zero. Ecco, di fronte a certi fatti che ci danno un’idea chiara e concreta del fallimento incontro a cui questa destra è andata incontro, bisognerebbe avere il coraggio di tacere e di scomparire dalla scena o, quantomeno di mutare radicalmente la propria “ragione sociale”, mettendo da parte futurismo ed improprie nostalgie auto celebrative.

Un dialogo tra sordi

 

E’ veramente strano, sconvolgente come, mentre in Europa ed in Italia, grazie alla crisi crescano sempre più necessità ed istanze di un certo tipo, i refoli di certa partitocrazia, persone che tuttora amano definirsi di una certa “Area”, immersi e straconvinti del proprio ruolo di intramontabili “cambiamondo”, si siano recentemente dati appuntamento per rifondare, rianimare, rivitalizzare un qualche cosa che dovrebbe somigliare ad un certo soggetto politico, la cui grigia esperienza fu chiusa poco tempo fa dal suo degno fondatore, senza però poterne assumere direttamente ed apertamente la denominazione, poiché questa ultima è tuttora gelosamente custodita dai suoi tutori e co-(af)fondatori. Un ibrido dunque, quello poco tempo fa venuto al mondo, un brutto anatroccolo il cui esordio inizia subito male, con una serie di ambiguità linguistiche e concettuali, evidenziabili ad una prima occhiata al programma, tranquillamente visitabile in rete. Coniugare Tradizione con Modernità, Autodeterminazione e via discorrendo, ricorrono molto di frequente, al pari dell’immarcescibile “sociale” che, ovunque messo, ci sta sempre bene. Ma, se andiamo a dare un’occhiata un po’ più in là, leggiamo che con l’immigrazione legale tutto bene, con quella illegale no, nè si capisce da quale caposaldo debba partire la tanto conclamata “rinegoziazione dell’euro”, o in cosa poi debba concretizzarsi “l’economia sociale di mercato”, termine tanto caro già alla vecchia AN degli esordi, o quali siano i passi per addivenire alla tanto richiesta “Europa dei Popoli” e via discorrendo. A leggere questo programma ci sembra di trovarci, come al solito, di fronte alla solita,vecchia cara, gallina bicefala del neofascismo destrista, un piede nelle istituzioni ed uno nella rivoluzione, del si dice e non si dice, parole, slogan sì, e pure belli, ma un programma in pochi, chiari essenziali punti, no. Quello meglio di no, si potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno di quei “pontieri”, con un occhio sempre attento ai movimenti “dell’altra parte”, pronti a riveder tutto, per un posto qua e là. E, come al solito, si parte lancia in resta alla conquista del mondo e si arriva più dimessamente a qualche asfittico posticino in Regione…Eppure ci vorrebbe davvero poco, un programma chiaro, semplice, urlato ai quattro venti: Basta Globalismo. Basta accordi WTO, Maastricht e Lisbona. Richiesta di un civile scioglimento e smobilitazione della NATO (così come accaduto con l’oramai defunto Patto di Varsavia, sic!). Ritorno alle valute nazionali attraverso una iniziale fase di doppia monetazione. Nazionalizzazione delle Banche Centrali e fine del Signoraggio. Tassazione speciale sugli interessi derivanti dalle operazioni speculative finanziarie delle banche. Nazionalizzazione delle industrie e delle attività economiche di interesse nazionale (tra cui potrebbero anche starci le tivvù del Silvio nazionale, che ne dite?). Taglio radicale alle folli spese per le spedizioni militari all’estero. Immediata cessazione delle altrettanto folli svendite dei beni pubblici e demaniali (incluse le nostre coste, che le facce di bronzo di PDL ed associati vorrebbero svendere ad avvoltoi e a sfruttatori “privati”!). Incentivi al lavoro nazionale, andando a colpire gli oligopoli e le grandi concentrazioni economiche, attraverso azionariato diffuso, de burocratizzazione e, per i più giovani, leva lavorativa (i primi anni di lavoro, debbono essere impiegati in attività economiche di base, direttamente attribuite dallo stato). Un “No” duro, deciso, senza se e senza ma, all’immigrazione, vera e propria infezione-killer dei posti di lavoro italiani e destabilizzatrice dei delicati equilibri sociali nostrani, senza discriminare o offendere nessuno, ma piuttosto, privilegiando invece gli aiuti mirati verso l’estero. Potremmo ancora continuare, tanto per far capire che, se si vuole, le soluzioni pratiche ai nostri problemi ci sono, eccome. Vi sembra poi così difficile adottare un programma simile? Certo, all’inizio potrebbe esservi qualche difficoltà, la cosa potrebbe non esser di gradimento agli aficionados di un comodo status quo. Il problema è che se certe persone o ambienti, che tuttora detengono atteggiamenti di pseudo-antagonismo, con tutto quello che succede, non hanno ancora (o non vogliono ancora…sic!) capire che la soluzione non sta dalla parte di un moderatismo ricoperto da un guascone e poco credibile estremismo di maniera, non possiamo farci proprio nulla. Con questa gente, nonostante passati trascorsi di comune militanza, nonostante l’umana simpatia ed il rispetto, che ispirano alcuni tra i loro nomi, non abbiamo alcun punto in comune e qualsiasi tentativo di dialogo, si risolverebbe in una sterile conversazione tra sordi. Non si può evocare l’Europa dei popoli, ldentitarismo, una visione sociale dell’economia e compagnia bella, quando sino a pochi istanti prima si era totalmente subalterni alla cartapesta berlusconiana, ovverosia a globalismo, culto dell’apparenza, anti identitarismo, mercantilismo, filo occidentalismo e chi più ne ha più ne metta, ovverosia valori totalmente contrapposti a quanto ora, invece, confusamente enunciato con toni trionfali. Oddio, sbagliare si può sempre! Può anche essere che, nel nome del principio di un imperscrutabile Divenire storico, la “cosa” testè nata, venga a percorrere strade di inaspettato successo, magari ricalcando le orme dell’esperienza lepenista d’Oltralpe. Ma l’Italia non è la Francia, né quel resto d’Europa ove sono sorti e stanno conseguendo discreti successi, i movimenti populisti. Strano a dirsi, ma da noi il lungo retaggio ideologico del radicalismo ispiratosi all’esperienza fascista (inteso in tutte le sue sfumature, anche quelle più “rosse”, sic!) è divenuta la gabbia di contenimento di tutte le spinte innovative all’insegna dell’eterodossia. Questo si è verificato, grazie a quel lungo processo di trasformazione che ha fatto sterzare verso “destra” quel percorso ideologico a cui abbiamo testè accennato. Una “destra”, confusa, disorientata ma, più d’ogni altra cosa, complessata dalla presenza di quel convitato di pietra rappresentato dal Fascismo, con cui non sono mai realmente stati fatti i dovuti conti, in un modo o nell’altro. O quanto meno, del Fascismo si sono voluti solo esaltare gli aspetti più kitsch e grotteschi, senza invece badare ad una sostanza ideologica di cui invece si è voluto travisare e deformare il messaggio. Lo stesso ritirare fuori certi simboli non depone bene, se si vuole sperare in una spinta innovatrice ed in una nuova carica ideale. Troppe volte abbiamo assistito ad esperienze, tentativi, esperimenti, finiti tutti come ben sappiamo, per credere che stavolta sia quella “giusta”. Però, a dirla tutta, non ci sembra nemmeno giusta una unilaterale critica anti destra, che oggi va per la maggiore, senza guardare alle colpe dell’intero comparto antagonista nostrano, tuttora incapace di dare corpo ad un comune progetto di rinascita nazionale, senza finire vittima di ammuffite divisioni ideologiche e sterili personalismi. Il problema sta, a parere di chi scrive, in un’impostazione “di lavoro” profondamente errata. Scorrendo tra gli articoli del Blog “Sollevazione”, non può sfuggire un pezzo, a firma Moreno Pasquinelli, in cui, in un’ottica di critica profonda, si analizza il fallimento del tentativo di superare le categorie di destra e sinistra, a detta dello stesore del pezzo, tuttora vive e vegete più che mai, nel substrato culturale della nostra società. Ragion per cui, dopo decenni di imborghesimento del proletariato ed a seguito dell’acuirsi della crisi, la lotta di classe riprenderà spinta ed attualità. A parere di chi scrive, l’errore non sta tanto nell’aver constatato il fallimento dei vari tentativi operati nel senso di quel tanto auspicato superamento categoriale, quanto nel voler insistere con la riproposizione di quelle categorie (in questo specifico caso la lotta di classe), senza voler operare un loro giusto inquadramento e riposizionamento. Il problema del confronto con la Globalizzazione, è oggidì arrivato ad un punto di non ritorno, per cui non ci si può esimere dal voler intraprendere un qualsivoglia tipo di iniziativa politica, senza dover fare i dovuti conti con questa realtà. Destra o sinistra, possono benissimo rappresentare gli spunti categoriali per una iniziale riflessione metapolitica, alla quale però, dovrà per forza seguire un necessario riadattamento di questi ultimi. Il concetto di lotta di classe, per esempio, è stato, sin dall’inizio, oggetto di tante di quelle disamine critiche e di quei successivi fallimenti sul piano storico, da dover, giocoforza, necessitare di una profonda revisione in direzione di una sua metaforizzazione, senza però ricadere in quegli errori ed in quelle semplificazioni che, del marxismo hanno fatto una nuova teodicea materialista a carattere universalizzante ed omologante. Stesso discorso potrebbe esser fatto per lo Stato-nazione che, da giusto punto di riferimento per lo sviluppo armonico di una comunità umana, ha finito con il divenire il gelido mostro burocratico di nietzschiana memoria, nella sua esclusiva veste di vessillo degli interessi delle classi più agiate. Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito ma, la conclusione è una sola: nella sua fase di massima espansione, il capitalismo globale si rivela quale vera e propria contraddizione in essere. Il sogno del benessere universale, veicolato da un processo di totale mercificazione dell’uomo, va di pari passo con l’aumento di intensità e di frequenza delle crisi economiche e finanziarie. Queste crisi, assommate ad un disastroso impatto ambientale, determinano un processo di crescente disagio ed impoverimento dei ceti medio bassi, stavolta però celato ed ammortizzato dall’illusione di un momentaneo benessere, rappresentata dalla massiccia fruibilità delle nuove tecnologie (principalmente nel settore dell’informatica e delle comunicazioni…), nella sfera della vita individuale. Di fronte ad uno scenario simile, riteniamo che la risurrezione dei vari zombie politici a cui stiamo in questi giorni assistendo, abbia veramente poco senso. Bene ha detto qualche giorno fa, durante un dibattito televisivo, un giornalista della Stampa, sul fatto che le prossime elezioni europee non si giocheranno più tra destra e sinistra, bensì tra quanti sono a favore di questa Europa, dei suoi trattati, delle sue alleanze, del suo sistema finanziario e quanti, invece,  a tale status quo, sono contrari, di destra o sinistra che siano. In parole povere, il confronto va sempre più polarizzandosi tra chi, alla Globalizzazione è favorevole tout court, e chi, invece, prendendo spunto dalle conseguenze di questo processo sul piano concreto, va sempre più mostrando la propria contrarietà. Finite le belle parole, i giochini e le alchimie, ora la parola passa sempre più ai fatti concreti e, credete pure, non sarà certo la riesumazione ed il ritorno di qualche morto vivente sullo scenario della  politica nostrana, a far modificare la rotta ad un oramai ineluttabile, processo storico.

Tra verità e menzogna: i fatti del nord Africa

 

Qualcuno già lo chiama il nuovo ‘89 del mondo arabo, qualcun altro caldeggia invece un ’68 in salsa maghrebina, altri vorrebbero, ma poi, in preda ad oscuri timori per un ritorno in grande stile dell’integralismo islamico, caldeggiano prudenza, il tutto accompagnato dal solito coretto di oche ed ochette del buonismo d’accatto, lì pronte a stigmatizzare, condannare, fraternizzare, questo sì, con gli invasori che dal Nord Africa arrivano ad ondate da noi in Italia, coccolati, nutriti ed assistiti da una pletora di imbecilli mai prima d’ora vista. Nessuno, ma proprio nessuno, invece, ha il coraggio di interrogarsi sulla reale natura degli eventi dell’area maghrebina e vicino-orientale, sottoposti invece ad una quanto mai frettolosa e rabberciata analisi intrisa di triti e ritriti luoghi comuni. Due osservazioni anzitutto. Punto primo. La coincidenza con cui le varie rivolte sono esplose, una dopo l’altra dovrebbe impensierire un più attento osservatore. Punto secondo. Il mondo islamico è costituito da un miliardo di anime, con una differenza di vedute e di situazioni umane, politiche e sociali, pari forse a quelle che si possono riscontrare tra la Sicilia e la Norvegia, anche a distanze geografiche ravvicinate. Una cosa sono quindi le istanze che muovono le masse in Tunisia, Egitto, Algeria o Marocco, per fare un esempio, altre sono le motivazioni che invece stanno alla base dei fatti di Libia o in Iran o in Siria. In Egitto, per esempio, il vecchio socialismo nasseriano, il panarabismo terzomondista e terzaforzista, si è andato via via trasformando in una oligarchia burocratica oramai attestata su posizioni filo occidentali, in cui la stragrande maggioranza della popolazione vive in condizioni economiche deplorevoli, a fronte di una ricchezza nazionale detenuta in poche, avide mani. Qui una classe medio-bassa, fornita di una buona cultura ed animata da un attento spirito di osservazione dei trend occidentali, il cui ambito di provenienza politico ideologico spazia dal liberalismo progressista all’integralismo islamico,  ha avuto, grazie anche al veicolo informatico, la possibilità di dare adito a passa parola e piattaforme di discussione poi tramutatesi in vere e proprie direttrici per un’incisiva azione antagonista. Le masse hanno qui qualcosa da esprimere, incarnando una quanto mai confusa istanza di cambiamento. L’esempio dell’Egitto potrebbe essere tranquillamente applicato agli altri paesi del Maghreb sopra citati. Ma con la lIbia o la siria, la cosa assume una piega differente. Qui i regimi sono più o meno rimasti attaccati alle radici dell’irredentismo pan arabo. Muammar Gheddafi è in Libia riuscito a realizzare una grande parte di quelle che erano le aspirazioni del nasserismo. Infrastrutture, opere, un’organizzazione politica per comitati popolari, (organismi volti a porre le fondamenta per la realizzazione di una democrazia diretta) hanno fatto della Libia (ma anche della Siria) un paese all’avanguardia per realizzazioni sociali, sicurezza e benessere nel tormentato e caotico quadro dell’intero mondo arabo. Certo, a questo mondo nulla è perfetto, manchevolezze ed errori ve ne possono essere ovunque, ma nulla, comunque, rispetto a quanto si è potuto assistere in paesi come l’Algeria. Dalla Libia, come pure dall’Iran, immagini delle “rivolte” ve ne sono molto poche, generalmente riprese da telefoni cellulari e stranamente condite da commenti in perfetto inglese. Le immagini ufficiali, troppo spesso invece, ci mostrano gruppi di teppisti intenti ad incendiare, assaltare, saccheggiare o bersagliare le locali forze dell’ordine. Non abbiamo ancora visto immagini di bombardamenti, ma abbiamo sentito in tivvù evidenti rumori di scambi d’arma da fuoco, il che significa che a sparare non sono solamente le forze di sicurezza libiche, ma anche dei ben armati ed addestrati rivoltosi. Ora la domanda è: chi o cosa spinge a tutto questo? Strano, ma l’Italia aveva sinora goduto di un’ invidiabile posizione di vantaggio, per quanto riguarda la gestione dell’interscambio commerciale con la Libia e non solo. Importazione di materie prime, appalti, vicendevoli partecipazioni azionarie, avevano fatto della Libia (ma nono solo) una specie di cuccagna per le nostre imprese, che a qualcuno Oltreoceano non è andata proprio giù. La difficile situazione finanziaria internazionale, la grave recessione USA, che iniziano a vedere messo in discussione la propria indiscussa supremazia da paesi come  Cina , Iran e Venezuela nel ruolo di bastone tra le ruote, la sempre più frenetica corsa all’accaparramento delle fonti di approvvigionamento energetiche, hanno creato l’idea dell’apertura di una nuova falla geopolitica nel mondo arabo, spingendo sulle contraddizioni determinate da una situazione di intrinseca ed oramai cronica debolezza di quel contesto. La normalizzazione globalista ora passa attraverso il Vicino Oriente e l’Iran, ove non si può più permettere il perdurare di situazioni economiche di favore verso quell’Europa di cui bisogna, ora più che mai, indebolire la tenuta  economico-sociale. Ed ecco là l’invasione migratoria, ora assumere la possibilità di un esodo biblico in grado di destabilizzare irrimediabilmente un Vecchio Continente, le cui risorse energetiche potrebbero presto finire nelle mani delle Sette, immarcescenti Sorelle, con buona pace dei fregnoni che latrano di un’Europa buona e solidale. Non se ne voglia male qualcuno se mi permetto di giustificare, condividere e solidarizzare, con il vecchio raìs di Tripoli.  La sua rabbia mi è parsa sincera, il suo coraggio coerente con una sua mai abbandonata fede in una Terza Via Araba, Africana e Terzomondista. Quello suo deve rimanere per noi un luminoso esempio di coerenza, come quello del defunto Presidente Saddam Hussein. Gheddafi ha fatto capire che non intende né nascondersi né fuggire, magari travestito da soldato tedesco, ma rimanere fino all’ultimo al suo posto.  Edificare Rivoluzioni e poi mantenerle, in un mondo come questo, non è facile, anzi. Rendere onore al grande leader libico è oggi più che mai un dovere umano e morale. Sulla scia dei Sandino, dei Nasser, dei Peron, degli Assad, degli Habbash, dei Saddam Hussein, dei Fidel Castro, dei Che Guevara, degli Hugo Chavez e di tutti coloro che ritengono si possa realizzare un socialismo coniugato all’idea di nazione, oggi non si può e non si deve retrocedere da certe posizioni. Anche se questo non fa trendy, anche se ai “blogger” al servizio del capitalismo apolide questo può non piacere, anche se, i nostrani solidaristi in salsa yankee storcono i nasini di fronte a chi, a suo tempo, seppe risolvere il problema migratorio, sbattendo fuori a calci gli invasori di turno ( anche se questi erano italiani, sic!). E se poi, a rimetterci sarà qualche migliaio di scarafaggi drogati e finanziati da Mammona , beh tanto meglio! Le Rivoluzioni non sono mai state e mai saranno una passeggiata. Chi queste verità non le vuole accettare per un malcelato buonismo, e magari continua a cianciare di socialismi vari, sappia che si pone automaticamente dall’ “altra parte”, quella dei padroni, dei reazionari e dei conservatori, con tutto quello che questa scelta comporta.

L'aggressione alla Libia: alle origini di una tragedia
 

Tra una montagna di ipocrisie, menzogne e falsificazioni d’ogni sorta e tipo, è ripartita la solita guerra coloniale di matrice finto umanitaria contro il cattivaccio di turno, a questo giro rappresentato dal malcapitato leader libico Muammar Gheddafi. Di lui, si dice che ha sparato su folle di poveri manifestanti, scesi in piazza “solo” armati di kalashnikov ed altri simili deliziosi gingilli. Di lui si dice anche che abbia tolto la tanto agognata “libertà” di stampo occidentale ad un popolo che, se non fosse stato per il suo lungo governo, vivrebbe in una situazione non dissimile a quella della Tunisia, dell’Egitto o dell’Algeria e via discorrendo. Di lui si dice che era un insopportabile ed arrogante tiranno, con il vezzo però di far fare affari straconvenienti a molti, agli italiani in particolare. Cose già dette, si dirà, ma mai sufficientemente ripetute, visto l’assordante bombardamento del buonismo mediatico che, senza tregua alcuna, sembra volerci imporre una vulgata messa lì a coprire una ben più tragica e scomoda realtà. L’Europa di fatto non esiste più, o quanto meno, quel poco che sinora campicchiava sotto le asfissianti ceneri di un quanto mai ottuso burocratismo, si è definitivamente vaporizzato. L’Europa e lo spirito che ne avrebbe dovuto animare il progetto negli intenti dei suoi vari mentori, è definitivamente tramontato. Quella che, sin dall’inizio di questa ulteriore squallida aggressione, sembrava solo una flebile voce di corridoio, un sussulto mormorato nei bui recessi di qualche salotto minore della politica, si è fatta via via una voce sempre più assordante. Ma sì, la Francia, nazione europea a pieno titolo e diritto, sì quella Francia figlia della beneamata Rivoluzione “libertè, egalitè, fraternitè”, avrebbe tramato per far accendere ed esplodere il germe della “rivolta” anti-Gheddafi perchè, guarda guarda, gelosa dei successi sul “bel suol di Tripoli” dei successi in campo economico e politico, dei propri odiati vicini di casa italiani. E a dirlo stavolta non sono più circoli marginali della “destra terminale”, ma autorevoli quotidiani quali “Libero” o testate RAI quali “Radio Londra” del buon Ferrara. Il tutto all’insegna della formula: i costi militari si dividono tra Francia, Gran Bretagna, Italia, Usa e quant’altri, ma ai francesi il petrolio, agli italiani gli immigrati. Certo, nessuno di noi è così ingenuamente ottuso da credere che solo di Francia o Inghilterra si tratti, dietro a tutto ciò sta la lapalissiana volontà di ricondurre la Libia ed il contesto geoeconomico maghrebino e vicino-orientale sotto l’ombrello delle Sette Sorelle, al di là di qualunque tentazione o deviazione di sorta. Intanto una delle parti maggiormente interessate, cioè l’Italia, dopo il colpaccio della conclusione di una serie di accordi conclusi simultaneamente in modo veramente vantaggioso, sembra invece aver riscoperto una misteriosa aspirazione al masochismo da studio psicanalitico, attraverso le inspiegabili contorsioni del suo attuale capo di governo, Silvio Berlusconi. Dopo aver concluso accordi su accordi, dopo aver giurato eterna amicizia e fedeltà al leader libico ed al suo popolo, coronando tali dichiarazioni di intento con plateali baciamani, d’improvviso, al primo sentore di problemi per Muammar Gheddafi, il Nostro prende e ti cambia rotta, gettandosi tra le braccia dell’intraprendente Sarkò e della Perfida Albione, in barba ad accordi, promesse e baciamani vari. Il territorio nazionale intero, viene d’improvviso trasformato in una gigantesca  portaerei, oltre ai mezzi anglo-francesi ed americani, partecipano i nostri, ma, e qui viene fuori tutto il peggior spirito italico, non combattono a detta del Berlusca. “Partecipano”, “fiancheggiano”, “supportano”, ma loro no, non combattono. Anzi, in un improvviso ed inusitato attacco di buonismo, il nostro novello Scipione l’Africano, si lascia sfuggire delle tenere parole di solidarietà verso lo strabombardato leader libico. Fa addirittura la voce grossa e riesce ad ottenere che il comando di questa bravata passi dal trio Francia-Gran Bretagna-USA, sotto il cappello di paglia ONU, alla NATO, cioè ad un cappello a direzione unicamente USA. Eppure, ci sarebbe veramente voluto poco. L’Italia aveva tutto il più che legittimo diritto a far valere i propri interessi in quella regione. Bastava tenere una linea di astensione, non votare alcuna risoluzione ONU,  riproporre la legittimità dell’astensione dall’intervenire negli altrui affari, specie in quelli dei propri vicini di casa e il gioco era fatto. Germania, Russia, Cina, Brasile, India ed Italia, nonché le riserve politiche dei paesi arabi, avrebbero costituito un importante inizio di contraltare all’arroganza ed alla protervia dell’asse anglo-francese a regia USA. Ma così non è stato. L’antica aspirazione a fare da stato vassallo, la mai totalmente repressa aspirazione a vivere da pidocchi, lo strisciante archetipo dell’8 Settembre, sono riemersi in tutta la loro possenza. Con questa occasione, la Sinistra ha poi sancito la propria definitiva sparizione dalla scena dell’Antagonismo, relegata com’è al ruolo di battistrada per i più melensi ed inutili buonismi a buon mercato, mentre, dall’altra parte, le uscite di un Ferrara o di quotidiani alla “Libero”, non possono sminuire la gravità delle improvvide scelte di questo governo. Il Colonnello. Qualcuno ha creduto che bastava fomentare una rivolta e sarebbe finto. Magari in esilio o in ritiro come i Mubarak o i Ben Alì di turno. Invece è accaduto l’imprevedibile. Il Regime sembra esser molto più saldo di quello che, gli embedded media occidentali andavano cianciando. Quella anglo-francese non sarà una passeggiata, perché, prima o poi si dovrà scendere dagli aerei e, piedi in terra, affrontare il rais ed i suoi fedeli sul loro terreno, ovvero un paese grande dieci-quindici volte il nostro, desertico e la cui popolazione viene in queste ore riarmata in vista di una generale guerra di popolo. E non vale portare l’esempio di Bengasi e della regione Cirenaica che, del puzzle libico rappresentano solo un tassello, e molto parziale per giunta, visto che in Tripolitania si respira ben altra aria. Il rischio Iraq è forte. Il rischio di veder riproporsi un’altra immane tragedia sulle sponde del Mediterraneo, davanti a casa nostra, è più che mai reale. Una immane guerra civile e di occupazione, accompagnata dai tentativi di pilotare le varie fazioni, integralisti, filo occidentali, etc. da parte dei soliti fin troppo noti, mentre nella confusione qualcuno potrebbe approfittarne e realizzare un bel Bingo, accaparrando per sé definitivamente le risorse energetiche libiche. Non solo. Il Colonnello non ha mai né rinnegato né scordato i propri trascorsi di grande sponsor di movimenti rivoluzionari di mezzo mondo, dall’IRA all’ETA sino ai combattenti palestinesi di Abu Nidal ed altri ancora, potendo sempre giocare questa carta ed infliggere dolorose sorprese ad un occidente distratto e irresponsabile. Su tutto questo, grava l’ombra della vergogna di chi ha rinnegato accordi e baciamani  per garantirsi una improbabile sopravvivenza politica, rimanendo in silenzio di fronte all’ennesimo atto di protervia. A questo genere di personaggi bisognerebbe suggerire una definitiva uscita di scena dalla vita politica, visto che in tanti anni di belle parole hanno concretizzato molto poco. Non solo. L’intero campionario della partitocrazia italica ha mostrato una sostanziale incapacità nel gestire la nuova ondata di invasori provenienti dalle coste del Nord Africa. La lega, sino a poco tempo fa, avvezza a toni da dura e pura ora invece si fa garante del trasferimento in tutte le regioni italiane dei cosiddetti “profughi” per i quali, anzi, il ministro Frattini (di area berlusconiana) ha proposto una generosa donazione di Euro 1.500 cada uno, direttamente pagata con i soldi del contribuente, alla faccia del tanto strombazzato “non metteremo mai le mani in tasca agli italiani”. E così, alla faccia di belle parole, slogan e sviolinate umanitarie varie, si sta consumando l’ennesima vergognosa , tragica sceneggiata sulle sponde del Mediterraneo. Questa volta però, avendo l’Europa, come non mai, dimostrato la propria definitiva inconsistenza e nullità politica, sarebbe meglio avviare un salutare resetta mento di tutte quelle idee, aspirazioni, elaborate all’insegna dell’illusione di una geopolitica europea o, addirittura, euro asiatica. Nuove e più realistiche prospettive possono invece provenire da quelle alleanze che potremmo definire “a geometria variabile”, come quella realizzata in sede ONU da Cina, India, Brasile, Germania, Russia, per quanto attiene la risoluzione sull’aggressione alla Libia. Altri paesi come Venezuela, Iran, Cuba, Corea del Nord ed altri ancora, potrebbero costituire il perno per futuri assetti geostrategici di questo tipo, mentre l’Europa rimarrà sempre più un’espressione geografica, vittima di litigi e contrasti di tipo condominiale, intenta solo a bruciare le proprie ultime risorse economiche con solidarismi d’accatto. Per quanto riguarda la situazione interna, invece, sarebbe proprio il caso che i cittadini si rendessero conto della prova di totale inanità offerta dall’attuale governo di centro-destra. Chi ancora continua a credere nelle capacità di costoro con gli ultimi fatti, si dovrebbe ampiamente ricredere e se non lo fa è solo per il solito italico, spirito di cadrega che sembra aver colto tutti, ma proprio tutti, inclusi i duri e puri di una volta. E qui viene il bello di tutta la questione. Lamentarsi, far notare certe cose, potrebbe non servire a nulla, se non corredato da una decisa volontà popolare, da un robusto moto di opinione pubblica che dia corpo a certe giuste e legittime rivendicazioni. Altrimenti, Americani, francesi, inglesi e compagnia bella continueranno a far più e peggio di quanto fanno adesso. Gli immigrati ci invaderanno e da qui a poco gli italiani scompariranno o saranno ridotti ad espressione minoritaria, in un paese dalla vaga e confusa identità. Spese militari folli ed ospitalità grandiose ci andranno via via immiserendo. Tra i protagonisti della grande competizione tra blocchi geopolitici e geoeconomici non ci saranno più gli europei. Ma tutto questo potrebbe essere  anche la giusta nemesi riservata a chi, conscio di quanto stava accadendo, non ha avuto voglia di far nulla per cambiare. Ogni popolo ha quanto si merita e su questo non ci piove, con buona pace di belle parole, slogan, intenzioni e quant’altro a cui non faccia seguito alcunché.  

L’eredità di Chavez

 

A detta di taluni, la morte del colonnello-presidente Chavez potrebbe riaprire la corsa alla conquista delle leve del potere in Venezuela, rispalancando le porte a coloro che nel corso dell’intero ciclo della presidenza Chavez , nonostante i ripetuti tentativi, ne erano rimasti fuori, schiacciati dalla carismatica personalità di quest’ultimo. A conforto di questa aspirazione, l’impressione che Maduro, il vice di Chavez, (ora delegato alla sua successione), non possedendo la stessa, carismatica personalità, non sia in grado di reggere il confronto con l’illustre predecessore e sia, perciò stesso, destinato a risultare perdente, lasciando finalmente spazio all’opposizione “democratica”. Il tutto, supportato dal tam tam mediatico internazionale, che vorrebbe ridurre l’esperienza della presidenza Chavez ad una particolare contingenza storica, unicamente frutto della forte personalità di quest’ultimo, e perciò stesso non ripetibile perché, tra l’altro, relegata a vecchi ed inattuali schemi ideologici di matrice marxista. Un dittatore, un “caudillo” sudamericano, dunque, la cui scomparsa dovrebbe riportare il Venezuela a quella tanto agognata e vilipesa democrazia. Ma, ad una analisi più attenta, le cose non stanno proprio così, anzi. Cominciamo con il dire che, la presidenza Chavez rappresenta un vero e proprio momento di rottura con una lunga tradizione latino americana, che ha visto l’affermazione al potere di movimenti rivoluzionari, solamente a seguito di atti di forza, con il conseguente corollario di violenze. Chavez è stato regolarmente eletto, grazie ad una massiccia affluenza popolare ed ha esercitato il suo mandato senza ricorrere a quei brutali metodi dittatoriali e repressivi, tanto comuni nei paesi del Terzo Mondo, lasciando intatte le fondamentali libertà democratiche, come dimostrato dalla presenza di una opposizione la cui virulenza è determinata dalla coincidenza degli interessi delle locali oligarchie, con i centri di potere finanziario internazionali. Ben lungi dall’essere espressione di un soffocante ed inquadrato regime dittatoriale, il Venezuela è un paese che vede tuttora convivere le fondamentali libertà economiche e di intrapresa, con una diffusa miseria e con una endemica violenza (specialmente nelle grandi metropoli). Una delle novità dello chavismo sta nell’essere invece andato a colpire là dove in America Latina (e non solo) risulta più difficile: ovverosia i privilegi dei più abbienti, senza però scadere nel clima di illegalità e prevaricazione, che ha invece caratterizzato altre consimili esperienze. In un contesto quale quello latino americano e terzo mondista, in cui la concentrazione della ricchezza di un paese è, per tradizione socio economica, prerogativa di poche ed adunche mani, Chavez ha iniziato un graduale, ma deciso processo di redistribuzione della ricchezza, sia attraverso statalizzazioni e nazionalizzazioni mirate (quali quelle realizzate nei riguardi delle imprese petrolifere, su cui avevano gettato ingorde occhiatacce le lobby USA, sic!) che attraverso un fitto programma di alfabetizzazioni attraverso le cosiddette “misiones”, che rendendo la Sanità un bene fruibile anche per i meno abbienti. L’altra grande novità, sta nell’ impostazione politica che caratterizza, in modo del tutto peculiare, l’esperienza chavista, rispetto ad altre consimilari. Pur essendo sotto gli occhi di tutti il deciso sostegno cubano all’azione chavista, va sottolineata la radicale differenza tra i due regimi, per cui il primo è ancora legato ufficialmente all’ortodossia marxista leninista, mentre il secondo si rifà ad un modello di socialismo patriottico bolivariano, coniugato però in un’ottica post moderna, di per sé lontano dai vecchi e desueti schematismi ideologici che avvelenano tuttora il clima politico nostrano. Conseguentemente a questa impostazione, la politica estera chavista si è orientata in direzione di un nuovo assetto geopolitico e geoeconomico, tendente a realizzare un asse che, accomunando in varie tonalità e gradi le varie nazioni del cono sud dell’America Latina(da Correa a Morales, dalla Kirchner allo stesso Lula, sic!), si riallaccia alle istanze dell’Iran khomeinista, (oggidì sempre più vicino alla totale autonomia energetica, grazie al tanto osteggiato programma di sviluppo dell’energia nucleare), della Siria di Assad, della ahimè defunta Jamairyah Socialista Libica, sino ad intersecarsi alle istanze della Russia di Putin ed a quelle cinesi. In questo tentativo di modifica degli assetti degli equilibri mondiali, Chavez rappresenta colui che ha dato il “la” in direzione di un mutamento, indirizzando il continente latino americano verso una forma di terzaforzismo politico, la cui origine risale alle istanze bolivariste, che stanno alla base di tutti quei sommovimenti nel continente latino-americano animate dall’indipendentismo e dall’antimperialismo. In quest’ottica, Chavez risulta esser stato il primo statista di grande respiro, in grado di ridare un senso ed una dignità al concetto di nazione, troppo spesso in America Latina vilipeso e svilito da anni di umiliante e prezzolato servaggio ad innominabili interessi stranieri. L’esempio di Chavez, ha fatto un po’ da traino all’intero continente latino americano, slanciatosi in una quanto mai massiccia e rapida crescita economica, i cui contorni e le cui possibilità di tenuta, anche se dubbi, costituiscono, comunque sia, un inequivocabile segnale di cambiamento di rotta di fronte all’arroganza dei centri di potere economici e finanziari globali. Come abbiamo detto, bolivarismo, elementi di socialismo marxista e populismo peronista, nell’esperienza chavista si fondono in una originale amalgama, che permette di condurre l’esperienza politica ben oltre le ristrette pastoie della narrazione ideologica novecentesca, nel mare magnum della Post Modernità, al di là della Destra e della Sinistra o del Fascismo e del Marxismo, categorie politiche queste, divenute insufficienti  per affrontare le sfide della Globalizzazione. Va ribadito che quel nazionalismo bolivariano unito all’idea di un socialismo eterodosso, di cui abbiamo fin qui parlato, ha marcato di sé tutte quelle esperienze che, nel corso del secolo passato, hanno cercato di smarcarsi dai rigori e dai limiti categoriali, rappresentati dal binomio capitalismo-marxismo (ingessatosi sin dalla fine del 19° secolo in una serie di aporie che ne hanno resa necessaria una ampia rivisitazione, sia da parte dello stesso Engels che, successivamente, da parte di Lenin, di Sorel e di altri ancora, sic!). Esperienze che portano nomi come Sandino, Peron, Banzer, Che Guevara, Nkrumah, Sankara, Jawarlahal Nehru, Nasser, Muammar Gheddafi, Saddam Hussein, Assad e tanti altri che ci ricordano che, anche di fronte alle condizioni più avverse, anche di fronte agli scenari più sfavorevoli, è la titanica volontà dell’uomo a farla da padrone. Quella volontà che fa dell’uomo l’espressione di un’idea incarnata ed al contempo, fa dell’idea, il frutto di quella stessa irrazionale volontà di potenza, di superamento dei limiti, della cui vita costituisce la sfida primaria. Chavez ci ha così depositato il lascito di una sfida che, nonostante i naturali alti e bassi delle umane vicende, è ben lungi dall’esaurirsi, anzi. In Europa come nel resto del mondo, i segnali di legittima insofferenza verso la dittatura dei poteri forti della finanza, ricoperta da una disgustosa patina di “politically correct”, vanno moltiplicandosi, ben oltre le vecchie e desuete categorie. Starà dunque ai più capaci sapersi appropriare ed interpretare tali istanze.

Nelson Mandela: il tradimento della memoria

 

I funerali del leader sudafricano Mandela, hanno assurto la valenza di un vero e proprio rito collettivo per l’intero orbe terracqueo. Leader e personalità di tutto il mondo, si sono recati a rendere omaggio alla salma dell’uomo politico. Comizi, manifestazioni canore, danze tribali, hanno accompagnato il susseguirsi spasmodico di cerimonie pubbliche, tutte in memoria della figura del padre del Sud Africa moderno, in quest’occasione assurta a vero e proprio modello su cui ispirare le proprie condotte pubbliche e private. Certo, a voler essere un po’ precisi, anche sul leader sudafricano se ne potrebbero dir tante. L’odierno Sudafrica, al di là delle belle parole, non è sostanzialmente riuscito a far migliorare di molto le condizioni di vita della maggioranza nera. Insicurezza sociale, una diffusa criminalità ed una generalizzata povertà, caratterizzano ad oggi la vita della società sudafricana. Ed anche qui, come nel resto delle realtà del Terzo Mondo, si è creduto di poter applicare indistintamente a tutti i popoli, il medesimo modello di sviluppo, cioè quello capitalista occidentale, con il risultato che interi settori dell’economia sono ancora saldamente nelle mani della minoranza anglo afrikaner, mentre per il resto della popolazione la vita si fa più dura. Anche qui come altrove, sarebbe necessario incentivare agricoltura ed artigianato, secondo parametri cooperativistici e di micro proprietà diffuse, accompagnati dall’erogazione di forme di micro credito solidale. Sicuramente le varie popolazioni africane non bianche, caratterizzate dalla predominanza di una cultura per lo più contadina e tribale, da simili provvedimenti non potrebbero non trarre che enormi vantaggi, senza per altro snaturare o tradire la propria originaria vocazione culturale. Va da sé che, la responsabilità dell’attuale scenario sudafricano non può essere attribuita in toto alla gestione Mandela, quanto piuttosto a quella giungla di suoi sodali di partito che, da molto tempo oramai, detengono il potere politico nel paese africano. D’altro canto, a Mandela non si può non riconoscere la statura di autentico leader, in grado di tenere unito il puzzle multi etnico sudafricano attorno alla propria figura, senza usare alcuna forma di coercizione o violenza, anzi. In questo, lo spirito animato da un forte realismo e da un intento pacificatore, lo si evince sin dalle prime interviste concesse all’inizio degli anni ’60, in cui già veniva tratteggiata l’idea di un Sudafrica aperto a tutti. Il percorso di Mandela stona dunque, con quello di tutta l’immensa pletora di leader e leaderini post colonialisti africani, generalmente intenti a mettere in minoranza, se non ad eliminare moralmente e fisicamente intere etnie, tribù o movimenti d’opposizione, finendo poi, molto spesso, con l’essere a loro volta, eliminati. Invece per il vecchio leader sudafricano, così non è andata, anzi. E’ stato l’unico in Africa (e probabilmente al mondo) a dare un concreto esempio della propria reale volontà di pacificazione, promuovendo il “confessing day”, durante il quale tutti i protagonisti di qualsiasi fazione, degli “anni di piombo” sudafricani potevano pubblicamente emendarsi, confessando i propri crimini. Una cosa che, nella italica “patria del diritto” non si è mai vista, visto che da noi stragi ed altre nefandezze sono tuttora coperte da quell’infamia giuridica chiamata “segreto di stato”. A parte qualche simpatia di troppo, nei riguardi del multimiliardario buonista Bono Vox degli U2 e della umorale Naomi Campbell, non possiamo non riconoscere la grandezza del leader Nelson Mandela. In tutto questo, però, ci chiediamo: cosa c’entra Obama con Mandela? Cosa c’entrano l’effluvio di belle parole e lo sdilinquimento verbale, cosa c’entra chi usualmente persegue e condivide politiche di aggressione verso altri popoli, attraverso bombardamenti e morti innocenti, cosa c’entra chi supporta attivamente il modello neoliberista occidentale, incentrato sull’usura e lo sfruttamento indiscriminato e chi, invece, del raggiungimento di una pace equa e duratura per tutti, avversa ad ogni forma di odioso sfruttamento, usura e schiavismo, ha fatto lo scopo ultimo della propria vita, pagando anche con anni di duro carcere? Proprio nulla. O forse sì. Già perché, se non ve ne siete ancora accorti, anche Obama ha la pelle scura, al pari di Nelson Mandela. E tanto basta, per l’informazione “embedded” e buonista. Obama è nero, dunque è “buono”, a prescindere. E grazie a questi ragionamenti da imbecilli, il mondo sta cadendo sotto la rete di una insidiosa dittatura globale. Si stampa denaro dal nulla e lo si presta a tassi d’usura all’ignaro cittadino e poi gli si parla di “debito”. Si eliminano barriere, tutele e difese, cosicchè al sempre più sfigato cittadino, possano portar via tutto, casa, lavoro e salute,  senza che possa dir nulla e poi gli si parla di  “liberismo economico”.  Si invadono e si bombardano nazioni sovrane, si spende denaro pubblico per arricchire le industrie di armi e poi si parla di insegnare la “democrazia”. Si distrugge l’ambiente ed avvelena irrimediabilmente l’ecosistema e poi si parla di “sviluppo”. E la triste vicenda della memoria di un leader carismatico, disgustosamente manipolata al fine di portare acqua al mulino di usurai e sfruttatori di ogni risma e sorta, rappresenta la triste parabola di una società e di un mondo sull’orlo del baratro, fondato, come non mai, sul culto della superficialità e dell’apparenza.

The Siryan connection

 

L’immensa tragedia del Vicino Oriente sembra non finire mai. Dall’occupazione manu militari del canale di Suez, all’infinito conflitto israelo-palestinese, dalla guerra civile in Libano all’invasione dell’Iraq, dalle cosiddette “primavere arabe”, sino al più recente, tragico e sanguinoso conflitto in Siria. Il tutto contornato dal solito ed ossequioso starnazzare di ochette al servizio ora dell’uno, ora dell’altro padrone del momento. Prima, stante l’onnipresenza ideologica del marxismo quale unica chiave di lettura, l’intera complessa questione era percepita in un’ottica puramente progressista, classista, dimostratasi con il tempo assolutamente insufficiente. La fine dell’Unione Sovietica, accanto alla virulenta ascesa dell’integralismo islamico come inseparabile paredro dei nazionalismi laici ed anticolonialisti di prima maniera (quali quelli alla Nasser, per intenderci), gettano ancor più confusione in un’opinione pubblica occidentale sempre più confusa, lasciando infine il campo ad una vergognosa virata a 360° in un senso smaccatamente filo americano e filo sionista, ricoperto da una disgustosa ed ipocrita melassa di buonismo da due lire. E così le cosiddette “primavere arabe”, vengono viste nell’ottica di “giuste rivolte” condotte da immaginari ceti medi “open mind”, liberal progressisti e buonisti, quando invece costoro altri non rappresentano che una esigua minoranza all’interno di uno schieramento di tutt’altro tipo. E così la dismissione forzata di intere strutture statuali, come nel caso della Libia, attraverso rivolte etero dirette, magari con l’aiutino di bombardamenti “umanitari”, l’omicidio mirato dei loro legittimi leader, come nel caso libico del Presidente Gheddafi, vengono sempre e comunque codinamente interpretate, alla luce della rivolta spontanea, animata da nobili istanze di libertà. In Siria ora, sembra ripetersi il solito copione fatto di latrati buonisti di condanna verso il cattivaccio di turno, ora nei panni del presidente siriano Bashar El Assad e di notizie ed immagini di massacri, artatamente manipolati e riciclati, per far nuovamente fremere di indignazione la pubblica opinione occidentale ed avallare così qualche nuovo intervento militare “umanitario”. Ma, stavolta, le cose non sono andate nel modo previsto. Il veto di Russia e Cina, più le pressioni iraniane, hanno fermato la mano a quanti, italiani inclusi, si stavano già muovendo, a livello internazionale, in direzione della proclamazione di una “no fly zone” sopra i cieli siriani. E qui viene il bello. Come per incanto, un quanto mai sprovveduto regista d’oltreoceano di origini, guarda un po’, israelo-americane, fa uscire “The muslims innocence”, una pellicola offensiva nei riguardi del Profeta, senza che alcuno, nel paese del Grande Fratello, faccia alcunché per impedirlo. Contemporaneamente in quel di Francia, terra di sponsorizzatori di “primavere” arabo-qaediste, riprende la “strana” pratica delle vignette satiriche contro il Profeta. Il mondo islamico si infiamma. Rivolte, incendi, botte da orbi, da Tunisi ad Islamabad, ma anche le tardive prese di distanza delle autorità USA ed un insistente e tignoso sospetto che via via, va facendosi  strada. Qualche giorno fa, ecco che al “Palazzaccio” di vetro delle Nazioni Unite, quel campioncino di democratica tolleranza che risponde al nome dell’attuale premier israeliano “Bibi” Nethanyahu, si presta ad un inquietante show. Mostrando disegnini da asilo infantile, annuncia con fare roboante l’imminente pericolo della realizzazione dell’arma atomica iraniana, paventando il salvifico intervento israeliano sui malcapitati di turno, cioè gli iraniani. E qui il cerchio si chiude. E’ chiaro che l’Occidente capitalista e mondialista sta cercando il “casus belli” per dare il colpo finale alla complessa manovra di dismissione, rottamazione e riciclaggio in senso mondialista dei paesi arabi che, iniziato con l’Iraq, passato attraverso la “primavera” araba, dovrebbe trovare in Siria il suo logico punto d’arrivo, prima del colpaccio finale contro l’Iran. Il fatto è che la crisi economica mondiale, ha accelerato e messo in ancor più rilievo la necessità degli USA e dei poteri forti di cui questi sono espressione, di accaparrarsi le principali fonti energetiche del pianeta, cercando quindi di “blindare” quelle regioni il cui posizionamento geo economico riveste un ruolo di primaria importanza. L’Algeria, con le sue considerevoli riserve di gas e petrolio, è da molto tempo “blindata” da un regime militare filo-occidentale. La Libia, i cui giacimenti fanno da sempre gola a non pochi, è ora stata normalizzata a colpi di bombardamenti umanitari, sotto un governo-fantoccio smaccatamente filo americano. L’Egitto, attraversato dal canale di Suez, un vero e proprio ponte tra Africa, Asia ed Oceano Indiano, ha da poco “rinnovato” la propria classe politica grazie a gattopardesche manovre che hanno fatto della principale forza d’opposizione all’agonizzante regime di Mubarak, un partito di governo obbligato a compromessi d’ogni tipo. Senza contare l’Iraq, sulle cui considerevoli riserve petrolifere han messo ora le mani i soliti noti, dopo saccheggi e massacri senza ritegno. Mancano all’appello la Siria, dotata di riserve di petrolio, gas e fosfati  niente male e l’Iran, un altro vero e proprio mare di petrolio e materie prime. Ambedue i contesti, se pur differenti per dimensioni geografiche e situazione politica interna, rappresentano un vero e proprio scoglio sulla strada delle mire dei soliti noti. Al di là dei veti di Russia e Cina, in uno scenario di aggressione militare, Siria ed Iran potrebbero aprire svariati fronti di guerra in grado di destabilizzare ed indebolire qualsiasi intento bellicoso occidentale. A cominciare dal Libano, con le milizie filo iraniane Hizbollah, passando attraverso tutti quei paesi islamici in cui è presente una componente sciita, il rischio per gli Usa ed i suoi alleati arabi, quali Arabia Saudita, Qatar o Pakistan, di dover fronteggiare una situazione di generale e grave instabilità, sarebbe troppo elevato. Va poi considerato che l’estensione del territorio iraniano, trasformerebbe qualunque azione militare in una vera e propria catastrofe, facendo impaludare in una situazione senza uscita uomini, mezzi e quant’altro. Certo, la posta in gioco è troppo alta e qualsiasi tentativo vale la pena. Anche perché il vero fronte su cui gli Usa si giocano tutto, è quello del Pacifico. Qui il contenimento della spinta geo-economica cinese, oltreché quella del Sol Levante e delle altre Tigri del Sud Est asiatico, oltre alle crescenti pressioni della Russia per il controllo delle rotte che, a causa del progressivo scioglimento della calotta polare, sempre più interesseranno lo stretto di Bering, rappresentano la vera sfida per il futuro del primato planetario degli States. Per questo l’assicurarsi ad ogni costo il controllo delle fonti di approvvigionamento energetico del Vicino Oriente lascerebbe le mani libere a Stati Uniti, Sette Sorelle, e via discorrendo. Possiamo dunque delineare brevemente il quadro geostrategico ed economico, che fa da sfondo all’intera azione del Mondialismo “made in USA”. Una specie di operazione “ a tenaglia”, volta ad appropriarsi anzitutto delle principali vie di comunicazione tra grandi direttrici geo economiche, a cominciare dalla martoriata regione sud-balcanica (con particolare attenzione a Kossovo, Macedonia, Albania e Serbia), primo tassello per una più fluida interconnessione nelle direttrici Est-Ovest. Secondo poi, il tentativo di rafforzare la propria influenza, destabilizzando le regioni caucasiche, sia attraverso la presenza di basi militari in alcuni stati della regione centro asiatica ( con la scusa del contrasto all’ “integralismo islamico”) che attraverso il rafforzamento del baluardo turco a controllo dello Stretto dei Dardanelli, tramite anche il supporto alle istanze delle popolazioni turcofone del centro-Asia, in funzione della creazione di una “Grande Turchia” filo americana. In terzo luogo, sta l’accaparramento delle fonti di approvvigionamento energetico dell’intero Vicino Oriente, partendo dalla presa dell’Iraq e del traballante Afghanistan, passando per  Algeria, Libia, Egitto (senza contare gli stati della penisola arabica e l’ambiguo Pakistan) sino alla Siria. Il tanto auspicato “colpaccio” all’Iran, poi, potrebbe finalmente lasciare le mani libere ad Israele per realizzare il tanto agognato “Eretz Israel/Grande Israele”, avente come capitale una Gerusalemme definitivamente spurgata da una presenza palestinese che, in tal caso, andrebbe via via riducendosi a quella di un inconsistente stato-fantoccio, pesantemente condizionato dalla presenza deglii aiuti economici esterni di Arabia Saudita, Egitto, ma anche degli USA e compagnia bella ( sic!). Uno scenario che vedrebbe sicuramente un’Europa sempre più subalterna e sottoposta al ricatto energetico e, per ciò stesso, più povera ed instabile. Quanto sin qui detto rappresenta una proiezione in movimento, i cui esiti non possono esser dati, comunque, per scontati. La presenza di Russia, Cina ed India (oltre a quella di Venezuela, Corea del Nord ed altri paesi ancora) che con Siria ed Iran vantano relazioni politiche ed economiche di lunga data e che, comunque, al di là di questa considerazione, non hanno nessuna voglia di farsi sfuggire le nuove occasioni, che lo scenario globalizzato va loro offrendo. E poi, in fondo in fondo, loro, le masse, le genti “occidentali” che stanno iniziando a manifestare sempre più insofferenza per tasse, tagli, spese e guerre immotivate. New York, Madrid, Londra, Lisbona, Atene e tante altre città, cominciano ad essere sempre più attraversate da una forma di malessere trasversale, che va oltre le esistenti categorie del politico. Ma, a questo malessere bisogna iniziare a dare risposte concrete e la “Siryan connection” potrebbe proprio offrirci uno spunto per iniziare a sparigliare i piani del mondialismo. Non vediamo perché, di processi internazionali per crimini di guerra o violazioni dei diritti umani se ne debbano indire solo per gli sfigati del Burundi o della ex Jugoslavia. Anche perché, da troppo tempo si va parlando di una seria riforma dell’ONU, apparentemente animata da spirito egualitario e da volontà di riscatto di tutti i popoli, in verità una specie di carrozzone a (mala) gestione anglo-americana, il cui veto blocca tutto e tutti. Un bel processo per USA, Gran Bretagna e Francia per le illegali intromissioni nelle faccende di stati liberi e sovrani come la Libia, o adesso, la Siria. O una seria inchiesta sulle rappresaglie israeliane a discapito della popolazione palestinese e sul perché dopo più di cinquant’anni di richieste, la Palestina non possa ad oggi essere considerata uno Stato sovrano a tutti gli effetti. Poi magari, si potrebbe passare a processare le grandi istituzioni finanziarie internazionali, FMI in primis, per usura, truffa, malversazione e riciclaggio. Ma questa è tutta un’altra storia…

Gli indignados della Digos: anatomia di un fallimento

 

Gli eventi di Roma di sabato 15 Ottobre oltreché lasciare naturalmente sgomenti per le immagini di una violenza stupida e cieca rivolta contro tutti e tutto, determinano un senso di impotenza e pessimismo alla base del quale non può non esserci un’amara considerazione sulla peculiarità del “sistema Italia”. Il 15 Ottobre ha visto svolgersi manifestazioni contro i poteri forti della finanza in mezzo mondo. Tokyo, Taipei, Seul, New York, Santiago ed altre città ancora, hanno ospitato manifestazioni il cui normale svolgimento, ha permesso di far concentrare l’attenzione dei media sulla considerazione di un modello le cui gravi pecche stanno oramai sotto gli occhi di tutti. Liberismo selvaggio uguale miseria, disoccupazione, sperequazione, alienazione, inquinamento, mafie, morte. Tutto questo e più, gridano le migliaia di “indignados” riversatisi nelle piazze di mezzo mondo. Grida il cui eco è giunto anche qui da noi, distorto però dall’ottusità e dalla mala fede di persone, il cui scopo sembra invece esser opposto a quelle tanto propalate buone intenzioni. L’urlo delle sirene, il caos, le vetrine rotte, le macchine incendiate, le botte, i feriti, l’aspro odore dei gas lacrimogeni. Inutile prorompere in latrati di buonismo, in quanto mai tardivi ed ipocriti “non ce lo aspettavamo”. Inutili e vani i distinguo: l’iniziativa del comitato 15 Ottobre e dei suoi mentori, è partita bacata sin dai suoi esordi. E poi le tante, troppe avvisaglie, avrebbero dovuto mettere sul chi va là più di un organizzatore o di un investigatore, più intenti ad una spettacolarizzazione mediatica dell’evento, tramite l’organizzazione di scenografie colorate per il corteo o la vistosa blindatura del centro storico e la disattenzione verso le altre zone, pagata con quattro ore di guerriglia a S. Giovanni. Il fatto è che questa iniziativa, è già di per sé decollata all’insegna di una mala fede ed un’ipocrisia vomitevoli. Dicevano di essere aperti, tolleranti, in quanto espressione del disagio della società intera, al di fuori ed al di là di qualunque logica partitica. Ed invece hanno dimostrato di essere i soliti spiriti codini, ipocriti ed intolleranti, cacciando, offendendo e mettendo all’indice chiunque non eseguisse disgustosi auto da fè o non rispondesse a preconfezionate logiche di scuderia. Proprio come accaduto ad alcuni amici dell’associazione Alba Mediterranea, recatisi a conversare di signoraggio con i giovani in assemblea permanente e poi invitati senza tante storie, ad allontanarsi perché il tema del signoraggio era, a loro detta, “fascista”, esigendo inoltre una pubblica presa di posizione di antifascismo. O come accaduto al rappresentante del movimento “democrazia diretta”, recatosi al corteo assieme ai propri amici, ed allontanato bruscamente da alcuni “black block”, poiché lì lo spazio per altre voci non ci doveva essere, visto che tutto era già preordinato e pianificato. Ben lontani da quell’idea di democrazia diretta che avrebbe dovuto sovraintendere l’intera iniziativa, lor signori hanno saccheggiato, distrutto, violato, i beni di quel popolo di cui dicevano tanto di essere i paladini. Ed a quelli che, tra le fila del corteo hanno, in buona fede, cercato di opporsi allo scempio sono state riservate sprangate, bottigliate e dita mutilate, come nel caso del malcapitato rappresentante di SEL. Senza poi parlare delle profanazioni degli edifici e delle immagini di culto, quanto mai squallide ed inopportune. Per arrivare a capire quanto accaduto, non ci si può limitare però, ad una sterile giaculatoria sulla violenza compiuta od, al solito e collaudato copione del rimpallo di accuse governo-opposizione a cui siamo quotidianamente abituati.  Bisogna andare più in profondità, alla radice di un problema che affonda le proprie radici nella vicenda delle ideologie occidentali. La crisi del marxismo, seguita alla caduta del Muro di Berlino, ha inevitabilmente trasformato il volto della sinistra. Quella che in genere, rappresentava l’incrollabile certezza in un sistema ideologico che si era dato la parvenza di vera e propria scienza, il marxismo, corredata da una serie di inconfutabili assiomi e corollari, con la caduta dell’Unione Sovietica, perde tale natura per acquisire invece quella di una “doxa”, opinione corrente i cui unici ed autorizzati interpreti sono quei circoli mediatici che si attengono scrupolosamente alle parole d’ordine del più farisaico e meno ingombrante “politically correct”. La sinistra si fa pertanto metodologia e non più indirizzo dogmatico. La metodologia, in quanto tale, attiene unicamente ad una sfera nominalistica, che può benissimo esulare da qualsiasi altro comportamento singolo. E così si può essere buonisti, solidaristi, democratici a parole, salvo poi spaccare a mazzate la testa di chi non la pensa come te. Non solo. La trasformazione dell’ideologia in “doxa” si fa portatrice di una manifesta incapacità propositiva. Al di fuori di certe vecchie ed arrugginite parole d’ordine, la proposta è del tutto assente. Il più degli stessi osannati autori di certo antagonismo, si limitano alla minuziosa analisi e descrizione fenomenologica senza sbocchi propositivi. La stessa lotta di classe, è oramai divenuta un obsoleto vessillo, perché ancorato ad una concezione inattuale della realtà. La suddivisione per classi è lascito di un sapere ancorato a paradigmi sette-ottocenteschi che in tutta una serie di pensatori a partire da Lamarck, Linneo sino a Comte ed oltre, era incentrata sulla descrizione e l’analisi di un determinato fenomeno in grado di contemperare in sé proposta, opposizione e soluzione, grazie al massiccio supporto del pensiero hegeliano. Il fenomeno in oggetto, dunque, slegato da una visione d’insieme, finiva con l’assumere quella valenza di “onnipotens scientia” che gli conferiva un’illusoria aura di infallibilità. La crisi novecentesca della Modernità porta all’idea di una forma-pensiero in grado di adattarsi ad uno scenario onnicomprensivo, quale quello costituito dalla fase apicale della globalizzazione. Da una parte la scienza relativistica con Heisemberg ed Einstein, dall’altra il pensiero filosofico attraverso il pensiero vitalista dei Dilthey e degli Heidegger, inizia a concepire la realtà sotto un’altra prospettiva, all’insegna di un’immediatezza slegata alla precedente rigidità classificatoria, sino ad arrivare a parlare in tempi recenti, di neo parmenidismo, intendendosi con tale termine, una concezione olistica, d’assieme della realtà. Un pensiero debole, inteso nell’accezione più vattiminana del termine, quale entità elastica e contrapponibile alle maglie della globalizzazione, sembra essere la risposta più attuale alla “krisis” occidentale. Ma certe persone di queste problematiche sembrano non interessarsene affatto. Anzi. In virtù di una visione ottusa e di una evidente malafede, costoro giocando contro il popolo e le sue reali esigenze, contribuiscono a creare un clima di criminalizzazione attorno a qualunque forma di pensiero antagonista, asservendo in tal modo gli interessi della razza padrona dei poteri forti dell’alta finanza. A questo punto, non possiamo non dire che in Italia il progetto ”indignados”  a regia partitocratica cripto-marxista è fallito al suo nascere. Quella stessa sinistra buonista, piagnona e solidarista, quella sinistra di lotta e di poltrona, la sinistra di “repubblica” e soci, ha fallito miseramente. Mentre i “cocchi di mamma”, si dilettavano a spaccare tutto, sotto gli occhi di una Pubblica Sicurezza evidentemente frastornata e non organizzata per reggere un urto simile, vi sono state persone che molto più tranquillamente e civilmente hanno iniziato a raccoglier firme, stendere documenti e creare un dibattito che, sicuramente, produrrà molti più risultati rispetto a chi con la violenza nulla ha cambiato, anzi. Per questo, oggi più che mai, è necessario invitare la gente, ad abbandonare i vecchi schemi ideologici, le vecchie reti partitiche, quegli schemi, dimostratisi alla prova dei fatti fallimentari, nel nome di una reale democrazia diretta che sappia ritrovare nell’azione spontanea, dal basso, nell’iniziativa dettata dalle reali esigenze della gente, quel motore in grado di cambiare la Storia.

Immigrazione e globalizzazione

 

Certo, non è bello assistere quasi in diretta alla morte di uomini, donne e bambini, né può fungere da elemento di compensazione, il piangere e lo strapparsi di vesti, i “mea culpa” o gli auto da fè a cose già avvenute. Di fronte alle tragedie del mare resta, al di là di tutto, la faccia di bronzo, l’ipocrisia e la malafede travestiti da nauseabondo buonismo, propalati a piene mani da media addomesticati e per bocca di una classe politica oramai ridotta al demenziale ruolo di imbonitrice di un’opinione pubblica sempre più stanca e disorientata. I “Barconi della speranza”, non partono dal Nulla, né sbucano d’improvviso da qualche varco dimensionale alieno, lì lì spalancatosi per riversarci il suo carico di orrori e miserie. No. Quei barconi, partono da località ben conosciute, da paesi ben noti, come noti e stranoti sono gli scafisti-avvoltoi ed i loro mandanti-avvoltoi. Altrettanto noto e risaputo che, in un paese “normale”, le frontiere dovrebbero essere inviolabili e che, l’attraversarle senza alcun documento o senza passare attraverso i canonici controlli doganali, oltre a costituire un grave reato, dovrebbe esser impedito dalle autorità frontaliere. Sì è vero, la guerra, l’orrore, la fame, la miseria fanno la loro parte. E perchè? In Europa le due ultime guerre mondiali, non sono state altrettanto foriere di orrore, fame e miseria, in misura molto maggiore delle attuali vicende che toccano l’altra sponda del Mediterraneo ed il Terzo Mondo? E per caso i nostri nonni fuggirono in massa o disertarono, portando seco donne e bambini, o le cose, come sappiamo, andarono diversamente? Non era, per caso, quasi impossibile fuggire dall’inferno bellico? Abbiamo idea del numero di vittime del silenzioso esercito di coloro che conclusero la propria esistenza con un proiettile in corpo, per aver tentato di disertare o, solo per aver messo in discussione gli ordini? Da quando mondo è mondo esistono guerra, fame e malattie che il caso e la Storia distribuiscono in maniera diseguale tra popoli e nazioni. Taluni conoscono pace e benessere, talaltri guerra e miseria. Per un giusto senso di umana (e vera!) solidarietà, starebbe ai più fortunati aiutare i più sfortunati, nella misura del lecitamente possibile. Questo però, non può e non deve essere confuso con l’intento di favorire fughe di massa, istigando alla diserzione, per disinnescare i propri problemi interni e finire con il destabilizzare i paesi ospitanti. Un malinteso senso di solidarietà, confonde la generosità con il masochismo, il rispetto per la vita altrui con gli istinti suicidi di una civiltà sulla china della decadenza, la bontà e la solidarietà, con i suoi ipocriti surrogati di “buonismo” e “solidarismo”. Tutta questa nostra civiltà italiota, europea ed occidentale è oramai ipocrita parodia e deformazione di valori e sentimenti. Pensate ci vorrebbe così tanto, a stipulare accordi con i paesi rivieraschi del Mediterraneo per evitare questi indegni “viaggi della speranza”? O, sarà che le sovvenzioni occidentali (leggi anglo-franco-italico-yankee) alle varie “primavere” arabe, o che l’omicidio su commissione del Colonnello Gheddafi o il fuoco di fila contro il Socialismo Pan Arabo siriano, abbiano determinato su quelle sponde una tale situazione di caos, per cui solo neanche un fermo atteggiamento europeo potrebbe fare da argine, se non a costo di far saltare fuori una scomoda verità? E poi, scusate, vi siete mai chiesti che fine fanno i miliardi di euro che ONU, FAO, ONG, programmi di cooperazione e sviluppo vari, maneggiano al fine di “aiutare” i poveri ed i diseredati del mondo? E, di conseguenza, non sarebbe molto più produttiva la pratica di aiuti a distanza, volti a creare tutte quelle infrastrutture atte a favorire lo sviluppo di una comunità, conformemente al proprio substrato socio culturale? Domande oziose si dirà ma, una cosa è sicura: risolvere determinate situazioni potrebbe rivelarsi molto più semplice e meno farraginoso, di quel che i media “embedded” vorrebbero farci credere, se solo lo si volesse. Per andare sul concreto, basterebbe abolire il meccanismo dell’anatocismo sia sui prestiti internazionali che, su quelli atti a favorire le imprese o le cooperative locali. Basterebbe statalizzare le varie banche nazionali, far sì che i costi dell’emissione della moneta vengano reinvestiti in opere sociali. Ri-localizzare le economie, favorendo il sorgere di realtà micro impresariali di tipo cooperativistico, in qualsiasi settore dell’economia (ma in particolare, nell’artigianato e nell’agricoltura), a discapito degli investimenti stranieri che invece, stravolgono i vari substrati socio economici, determinando la trasformazione dei lavoratori in schiavi sottopagati. In questo modo, la riconversione dell’economia in senso cooperativistico, vedrebbe il sorgere nei vari paesi di un diffuso ceto di artigiani-produttori, contadini-produttori, impresari-produttori, contrapposto alle vecchie ed inefficienti catene di comando oligopolistiche. Stesso discorso potrebbe valere per quanto riguarda la pratica dell’azionariato diffuso, anzichè quella dei monopoli finanziari. Il problema è che nessuno vuole risolvere l’attuale stato di cose, anzi. Alla base di tutto, sta la totale perdita di primato della politica davanti agli interessi delle grosse consorterie finanziarie globali. Pertanto, la direzione impressa agli eventi, va in una direzione opposta a quanto sinora proposto, attraverso un piano “illo tempore” prestabilito e scandito da tappe ben definite. La prima fase di Bretton Woods (1944-1971), è caratterizzata da un assetto relativamente stabile dei mercati finanziari e dei singoli contesti economici nazionali, necessaria a rafforzare attraverso l’interscambio commerciale con un’Europa benestante, il dominio planetario delle oligarchie finanziarie di Wall Street. La seconda fase vede, verso i primi anni ’70, con la fine di Bretton Woods e con una maggiore oscillazione valutaria, la creazione dei presupposti per un mercato globale. La crisi petrolifera del ’73 spalanca le porte ad un periodo di iperinflazione per Europa e Terzo Mondo, i cui sogni indipendentisti verranno frustrati daIla sempre maggior dipendenza dalle istituti di credito, mentre l’inflazione favorirà, come non mai, la speculazione finanziaria. Superato un primo momento d’incertezza, contrariamente al Terzo Mondo, Europa ed USA usciranno indenni  da questa fase. L’Europa, anzi conoscerà il clou del proprio benessere (in termini di reddito pro capite, produttività, etc.), durante gli anni ’80 del secolo passato. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, si spalanca la terza fase (1989-2013). La caduta delle vecchie barriere ideologiche ed economiche, consente l’ipertrofico espandersi del modello di sviluppo neoliberista. Maastricht, Lisbona e WTO sanciscono la fine di tutte quelle barriere che consentivano ai vari paesi europei (e non solo!) di difendere e tutelare le proprie economie dagli attacchi della finanza speculativa. Se sino a quel momento le varie contingenze di tipo politico non lo consentivano, ora, abbattuta qualunque barriera ideologica, quei gruppi che stanno alla testa del potere economico e finanziario mondiale, entrano in campo direttamente, senza più alcuna mediazione politica(vedi governo Monti-Draghi, etc.), per spianare la strada all’obiettivo di un  proprio governo mondiale. Organismi politici sovranazionali (ONU, FMI, Comunità Europea, GATT, etc.) accanto a gruppi monopolistici economico-finanziari, si fanno strumenti  del dominio “urbi et orbi” del Dio unico Tecno-economico, il cui scopo sembra essere il perseguimento della felicità del genere umano, attraverso alcuni inamovibili dettami. Tra questi, la tragica vicenda dei cittadini israeliti in Europa sotto il Nazismo (Olocausto o “Shoah”), elevata “ad usum delphini”, quale mito fondante della nuova era mondiale a conduzione yankee e concepita come unica tragedia collettiva dell’ultimo conflitto mondiale. L’indiscutibilità del paradigma economico liberista, alla base di Euro e Comunità Europea, considerati quali indiscutibili pilastri, del Nuovo Ordine Mondiale. L’imposizione di un modello di società multiculturale e multirazziale, quale passaggio obbligato, al fine di spezzare qualunque resistenza al Modello Unico. Popoli differenti sotto uno stesso tetto, unicamente accomunati dal marchio di “consumatori”, non possono condividere eguali rivendicazioni, idee, obiettivi, proprio a causa di inalienabili differenze culturali. Anzi. Il modello liberista incentiva uno spirito di emulazione e competizione tale, da richiedere la presenza di un ottuso Stato-Leviatano, nel ruolo di controllore e compressore delle libertà individuali, nel nome del mantenimento dello Status Quo, così come accade in quasi tutti gli odierni modelli di stato “paternalista”, impiantato in società multirazziali, (vedi Malaysia, Indonesia, Singapore, India, etc.) con l’alternativa del caos (vedi Libano, ex Jugoslavia, etc.) o, quanto meno, di una situazione di pericolosa instabilità, (come negli USA, in Brasile, Colombia, Venezuela, Sud Africa, Russia, etc.). L’imposizione di una società multirazziale in Italia ed in Europa,  l’obiettivo di uno Stato deprivato e parcellizzato tra un’infinità di individualità etniche, incentivate a produrre a bassissimo costo, sotto la supervisione di anonimi organismi finanziari multinazionali, non si raggiunge se non attraverso la graduale smobilitazione e destrutturazione delle economie nazionali, la delocalizzazione delle imprese, la finanziarizzazione dell’ economia a discapito della produttività e, dulcis in fundo, a suggello di questo patto scellerato, attraverso, attraverso l’invio e lo spostamento da un paese e da un continente all’altro, di migliaia di disperati, sponsorizzati ed istruiti a tale scopo, con la compiacente complicità dei vari governi, occidentali e non, tutti egualmente proni ai “desiderata” dell’alta finanza. Società “multirazziale” significa quindi, limitazione di libertà e diritti individuali, per permettere attraverso la convivenza forzata tra etnie, ai padroni di lucrare con il lavoro a basso costo, ad una Chiesa Cattolica alle prese con una annosa crisi delle vocazioni, di rimpinguare le proprie esanimi fila e, ad una Sinistra ridotta al lumicino, di rianimare i propri incerti destini elettorali. Ma, ciò che più di tutto uccide, è quello schifoso ed insidioso veleno chiamato “Buonismo”. L’Europa è una vecchia baldracca che, nel corso dei secoli ha contratto infezioni e malattie di tutti i tipi: Clericalismo Catto-Protestante, Mercantilismo, Liberalismo, Materialismo, ne hanno fiaccato certamente la fibra, ma quella che ora si è presa, il Buonismo, rischia di condurla verso un definitivo collasso. Il Buonismo è sifilide dell’anima, uccide il vigore dei sentimenti, sterilizzando le menti, oramai aduse a concepire il mondo in un’ottica dolciastra, ricoperto da una patina di ipocrisia, a mò di ammuffito panettone globale. Nel Buonismo convivono fianco a fianco, la plurisecolare ipocrisia Catto-Protestante, accompagnata al marcio progressismo post moderno di una Sinistra a cui, perduta per la strada la propria vitale spinta propulsiva, altro non rimane che far appello ai “buoni sentimenti”. Il tutto condito da una plurisecolare vocazione al tradimento della propria classe lavoratrice, del proprio popolo, della propria comunità, del proprio Stato, che affonda le proprie radici nel mai sopito risentimento da “ciandala”, caratteristico di certo cristianesimo e che, nel concetto dell’ agostiniana “Civitas Dei”, trova il suo degno completamento. Per cui, prima viene l’ “Ecclesia”, dopo tutto il resto, costi quel che costi; anche a costo della fine di Roma e dell’Impero. Ed ancora oggi, si ripete, immutabile, lo stesso copione. Nel nome della “Ecclesia” globale si sacrificano e si tradiscono tutto e tutti. E poco importa che siamo di fronte all’assalto finale del Globalismo. Poco importa che quelli che oggi smielatamente vengono definiti “immigrati”, altri non siano che le inconsapevoli truppe da sbarco del Mondialismo, mandati lì per sostituirsi gradualmente e pacificamente agli europei. Siamo in guerra, ma ci dicono che è una questione di “solidarietà”. Ci stanno depredando di benessere, posti di lavoro, opportunità, salute, ambiente, ma ci dicono che è solo ed esclusivamente per il nostro bene, ottemperare ora e sempre alle “bonarie” raccomandazioni della BCE, della NATO, degli USA,delle Agenzie di Rating, della FAO, del FMI, del GATT, dell’ONU, della TRILATERAL COMMISSION, del BILDERBERG CLUB, dei Superiori Sconosciuti…

Palestina: il sangue e la vergogna
 

Colpi d’artiglieria, bombardamenti aerei, tiri di mortaio, fuoco a volontà da potenti carri armati, ecco, questo è il modo tutto israeliano di risolvere la questione palestinese. Una vera e propria colata di “piombo fuso”, (nome appunto dell’operazione militare “andata in onda”) che tutto ha travolto e schiacciato, senza tanto andare per il sottile, e con la quale si è voluto mandare un sinistro segnale di prevaricazione alla comunità internazionale ed ai paesi arabi. Ora però, tutto è nuovamente in silenzio. A parte qualche sporadica rappresaglia omicida a seguito di qualche razzetto sparacchiato qua e là, tutto ora tace, in attesa di un qualche misterisoso verdetto che sembra proprio non voler arrivare. Silenzio ovunque. Niente cortei pacifisti, niente stracci multicolori, niente solidarietà, niente concerti, niente strilli isterici, niente di nulla. E tutto questo perché, ora, “palestinese” non fa più tendenza. Crollata la vecchia URSS, morto il progressismo tutto amore e solidarietà, ad affrontare i sionisti ora sono rimasti i rudi combattenti di Hamas. A mettere per la prima volta in difficoltà la macchina da guerra israeliana in Libano è stato lo sciita Hizbollah. L’unica realtà geopolitica del mondo islamico, oggidì in grado di avanzare serie rivendicazioni nei riguardi degli USA è rappresentata dalla repubblica islamica dell’Iran. Dunque niente progressismo, niente marxismo, niente buonismo, niente simil-pacifismo, e per questo, silenzio a tutto campo. Una tra le più atroci rappresaglie degli ultimi tempi, (più di mille morti, cinquemila feriti, danni a non finire, a fronte di cinque morti israeliani), passata come un’operazione di polizia, con il beneplacito dei media ufficiali, oggidì rigorosamente schierati con Israele, spalleggiato dagli USA. Al di là degli schieramenti, al di là delle varie destre e sinistre, oggi hanno tutti scelto la comoda via di dire di sì al padrone di turno.

Un padrone che per perpeturae il proprio dominio politico ed economico su scala globale, non esita a farsi scudo delle immani tragedie dell’ultimo conflitto mondiale per ricattare moralmente l’opinione pubblica con la storiella dell’antisemitismo, finendo con il criminalizzare chiunque abbia da ridire su Israele (e sugli USA, sic!). Ma ciò che maggiormente stupisce è che, questo silenzio viene, in primis, proprio da coloro che di certo anticonformismo sembrerebbero aver fatto una vera e propria scelta esistenziale. Costoro, da isterici pseudo-militanti dell’ ”idea”, sempre attenti sino all’ossessione alle altrui debolezze e mancanze, sempre pronti a rimarcare con orgoglio il proprio status di “uomini differenziati”, bene, oggi tacciono, in un assurdo silenzio, molto più eloquente di quelle centomila dichiarazioni d’intenti di cui hanno fregiato il proprio cammino esistenziale. Il male nella vita non è, a nostro parere, il cambio di idea, ma il “come” si cambia. Si può benissimo voler andare “oltre” le varie antiquate definizioni ideologiche. Si può benissimo voler superare l’angusto limite del prefabbricato ideologico. Si può addirittura voler vivere di politica, ma sempre con uno stile in grado di andar “oltre”, senza finire con il prostrasi indegnamente agli emissari nostrani del macellaio di turno. Niente più manifesti e fotoritratti in Campidoglio, dunque. Niente manifestazioni ed escrazioni bipartisan per i bambini ed i civili di Gaza, indegnamente massacrati. Ma, a questo punto, niente più manifesti per i giovani caduti negli anni ’70. Niente più celtiche, archetipo richiamo ad una dimensione spirituale che non è più di questo mondo. Niente più saluti romani, conditi da robusti colpi d’avambraccio, sinonimo d’appartenenza ad una comunità d’intenti che oggi non esiste più. Niente più ammiccamenti nostalgici a periodi storici caratterizzati da una mentalità volontarista e vincente, contrariamente a quella da ragno da tardo impero, oggi tanto di voga. Niente più antimondialismi e celodurismi da birreria. Si abbia l’umano coraggio di definirsi ciò che si è, senza tema di incorrere nella generale ed ipocrita riprovazione. Social-conservatori, euro-atlantici, giudeo-cristiani, laico-cattolici, liberal-laburisti, popolar-reazionari, paternal-buonisti. Tutte definizioni di cui, oggidì, si può indifferentemente ammantare chiunque abbia supinamente deciso di accettare i canoni del pensiero “politicamente corretto”. La questione palestinese rappresenti, dunque, l’occasione per quel coraggioso e definitivo “outing”, di cui oggidì la politica nazionale tanto abbisognerebbe.

La farsa elettorale

 

Tempo di elezioni. l’Italia sembra esser pervasa da un continuo rullo di tamburi, quasi che questa fosse la sfida finale tra le forze del Bene e quelle del Male. Tutto tace e nulla si muove, in tivvù ogni programma è stato congelato, sospeso “ a divinis”, lasciato nel limbo, per far posto ad un astioso dibattito elettorale. I muri sono tappezzati di manifesti con faccioni e faccine ammiccanti, messi lì a prometterti il cielo. Il clima di concitazione, gli slogan roboanti, le accuse vicendevoli, monopolizzano la pubblica opinione sull’appuntamento elettorale prossimo venturo. Unico elemento di distrazione, la scoperta qua e là di qualche nuova fonte di  tangenti, accompagnata dal solito codazzo di veleni ed accuse reciproche. E poi quella delle promesse, che sembra essere la “never ending story” della politica italiana. Un’Italia più seria, responsabile, un Paese più giusto, fino ad arrivare a chi ti dice di votarlo, se si vuole riavere indietro la famigerata IMU…Nessuno, però sembra riflettere davvero, sulla natura quanto mai volatile ed inutile di questo confronto elettorale, all’ombra del golpe bancario. Va anzitutto detto che, a chiunque vada l’alloro della vittoria, questa sarà una vittoria di Pirro. Il Porcellum, oltre a riproporci i vari “nominati” per grazia e capriccio del barone politico di turno, ci rimette di fronte ad uno scenario degli schieramenti oggidì maggioritari in una posizione di equilibrio precario, con numeri e consensi quasi al pareggio, per cui basterà un’oscillazione di voti in direzione di quella o quell’altra forza politica minore, che la coalizione al potere cadrà inesorabilmente, spalancando lo scenario ad un quanto mai anticipato ed imprevisto ritorno alle urne. Quindi, quella del prossimo governo, sarà una natura di “adempimento istituzionale”, volta cioè a portare a termine quelle scadenze tecnico istituzionali oggidì più pressanti, ovvero: la rielezione del Presidente della Repubblica, la Finanziaria e, forse, la riforma elettorale. E questo dal punto di vista meramente “tecnico”. Dal punto di vista dei contenuti e dei programmi, siamo sotto allo zero. Ora, qualcuno ci dovrebbe spiegare come ancora si fa a concedere anche un’oncia di fiducia a personaggi come Berlusconi o Bersani che, sino al giorno prima, hanno appoggiato “SpakkItalia” Monti ed ora, per ragioni di puro truogolo politico, lo attaccano con veemenza. Restituire l’IMU agli italiani? Costerebbe quanto una nuova manovra finanziaria, tra personale mobilitato solo per questo, conteggi, scorpori finanziari, tempi di restituzione, errori ed orrori vari in salsa burocratica….E che dire della gioiosa macchina da guerra di Bersani and Co.? Oramai trasformatasi nella brutta copia dei Democratici USA, altro non sa fare che cercare di riunire in una miscela mefitica, un annacquato statalismo burocratico con un liberismo casareccio, solidarismo d’accatto e individualismo made in USA, ribellismo tardo-sessantottardo e catto-mortadella alla Prodi e alla Rosy Bindi, collezionando un insuccesso dopo l’altro, solidarizzando con una gloriosa magistratura che fa chiudere le fabbriche l’una dopo l’altra, che fa saltare allo Stato italiano commissioni estere multimiliardarie, essendo “de facto” divenuta il braccio operativo dei poteri forti della finanza, interessati a sfasciare definitivamente il tessuto economico italiano. E poi che pena questo Ingroia, così indeciso, così titubante, tra la tentazione di una rivoluzione all’amatriciana in buona compagnia con Di Pietro, con il disastro-sindaco De Magistris ed i restini dell’ultrasinistra e la mai repressa pulsione di fare i chierichetti, in un prossimo conclave di governo capeggiato da un mai rinnegato tandem Bersani-Monti . Passando oltre quelle figure di squallidi “ciandala” che reggono spudoratamente il moccolo a “SpakkItalia”-Monti e che, per ciò stesso, non meritano nemmeno di esser nominate, sotto i nostri occhi rimane ben poco, se non pochi gruppi di coraggiosi antagonisti. A questi si dovrà guardare e non a quelli che, come i Vendola o gli Storace, a chiacchiere hanno condannato Monti, ma ora aspirano a governare con chi, con certa gente è pappa e ciccia. E’ bene, a questo punto, ribadire cosa è in Italia accaduto negli ultimi mesi. Qualche tempo fa, il Presidente del Consiglio Monti, ha avuto l’ardire di far votare in sede ONU, in favore della presenza nel consesso internazionale della Palestina quale stato osservatore. Una mossa questa, dettata da motivi di opportunistica prudenza geo politica ed economica, non certo da simpatie per la causa araba, ma che, comunque, non ha ricevuto il gradimento né della Casa Bianca né di Israele. E siccome il nostro Super Mario è in qualche modo “di famiglia” (ex advisor Goldman and Sachs, etc.), non lo si poteva punire in modo esemplare (come per esempio verificatosi con Mattei o Bettino Craxi, sic!) ed ecco allora un fenomeno della miglior tradizione del gioco di prestigio: lo scongelamento del Berlusca, che sembrava ormai condannato ad un ruolo di silenziosa subalternità. L’Europa urla e strilla, la bella Merkel per bocca del vampiro Schauble lancia anatemi ed oscure profezie, su quale iattura sarebbe per l’allegra banda di Bruxelles l’incomoda presenza del Berlusca, così simpaticamente maldestro. E come non dargli torto, d’altronde. I segnali di una nuova stagione politica all’insegna di una allegra e caciaronesca approssimazione e ben lontana dai monotoni grigiori montiani, ci sono tutti: le promesse roboanti, al pari delle battute da caserma all’indirizzo di indifese dipendenti, ci lasciano già presagire il prossimo slogan delle campagne berluschiste, tutte “Per un’Italia che viene”. Ma tant’è. Casa Bianca ed Israele hanno deciso: Berlusconi dovrà ronzare per l’eternità attorno a Monti, rendendogli la vita quel tantino difficile e ricordare a tutti chi, oggi, comanda realmente il mondo, senza se e senza ma. La Storia ci insegna però, che esistono fenomeni che potrebbero avere esiti imprevisti, far saltare gli equilibri, rimettere tutto in discussione. L’opinione pubblica è stanca di promesse e buffonate, stanca di pagare e non avere, stanca di una realtà che non ti offre la possibilità di crescere , perché tutto è bloccato, riservato a raccomandati, profittatori ed incapaci. E quindi che non si illudano, tutti i beoti che credono di farla franca, che nel posto al sole della politica-politicante, hanno riposto le proprie fallite aspirazioni esistenziali e professionali: il movimento di Grillo potrebbe essere uno di quegli elementi di disturbo, una di quelle incognite che potrebbe (e qui il condizionale è d’obbligo!) sparigliare le carte in tavola e guastare gli appetiti di tante pancine affamate. Una cosa è certa: la gente sta trasversalmente prendendo coscienza sulla propria pelle, del problema dell’invadenza dei poteri forti dell’economia e della finanza e per questo, oggidì, sta sempre più progressivamente facendosi strada, l’idea e la realtà di un antagonismo politico totale, quale idea di sintesi e superamento della destra e della sinistra. Un processo questo, che non si risolverà certo con queste elezioni, che altro non sono che un passaggio di consegne tra tecnici asserviti e politici-maggiordomi, né che si risolverà, crediamo, con la presenza sul proscenio dei movimenti dell’antipolitica ma che, sicuramente, prenderà slancio ed abbrivio da questo scenario, per arrivare alla necessaria ed inevitabile creazione di un “Frente amplio” antagonista. L’ingrediente-base di tutto questo non potrà non essere il socialismo, la democrazia diretta, il senso dell’appartenenza identitaria, riconiugati in una prospettiva inevitabilmente populista, e questo da qualsiasi ottica la si voglia realizzare. All’Europa ed al mondo oggi non restano che due inesorabili alternative: o farsi definitivamente fagocitare dal sistema-mondo globale che sta portando l’intera umanità verso una immane catastrofe ecologica ed economica o uscire dal sistema con uno strappo deciso, basato sulla coscienza che un “altro” mondo è ancora veramente possibile. Ma sarà bene decidere presto, perché di tempo per decidere ne è rimasto veramente poco.

Alle origini di un complotto/Le strane coincidenze

 

Che l’umanità abbia sempre avuto bisogno di favole, miti e narrazioni stravaganti per sognare, uscire fuori dalla realtà, o addirittura rifondare la realtà stessa all’insegna di nuovi parametri, è cosa risaputa ed antica. Ogni epoca possiede le proprie “Leggende metropolitane”. Una volta eroi, fate, gnomi e draghi si contendevano il proscenio. Oggi in piena Tecno-Tronic  Age a contendersi il proscenio dell’umana immaginazione sono gli UFO, i complotti, arcane suggestioni New Age e tant’altro. Fantasia dunque, sempre ed a bizzeffe; l’umanità, come dicevamo, ne ha sempre avuto bisogno. Ma mai, come in questo momento, è tutto un esplodere di ricerche sulla coincidenza, sul segnale premonitore, sull’oscuro disegno, che gettano un’ombra inquietante sulle monotone ed oramai insufficienti certezze di un mondo messo apparentemente “in sicurezza” dai parametri del pensiero cartesiano che sorreggono il sistema-mondo occidentale. E’ vero: lo squallore del capitalismo, il crescente disagio economico e sociale, ma anche il clamoroso fallimento delle narrazioni ideologiche materialiste del Novecento, hanno lasciato campo libero all’inusitato ritorno della narrazione mitica e favolistica in versione post moderna. Accanto a questa basale constatazione, ve ne sta però un’altra, antica come il mondo, a fare da contrappeso: ovverosia che in ogni leggenda vi è un consistente fondo di verità. Complotto. Termine che indica un’azione volta a mutare a proprio favore in modo occulto, e quindi tramite l’inganno, una determinata situazione, portata avanti da una o più persone. Il Complotto di cui trattiamo, essendo volto a modificare in modo innaturale ed ingiusto l’intero assetto dell’umana civiltà, non può non essere che il risultato dell’azione simultanea di più individui, ovverosia di un gruppo o più di persone (a meno di non voler credere che, come affermano taluni, alla testa del Complotto vi sia Satana in persona ma, in quel caso, entreremmo nel difficile ed opinabilissimo terreno minato del credo religioso e della metafisica, sic!). Volendo altresì per ora escludere la mai provata, e dunque, più che fantasiosa presenza degli Alieni, non ci rimane che interrogarci ed analizzare quale può essere la natura dei gruppi di pressione, gli scopi e le modalità d’azione che starebbero alla base dell’eventuale complotto. Abbiamo già avuto modo, in un precedente saggio, di tratteggiare le origini e lo sviluppo delle varie società segrete, con particolare riguardo alla vicenda della massoneria. Diciamo allora, che quella delle società segrete è una vicenda connaturata alla nascita della civiltà umana. Nate sotto l’ombra protettrice dell’archetipo paterno del totem, sviluppatesi come profonda linea di demarcazione tra il piano ordinario e quello extra ordinario dell’esistenza, che permette una comprensione, e pertanto un dominio della realtà, che non può che esser riservato ad una ristretta cerchia o altresì una particolare classe di individui, esse inizialmente conoscono uno sviluppo tutto interno all’ambito religioso o per lo più filosofico, trasformandosi poi in veri e propri gruppi di pressione politico economica. Il primo esempio da annoverarsi tra questi casi è quello del pitagorismo, la cui espressione politica verrà brutalmente liquidata assieme al proprio fondatore, a seguito di una rivolta popolare in quel di Crotone. Saltando da un’epoca all’altra, il Medioevo con la vicenda dei Templari rappresenterà un altro drammatico e significativo capitolo della storia delle società segrete. Ma, il vero salto di qualità sarà rappresentato dall’avvento dell’Era Moderna a cui farà seguito la graduale irruzione della sfera economica, nella vita delle varie società occidentali. Qui le società segrete, la cui matrice e derivazione saranno per lo più massoniche, conosceranno un vero e proprio salto di qualità: difatti all’avvento del pensiero illuminista e razionalista ( che avvierà questa nuova fase della storia occidentale) accompagnata dalla fine del primato ecclesiastico sulla produzione del pensiero, farà da contraltare un ritorno alla grande dell’irrazionalismo in tutte le sue molteplici manifestazioni. Gruppi o società di ispirazione esoterica conosceranno pertanto un duplice destino. Da una parte, talune di esse rimarranno legate ad una sfera attinente alla propria ispirazione originale, quale cioè la riflessione sui simboli, la mera produzione intellettuale o l’azione magica svincolata da scopi attinenti alla realtà spicciola, mentre altri gruppi pur volendo a volte conservare quella mera apparenza di occulto cenacolo sapienziale, inizieranno a perseguire scopi e fini ben lontani da quelli per i quali erano originariamente sorti, legando in tal modo indissolubilmente, le proprie fortune a quelle della nascente economia capitalista. Dagli Illuminati di Baviera alla Trilateral, dalla Skull and Bones alla P2, dagli strani ordini occulti rosicruciani sino ad arrivare ai gruppi senza volto degli sconosciuti superiori, controllori dell’alta finanza mondiale, vi sarebbe tutto un fiorire di lobby e gruppi di pressione più o meno occulti e tutti più o meno interessati al perseguimento di un complotto, volto ad assicurarsi il progressivo dominio sul mondo. La domanda che a questo punto ci dobbiamo porre, è sulla natura del Complotto o dei Complotti, ovvero delle destabilizzanti azioni segrete, portate avanti dai vari gruppi di pressione di cui abbiamo sinora parlato. Va da sé che, trattandosi di una modalità di azione occulta, quelle che verranno qui svolte, saranno solo delle supposizioni corredate da alcune evidenze, nulla più. Passiamo ora ad illustrare brevemente quelli che del “Complotto” rappresentano gli aspetti ed i filoni più salienti. Il complotto “ambientale”. “Guerra senza limiti” è il titolo di un libro pubblicato poco tempo fa, da Qiao Liang e Wang Xiansui, due colonnelli dell’esercito cinese che descrivono e prefigurano il preoccupante scenario di una predominanza globale geo strategica USA, determinata dal possesso di dispositivi militari in grado di provocare delle profonde alterazioni climatiche. Nel Gennaio 2003, il sito della “Pravda” ha ospitato l’articolo del deputato ucraino Yuri Solomatin, sulla presenza in Alaska di un impianto scientifico-militare, in grado di produrre alterazioni climatiche, insomma una vera e propria “arma meteorologica” che, se usata, potrebbe mettere in ginocchio le economie di interi paesi senza il bisogno di sprecare neanche un uomo in inutili e costose azioni belliche. HAARP sta per “High Frequency Active Auroral Research Program” ed è un’impianto ufficialmente realizzato per lo studio della ionosfera e della magnetosfera, una vera e propria selva di antenne ad altissima frequenza, realizzata nel bel mezzo dell’impervia regione dell’Alaska. Studiare la ionosfera per migliorare le telecomunicazioni, ma anche sondare tramite le onde radio, il sottosuolo e scoprire eventuali bunker, ponti radio nemici e quant’altro. Nel 2002 i deputati della Duma Russa, hanno inutilmente richiesto all’ONU la messa al bando di questi esperimenti, prefigurandone quell’ uso ben più pericoloso di cui abbiamo già parlato. Altre fonti attribuiscono invece, la gran quantità dei disastri ambientali verificatisi nel Nord e nel Centro dell’Europa, allo scriteriato uso sperimentale da parte USA di HAARP. Lo stesso terremoto in Emilia Romagna, la strana persistenza di scosse sismiche dopo il “big one”, oltreché la natura poco sismica dell’area oggetto del sisma, ci pongono di fronte ad inquietanti interrogativi, corredati da strani antefatti. Ultimamente, per esempio, vari comitati locali di cittadini avevano protestato invano contro i trivellamenti indiscriminati operati per ricercare gas ed idrocarburi, in contiguità delle sottostanti faglie geologiche, segnalando la concreta pericolosità di tali operazioni. Stessa considerazione, vale per quanto attiene al disastro seguito al terribile evento sismico con epicentro nella sfortunata regione della centrale nucleare di Fukushima, disinvoltamente gestita da una società privata israeliana (sic!) Pure illazioni? Una cosa è certa: lo sviluppo e l’uso della tecnologia da troppo tempo oramai, non seguono più un fine meramente conoscitivo, a disposizione e beneficio del genere umano, bensì un fine prettamente utilitaristico, al servizio di un ridotto numero di beneficiari, generalmente identificabili nei “padroni del vapore” dell’economia e della finanza. Oggi, per esempio, si va tanto parlando di degrado dell’ecosistema, paventando soluzioni di cui si vorrebbe sottolineare la carica innovativa, dimentichi del fatto che, se si volesse, di soluzioni alternative se ne sarebbero presentate sin dagli inizi della vicenda del grandioso sviluppo tecnologico occidentale. Volete un esempio? Già agli inizi del Novecento, si era  posta al mondo occidentale l’alternativa tra l’uso del motore a scoppio alimentato da idrocarburi e quello unicamente alimentato dall’ energia elettrica. Se la successiva scelta ricadde sul primo, fu in gran parte per alimentare l’immenso mercato degli idrocarburi, dei cui giacimenti, allora, iniziava il serio sfruttamento da parte delle compagnie britanniche e nord americane. Una scelta che, sebbene dettata da mere motivazioni economiche, condizionò in modo dirompente la vita e lo sviluppo di un’intera civiltà. In termini temporali più recenti, tornando indietro solo di qualche anno, per esempio, un geniale ed improvvisato ricercatore veneto mostrò alle telecamere la sua geniale trovata, consistente in un marchingegno in grado di trasformare lo smog in carta. Meno eclatanti ma sicuramente dalla maggior applicazione nel concreto, i biocombustibili, i motori ad idrogeno, oppure l’applicazione della tecnologia dei micro conduttori alla erogazione e distribuzione energetica ad alto risparmio, questo senza voler considerare l’energia solare o, in dirittura d’arrivo, la fusione fredda o la già ventilata, ma mai considerata idea, di voler trarre energia elettrica dall’immenso serbatoio oceanico. Il tutto poi, senza voler privilegiare alcuno dei succitati sistemi, potrebbe avere come esito la creazione di un sistema di interazioni tecnologiche, in cui un sistema si alimenta o fruisce della tecnologia dell’altro. Esiste poi tutta una letteratura sulle scoperte scientifiche in anticipo sui tempi di nascita ufficiali. L’automobile, l’aeroplano, il carro armato, il sommergibile ed altri prodotti dell’umano ingegno, avrebbero conosciuto nei secoli passati antesignani, prototipi, progetti e chissà quant’altro. Ancor più strano poi, il destino di certi filoni dell’indagine scientifica che, inizialmente accolti dai più rosei auspici, finiscono invece nel binario morto di un sospetto dimenticatoio. Il caso delle esplorazioni spaziali è, in questo, esemplificativo. Dalla metà degli anni Sessanta del secolo passato, all’esatto indomani del primo allunaggio, sembrò spalancarsi per l’intera umanità un’era di viaggi, esplorazioni e colonizzazione per quel che atteneva, quanto meno, il sistema solare, con tutti i suoi annessi in termini di nuovi spazi di sfruttamento di materie prime, stravolgenti innovazioni tecnologiche e via dicendo.  D’improvviso, invece, sull’intera epopea spaziale calò il silenzio. Mancanza di fondi, o qualcos’altro? Una specie di oscura ratio, di precognizione, sembra dominare l’inconscio collettivo, dunque. Scoperte, novità scientifiche, intuizioni, sembrano essere in gestazione con largo anticipo sui tempi di scoperta ufficiale, lasciandoci con una serie di inquietanti interrogativi senza una valida risposta. Se è pur vero che esistono tecnologie in grado di salvare l’ecosistema, o di curare malattie ad oggi ufficialmente incurabili (vedi la vicenda Di Bella con il cancro, sic!), grazie ad un uso “altro” della scienza che potrebbe imprimere una diversa direzione allo sviluppo globale, se tutto questo si può fare, quale è allora la ragione che lo impedisce e che sembra trascinare l’intera umanità verso il baratro senza fondo del dissesto climatico e dell’impoverimento globale? Qualcuno, per esempio, già azzarda l’ipotesi di nuove ed inedite vie di comunicazione per i trasporti marittimi, nel caso che la calotta polare artica dovesse sciogliersi, grazie all’effetto potenziato del riscaldamento globale su quella parte dell’emisfero. Un mondo sempre più povero potrebbe ancor più dipendere dai ricatti dell’economia finanziaria. Ricatto economico, usura, sfruttamento sfrenato in cambio di cibo, aria pulita e magari quel pizzico di salute in più che non guasta mai…Pochi ricchi e molti, troppi poveri, omologati sotto l’unico asfissiante ed onnipresente marchio del liberal-liberismo globale: ecco dunque disvelarsi l’anima del complotto…Ma il complotto non si esplicita solamente nel disastro ambientale, ma in altre cento, mille, differenti modalità e situazioni. Si va dai complotti politici nazionali ed internazionali degli ultimi decenni  ad altri più inquietanti ed intricati, che una volta forse potevano far sorridere ed oggi invece lo fanno molto meno. La magia usata per procurarsi potere sulle persone e sulle cose, a detta di certuni, per ottenere un effetto potenziato necessiterebbe di sacrifici umani e/o di riti di natura sessuale aventi per oggetto minori indifesi, meglio se di sesso maschile o, in subordine, l’uso di feticci consistenti in umori e liquidi sessuali o parti anatomiche dello stesso tipo. Né è una novità che certe disgustose pratiche omicide siano state una consuetudine presso taluni popoli semiti come i Fenici, che suolevano ardere vivi bambini al cospetto degli altari del dio Baal e di Moloch in quel di Cartagine, come, al pari, sembra che talune comunità ebraiche stanziali nell’Europa dell’Est, a detta di quanto scritto da Ariel Toaff, (figlio dell’ex rabbino di Roma Elio Toaff), abbiano praticato infanticidi rituali e quant’altro, forse proprio in virtù di un’impostazione cultuale propria di determinati gruppi etnici del Vicino Oriente. Questa potrebbe essere una delle ragioni in grado di spiegare i tanti misteriosi ed infami ratti di minori o di omicidi seriali apparentemente inspiegabili, quali quelli del mostro di Firenze, oppure quello della povera Melania Rea, a detta del magistrato Paolo Ferraro, vittima di un omicidio ordito da una setta massonico-militare interna alle Forze Armate. In questo caso si paventa addirittura lo scenario di sette che, a pieno servizio della NATO, adopererebbero tecniche di condizionamento mentale estremo, attraverso pratiche di natura sessuale, miranti al totale stravolgimento e condizionamento della psiche dell’adepto. Un caso sinistro che ci porta ad interrogarci sulla mai indagata vicenda del criminale macellaio norvegese Brejvik e sul genere di aiuti di cui costui potrebbe aver fruito e sulla natura dei condizionamenti che potrebbero aver fatto di un essere umano, una spaventosa macchina di morte. Tutte bugie? Mitomanie New Age? Fantasie della tarda modernità? A questo punto, sic stantibus rebus, non ce la sentiamo di provare più alcuna certezza. Un fatto è però certo. I vari gruppi che portano avanti il progetto mondialista, in qualunque veste agiscano (logge, club, ordini, lobby e, chi più ne ha più ne metta…) pur di arrivare ai propri scopi, sarebbero capaci di tutto, senza andare tanto per il sottile. Inquinare, uccidere, stuprare, usando, magari, chissà quali forme di arcana conoscenza per arrivare a modificare e rivoltare la realtà per il proprio personale tornaconto, non lasciando nulla di intentato. Senza dimenticare che, molto spesso, nella lunga vicenda umana, le peggiori fantasie non hanno saputo eguagliare le più terribili realtà.                                                 

La prospettiva nazional bolscevica

 

Interessante la presentazione di “Ribelli e borghesi. Nazional bolscevismo e Rivoluzione Conservatrice.” di Franco Milanesi, presentato Giovedì 18 Ottobre, presso la “Casa delle culture”, oltreché dall’autore medesimo, dall’intellettuale non conforme Marco Tarchi, dallo studioso di marxismo Mario Tronti e dal segretario del PRC, Paolo Ferrero. Un dibattito interessante se non altro perché, per una volta tanto, abbiamo potuto assistere ad un serio tentativo di comprensione di un fenomeno “sopra le righe”, attraverso un’analisi il meno possibile influenzata dai soliti, decrepiti, schematismi ideologici. Certo, non si può parlare di nazional bolscevismo, senza parlare dell’esperienza di Weimar, ovverosia di quel magmatico ribollire di esperienze, istanze, sincretismi, sorti all’ombra della profonda crisi sistemica ingenerata dalla fine del Primo conflitto mondiale, in una delle nazioni più duramente colpite da quella sconfitta; e cioè la Germania del Reich guglielmino. Due decenni di sommovimenti, rivolte, spargimenti di sangue e disastrosa crisi economica, che spalancheranno le porte all’avvento del nazional socialismo, di cui però Weimar costituisce senza dubbio il brodo di coltura. L’immensa crisi che il mondo occidentale e l’Europa si trovano ad affrontare all’indomani della Grande Guerra, trova la propria prima, sconvolgente risposta nella Rivoluzione di Ottobre, in Russia, generando una serie di violenti contraccolpi in un’Europa a metà strada tra l’euforia nazionalista che aveva animato l’intero, tremendo conflitto e l’impetuoso riproporsi delle istanze sociali che avevano fatto da sfondo all’epoca a cavallo tra il 19° ed il 20° secolo un po’ in tutta Europa. Istanze che, inizialmente cavalcate dai vari movimenti di matrice progressista e marxista, avevano finito in breve con il divenire patrimonio di “altri” modi di intendere ed interpretare il socialismo ed percorso rivoluzionario in genere, come accaduto, per esempio, con gli anarco sindacalisti di matrice soreliana. Non si può, però, comprendere Weimar ed il clima ideologico che la anima e le fa da contorno, se prima non si sottolinea la presenza di un elemento che funge da convitato di pietra nell’intera vicenda, e cioè quella “Krisis” che comincia a serpeggiare e ad attanagliare le due grandi narrazioni ideologiche dell’epoca: il liberalismo ed il marxismo. Verso la fine del secolo 19°, infatti, le certezze assiomatiche dell’illuminismo e del positivismo avevano cominciato a scricchiolare vistosamente. Una ventata di irrazionale vitalismo ne aveva messo in crisi le paradigmatiche certezze. Nietzsche, Freud e Marx avevano iniziato stravolgendo il tranquillizzante concetto di coscienza razionale ed unitaria dell’ “io”, di cartesiana memoria. Accanto ad espressioni artistiche e letterarie di avanguardia, si assisteva ad un rinnovato interesse per il sapere occulto, mentre il vecchio liberalismo borghese aveva cominciato ad entrare in crisi profonda, sostituito da una forma di nazionalismo intriso di venature di vitalismo e misticismo, sino a quel momento sconosciute, come nel caso dell’Alliance Française di Charles Maurras. Lo stesso ambito socialista e marxista, cominciava ad essere attraversato dai sussulti di una profonda crisi d’identità. In ambito marxista Bernstein con la socialdemocrazia, Kautski con la propria intransigenza, ed in particolare Sorel, con il proprio percorso volto a superare il marxismo stesso, mostrano una profonda spaccatura nelle modalità di intendere e gestire la visione di fondo dell’idea di rivoluzione. Non solo. All’interno dello stesso fronte del marxismo più ortodosso, si iniziano a percepire profondi dissapori di matrice tattica tra lo stesso Lenin e Rosa Luxembourg, più elitario il primo, più aperta alla partecipazione di massa la seconda. Weimar dunque, si inaugura avendo alle proprie spalle i recenti esempi dei sindacalismi rivoluzionari italiano e francese, l’irrazionalismo vitalista dannunziano, le avanguardie artistiche, la profonda crisi dei grandi sistemi ideologici sino ad allora predominanti, ovvero la ricerca del superamento di questi ultimi attraverso nuove ed originali sintesi. In Weimar convivono i marxisti spartachisti di Karl Liebeknecht e Rosa Luxembourg, accanto agli ariosofi della Thule Gesellschaft di Von Sebottendorf e soci, i “Freikorps” di Von Salomon accanto ai nazional bolscevichi di Niekisch, i socialisti accanto ai rivoluzionario-conservatori alla Moeller Van Den Bruck e Hugo Von Hoffmanstahl, assieme ad una miriade di altri gruppi e gruppetti. Weimar è dunque attraversata dalla tentazione di coniugare il nazionalismo pan germanico con il bolscevismo russo-sovietico, nel nome di una futura patria euro-asiatica. Una tentazione che risuona, d’altronde anche tra gli esponenti di spicco del primevo eurasismo russo alla Gumilev ed alla Trubetzskoy. Il profondo disprezzo per il capitalismo di stampo americano ed occidentale e la spinta ad una rivolta delle masse in tal senso, lo spettacolo della mediocrità borghese dell’ Europetta figlia del liberalismo ottocentesco, accanto alla presa di coscienza dell’insufficienza categoriale marxista, in particolare per quanto attiene al concetto di nazione come “uhr-heimat”, costituiscono il propellente ideologico dell’istanza nazional bolscevica di Ernst Niekisch. Al nazional bolscevismo aderiranno inizialmente personaggi del calibro di Otto Strasser, il rivoluzionario-conservatore Ernst Junger, il capo delle SA Ernst Rohem, lo stesso Von Salomon ed il futuro ministro della propaganda del Terzo Reich, Josef Goebbels. La stessa KPD marxista adotterà a più riprese tematiche nazional bolsceviche per rendere più malleabile e digeribile l’impianto teorico marxista, nei riguardi delle preponderanti spinte nazionaliste. Ma il nazional bolscevismo, al pari della Konservative Revolution, finirà con l’essere fagocitato ed introiettato all’interno del nazional socialismo tedesco e, laddove non ne accetterà in toto le direttrici ideologiche, conoscerà i rigori di una totalitaria persecuzione, come nella travagliata, pluridecennale, vicenda di Ernst Niekisch, detenuto nelle carceri del Terzo Reich sino alla fine del secondo conflitto mondiale ed, a seguito di una deludente esperienza nella DDR, nel ruolo di isolato e polemico transfuga nella Germania Ovest. L’incontro alla “Casa delle Culture” ha affrontato l’intera questione sotto il profilo della critica ideologica e di un esame spassionato, offrendo degli interessanti spunti di riflessione, in primis quelli offerti dal Prof. Tronti che, dopo i dovuti distinguo critici, non ha esitato a presentare un’inusitata ed innovativa critica all’eccessivo materialismo economicista della dottrina marxista, sino a spingersi ad esaltare il concetto di Eurasia. Lo stesso Milani, proveniente dalle fila di RC, non ha avuto alcun problema nel sottolineare la validità del mondo valoriale, del “sentire” che traspare dagli scritti di Junger, senza però poter dare una risposta su come conciliare tutto questo, con l’impostazione marxista. Più pessimista sicuramente l’intervento di Tarchi, più prudente e timoroso quello di Ferrero, ma tutti, comunque, animati da un preavvertibile malessere di fondo, riguardante l’insufficienza delle attuali categorie ideologiche. E qui ritorna, prepotente, l’urgenza di un momento di chiarificazione attorno alla questione perno: quella sul senso dell’intera vicenda dell’Occidente, alla luce della Globalizzazione ed alla non più rinviabile scelta radicale che questa ci pone. O “con” o “contro” di essa, senza “se” e senza “ma”. Per questo, quella del nazional bolscevismo e della sua eterodossia ideologica, deve rappresentare per noi un punto di partenza, in direzione di un’autentica “renovatio” del pensiero che sappia finalmente coniugare la vitalistica spinta al divenire con la dimensione degli archetipi valoriali, che costituiscono quel bagaglio di ricchezza e varietà delle culture di tutti i popoli del mondo. La pressante sfida della Globalizzazione,  sempre più, oggidì, va imponendo la tabella di marcia per la creazione di un  un fronte antagonista a livello planetario. L’Iran sciita di Ahmadinejad oggi va a braccetto con la Siria laica di Assad e con il Venezuela socialista e bolivarista di Chavez. In tutto il mondo, vanno pian piano facendosi strada un arcobaleno di nuove istanze, da tutte le posizioni e tutti i fronti, ma tutto questo ancora non basta. L’Italia, a causa della sua particolare vicenda politico-ideologica, dovrebbe avere la forza di divenire il laboratorio per un epocale cambiamento nel sentire politico, non più legato ai vetero campanilismi d’accatto, che tanto piacciono ai padroni del vapore. La lotta di classe e gli interessi della comunità nazionale, possono trovare un punto d’incontro in una sintesi ideologica in grado di superare definitivamente la grande frattura Destra-Sinistra, ingeneratasi in Occidente all’indomani della Rivoluzione Francese. Allora al capitalismo globale potremmo opporre un fronte variegato, costituito dalle cento, mille realtà di lotta oggidì presenti sul pianeta Terra, ma tutte, ugualmente accomunate, da un’unica titanica volontà di Resistenza. E, tornando ad Ernst Niekisch, è proprio da Lui che dobbiamo ripartire. Dalla sua originalità, dalla sua eterodossia, dal suo spirito ribelle ad ogni costo, da quella Wiederstand/Resistenza, in grado di ricordarci che un altro mondo è sicuramente, ancora, possibile, senza “se” e senza “ma”.

Fiume: l’urlo del futuro

Quando Rossi e Neri marciarono assieme

 

Correva l’anno di grazia 1919, la Grande Guerra era finita da poco lasciando dietro di sé lutti e rovine, non solo esteriori, ma anche, specialmente interiori, nell’animo dei popoli che erano stati travolti dall’onda di quella guerra definita, per l’appunto Grande, perché per la prima volta nella Storia, aveva visto irrompere quella tecnologia, frutto di una spettacolare industrializzazione, sullo scenario di una guerra globale, causando terrificanti devastazioni. Causa scatenante dell’immane conflitto, le tante, troppe, questioni nazionali che la caduta degli Imperi (asburgico, ottomano, germanico e russo), lasciavano ancora irrisolte. Nel caso in esame, l’Italia (una delle grandi nazioni d’Europa, assieme alla Germania guglielmina, il cui processo di unificazione si era compiuto da poco tempo!) portava avanti tutta una serie di rivendicazioni territoriali che riguardavano, anzitutto, la presenza di popolazioni di lingua italiana presenti in un contesto che andava dal Trentino Alto Adige alla Venezia-Giulia (con Trento e Trieste), sin quasi all’entroterra balcanico, toccando Lubiana ed i territori della Slavonia, passando dalla fascia costiera istriano-dalmata sino all’Albania ed alle isole greche, Dodecanneso incluso, oltre all’esigenza del controllo strategico di alcune zone della Turchia ed al riaggiustamento delle frontiere dei territori coloniali d’Africa, dalla Libia alla Somalia, dall’Eritrea sino alle rivendicazioni sull’Etiopia. Nel primo caso, però, le rivendicazioni italiane erano frutto della storia di un’antica presenza delle popolazioni latine nel contesto mediterraneo, che trovava nella colonizzazione romana il suo principale antefatto storico e successivamente nella plurisecolare presenza delle repubbliche marinare (Venezia in primis), con un massiccio apporto di popolazione in quei territori, la causa scatenante dell’intera questione. Nel seguire un quanto mai antico e collaudato copione, le potenze vincitrici del conflitto (Gran Bretagna, Francia, Usa, Italia ed altri ancora) si erano date appuntamento in quel di Parigi per mettere su carta e ratificare quanto promesso in gran segreto ai vari alleati, con gli accordi di Londra del 1915. In quel contesto, però, l’Italia fu trattata come un alleato di serie B. L’americano Wilson, il britannico Lloyd George ed il francese Clemenceau cercarono subito di ridimensionare notevolmente le rivendicazioni italiane, cominciando proprio dalla città di Fiume, incastonata nello stretto istmo tra Istria e Dalmazia, sino ad allora parte del Regno d’Ungheria, ma prevalentemente abitata da italiani e da una minoranza di lingua croata ed ungherese. Il presidente americano Wilson, in particolare, aveva manifestato tutta la sua ostilità al ritorno della città all’Italia, perché così facendo, a suo dire, si sarebbe violato il diritto all’autodeterminazione delle minoranze slave ed ungheresi lì presenti ma, in verità, si intendeva garantire uno sbocco al mare al neonato Regno di Jugoslavia, (a sua volta frutto di un accordo tra le tre principali potenze vincitrici, tendente a controllare le istanze nazionaliste degli Slavi del Sud, attraverso la creazione di uno stato a capo del quale era stata messa la dinastia serba dei Karageorgevic, sic!). L’idea di una “Vittoria mutilata” percorse come un fulmine l’intera opinione pubblica italiana. L’atteggiamento imbelle del governo italiano davanti all’arroganza dei francesi e degli anglo americani, contribuì ad esacerbare oltre misura quegli animi già provati da anni di guerra e durissime privazioni economiche.  Va detto che, già nell'ottobre1918 a Fiume si era costituito un Consiglio nazionale che propugnava l'annessione all'Italia,[a capo del quale era stato nominato Antonio Grossich. Questo, mentre i rappresentanti italiani a Parigi, Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, dopo aver abbandonato il tavolo delle trattative in polemica con le altre potenze vincitrici e non avendo ottenuto i risultati sperati vi fecero, poco dopo, sommessamente ritorno. A rendere più incandescente la situazione, la creazione di una “Legione Fiumana” da parte di Giovanni Horst Venturi e Giovanni Giuriati, in una città sempre più sconvolta dalle manifestazioni nazionaliste della popolazione e dagli incidenti tra i reparti delle potenze vincitrici lì acquartierati, in special modo tra il contingente francese, distintosi tra i più filo-jugoslavi ed i nostrani Granatieri. Fatti questi, che spalancheranno la strada ad una soluzione inaspettata. Difatti, acquartieratisi a Ronchi, sette ufficiali dei Granatieri scriveranno a Gabriele D’Annunzio, chiedendone l’intervento. D’Annunzio era il Vate, il poeta, massimo portavoce di un decadentismo intriso di niccianesimo adeguato ai parametri dell’estetica nostrana. Folle, spendaccione, esibizionista, volubile anche nelle scelte politiche (eletto deputato, in un impeto di impazienza, non aveva esitato a trasmigare dagli scranni della destra, ritenuti troppo conservatori, a quelli, a suo dire, più vitali della sinistra), non aveva però esitato a buttarsi anima e corpo nel conflitto. Il protagonista della “Beffa di Buccari” e del volo su Vienna, ora stava per immortalarsi con un’impresa veramente degna del suo nome. Difatti, a seguito della missiva di Ronchi, senza alcuna esitazione D’Annunzio lancia la sua offensiva propagandistica, recandosi a Roma per raccogliere adesioni e consensi alla causa fiumana. Poi il grande salto. L’11 Settembre di quello stesso anno, partito da Ronchi, il Vate si mise alla testa di una eterogenea colonna di volontari, formata da reduci rimasti disoccupati, reparti di Granatieri, unità di bersaglieri (lì mandati a fermare D’Annunzio, ma poi entusiasticamente passati dall’altra parte), gli uomini di Horst Venturi e tanti altri entusiasti volontari. Quella che, alla storia passò come “La Marcia di Ronchi”, fu in verità un cammino trionfale. Lo stesso Generale Pittaluga messo con le sue truppe, a guardia del confine orientale, accolse con favore il passaggio dei volontari di D’Annunzio. Il 12 Settembre 1919, fu solennemente proclamata l’annessione di Fiume all’Italia assieme alla costituzione, per l’occorrenza, di un “Gabinetto di Comando” a capo del quale il Vate collocò Giovanni Giuriati. Il giorno seguente, il contingente anglo fancese dopo alcuni scontri con i legionari (con vari morti da una parte e dall’altra), al fine di evitare uno scontro dagli esiti incerti, preferì ritirarsi dalla città. Nel frattempo, l’iniziativa di D’Annunzio continuava a riscuotere sempre più consensi. Questo,  nonostante le scomuniche dell’imbelle ed arrendevole governo Nitti che, per questa ragione, decise di nominare  Pietro Badoglio ( un oscuro personaggio che aveva già dato prova di pericolosa incapacità e conclamata mala fede, durante la prima fase del terribile conflitto appena terminato, sic!) a Commissario straordinario per la Venezia-Giulia. Come primo atto, il Badoglio fece lanciare dei volantini su Fiume, minacciando accuse di diserzione per tutti i legionari. Visto che l'ultimatum di Badoglio rimase lettera morta, il governo Nitti decise di prendere la città per fame, ponendola sotto assedio, bloccando l'afflusso di viveri e generi di prima necessità. Per tutta risposta, il 22 settembre la Nave della Regia Marina "Cortellazzo" si unì ai legionari, mentre  il 25 settembre tre battaglioni di bersaglieri mandati ad assediare della città, disertarono per passare con D’Annunzio. In preda allo sconforto e con la paura di divenire il capro espiatorio per gli insuccessi della politica estera italiana, Badoglio tentò di rassegnare le dimissioni, che furono però fermamente respinte. Tra una novità e l’altra, la questione fiumana andava pericolosamente montando, finendo con il coinvolgere tutte le componenti della politica nazionale, anche quelle di più recente costituzione, come quella che faceva capo a Benito Mussolini. Questi, pubblicamente accusato da una missiva del Vate, di tenere rispetto all’intera questione un atteggiamento di eccessivo attendismo, (e sotto le spinte della base del movimento fascista), dopo aver organizzato una raccolta di fondi, si recò a Fiume per incontrare D’Annunzio, tentando in qualche modo di mediare tra le esigenze di “realpolitik” connaturate all’ingresso del neonato movimento fascista nel proscenio della politica italiana e le simpatie che andavano montando verso le istanze ribelliste del movimento legionario fiumano. Ma a Fiume la  “realpolitik” sembrava, in quel momento, non esser proprio di casa, anzi. Il 10 Ottobre, una nave carica di armi e munizioni, fu assaltata dagli uomini di D’Annunzio che, per quell’occasione, avevano costituito un battaglione di “Uscocchi”, che intendeva nel nome richiamarsi agli antichi corsari dell’Adriatico. Gli stessi colloqui tra D’Annunzio e Badoglio, caldeggiati da Nitti al fine di arrivare ad una soluzione diplomatica della crisi, portarono ad un nulla di fatto. Il 26 Ottobre le elezioni di Fiume videro la vittoria schiacciante della lista annessionista guidata da Riccardo Gigante, che divenne sindaco della città, con il 77% dei consensi, contro la lista autonomista di Riccardo Zanella. La stessa visita di D’Annunzio a Zara assieme a  Guido Keller, Giovanni Giuriati, Giovanni Host-Venturi e Luigi Rizzo all’ammiraglio Luigi Millo, governatore di quei territori, riveste un significato tutt’altro che occasionale. L’incendio fiumano andava rapidamente estendendosi anche all’intera Dalmazia e cominciava a creare dei seri  grattacapi alla diplomazia internazionale, intenta al tentativo di edificare un nuovo equilibrio nell’Europa post bellica. L’occasione per tentare di porre un freno all’intera vicenda, fu rappresentato dalle  elezioni politiche italiane del 16 novembre 1919, che videro la riconferma al governo dell’imbelle Nitti, dal D’Annunzio soprannominato “cagoia”.  Il primo atto del neonato governo, fu quello di tentare di sottoporre al Vate un nuovo accordo-compromesso (“modus vivendi”), a seguito del quale il governo italiano si impegnava ad impedire che la città potesse essere annessa allo stato jugoslavo e ad ottenere per essa lo status di 'città libera'. Il rifiuto di D’Annunzio non si fece attendere ma, contrariamente alle aspettative, con un inaspettato colpo di mano, il 15 Dicembre, il Consiglio nazionale della città di Fiume approvò le proposte del governo italiano, sollevando le proteste di gran parte della popolazione e dei legionari. Per il18 Dicembre, fu indetto dal Vate un plebiscito, immediatamente annullato da questi a causa delle numerose e manifeste irregolarità, che ne stavano vistosamente adulterando il risultato, orientandolo verso il “sì” all’accordo. Le sdegnate dimissioni di Giovanni Giuriati da capo di Gabinetto, imprimono all’intera vicenda fiumana, un’improvvisa accelerazione nella direzione di una soluzione rivoluzionaria, che trovò il proprio coronamento nella successiva nomina nel Gennaio del 1920, a capo di gabinetto, del sindacalista rivoluzionario ed interventista Alceste De Ambris. A Roma tale gesto è visto con timore dal governo liberale e dalle forze “moderate”, da esso rappresentate. L’abbandono della città da parte di alcuni ufficiali dei carabinieri e delle forze armate più legati alla monarchia e lo sciopero generale del 22 Aprile proclamato dagli autonomisti e dai socialisti, legati a doppio filo agli interessi delle potenze occupanti, non fermarono il nuovo corso fiumano, anzi. Con la proclamazione della Reggenza del Carnaro, il 12 Agosto 1920 e con l’ingresso al governo di personalità come Giovanni Horst-Venturi, Maffeo Pantaleoni e Icilio Bacci, si arriva ad un punto di non ritorno. La proclamazione della Reggenza del Carnaro, lungi dall’essere frutto di una casualità o dell’estemporanea uscita di alcuni “estremisti”, rappresenta il coronamento finale di tutta una serie di istanze eterodosse rappresentate dal sindacalismo rivoluzionario e da un certo nazionalismo, che la “Marcia di Ronchi” intese rappresentare sin dall’inizio. La successiva promulgazione dell’avanzatissima Carta del Carnaro, in data 8 Settembre, rappresenta la concreta espressione di quelle istanze. Ben al di là della semplice rivendicazione territoriale, Fiume finisce per l’assumere la valenza di laboratorio per un esperimento rivoluzionario che avrebbe dovuto successivamente essere  esportato in tutta Italia e, (perché no?), nell’Occidente intero. Un laboratorio che vede la partecipazione di numerosi intellettuali “creativi” che, inizialmente su posizioni bolsceviche e libertarie, passeranno poi al Fascismo, come nel caso di Mario Carli, fondatore della “Testa di Ferro”, inizialmente tra i fondatori degli “Arditi del Popolo”, firmatario del manifesto futurista, poi passato al PNF, quale fascista “di sinistra”, o il caso del libertario Guido Keller e la sua associazione Yoga, anch’egli in seguito aderente al Fascismo, solo per citarne alcuni. Allo stesso modo, personalità come Alceste De Ambris, inizialmente su posizioni di acceso nazionalismo interventista, passeranno in seguito alle fila dell’antifascismo. Interessante, tra l’altro, il riconoscimento della neonata Unione Sovietica, verso la quale l’opinione pubblica di allora nutriva un sentimento ambivalente, diviso, da una parte, tra l’interesse per “il nuovo”, e dall’altra dalla paura dei “sovversivi”. In anni successivi, lo stato sovietico verrà fatto oggetto del medesimo sentimento di simpatia, anche da parte dei nazional bolscevichi tedeschi come E. Niekisch e Karl Paetel. La firma del Trattato di Rapallo, tra Italia e Jugoslavia, il 12 Novembre 1920, sancirà, di lì a poco, la fine dell’esperimento fiumano. Questo trattato, approvato dalla gran parte di quell’opinione pubblica legata ai settori più moderati e caldeggiato sulle pagine de “Il Popolo d’Italia” dallo stesso Mussolini, sarà invece osteggiato sia dalla base dei Fasci di Combattimento, impegnati a soccorrere la popolazione fiumana, gravata dalla penuria di alimenti provocata dal blocco in corso da un anno e più, che da settori della sinistra massimalista ed anarchica. Il fermo atteggiamento di diniego del Vate e dei suoi uomini, provocherà da parte del nuovo governo di Giovanni Giolitti l’ultimatum e l’attacco di Fiume durante la Vigilia di Natale del 1920, il cosiddetto Natale di Sangue. Il 26 Dicembre il maresciallo Caviglia, darà via alle ostilità con il bombardamento navale della città da parte della Andrea Doria, sino al 27 dicembre. Gli scontri che ne seguiranno, lasceranno sul terreno alcune decine di morti da entrambe le parti. Il 28 dicembre, D'Annunzio accetterà i termini del Trattato di Rapallo, rassegnando contemporaneamente le proprie dimissioni, con una lettera fatta consegnare dal comandante dei legionari Giovanni Host-Venturi e dal sindaco Riccardo Gigante. L’avventura di Fiume si concluderà nel gennaio 1921, con il definitivo abbandono di Fiume da parte dei legionari, mentre il Vate, per ultimo, partirà il 18 gennaio  per  Venezia. Il neonato “Stato libero di Fiume”, dopo appena due anni di vita caratterizzati da profonda instabilità, causata dai contrasti tra annessionisti e scissionisti, verrà definitivamente annesso allo stato italiano da Mussolini, nel 1924. Questi, dunque, i fatti. Al di là dell’arida narrazione di cronaca, dell’esperienza fiumana si può dire che essa rappresentò il momento di massima confluenza e sintesi, di tutte le istanze rivoluzionarie del 19° e dell’inizio del 20° secolo; essa darà anche il “la”, per tutte quelle esperienze del Novecento declinate all’insegna della ribellione e dell’anticonformismo più completi. Fiume è, al tempo stesso, Nietzsche, Bergson, Dilthey, Stirner, Proudhon, Mazzini, Marx, Sorel, Marinetti e tanti altri. Fiume è Woodstock e tutte le occupazioni non conformi. Fiume è, non solo  militari e reduci, ma anche artisti, studenti, avventurieri, anarchici e nazionalisti “doc”, accomunati da un’irrefrenabile voglia di vita e di ribellione. Fiume è, con le rapine dei suoi “Uscocchi”, il primo episodio di autofinanziamento per la lotta armata, praticato nel Novecento. Fiume è amore libero, ballo, teatro sperimentale, lettura poetica, all’insegna  di uno stato di perenne e generale mobilitazione che, in  D’Annunzio, con i propri continui comizi, vedrà il precursore di quei metodi di comunicazione di massa, in seguito tanto cari ad ambedue i totalitarismi. Fiume rappresenta, in definitiva, quell’ invalicabile spartiacque tra coloro che rimarranno per sempre prigionieri delle oramai consolidate logiche ideologiche occidentali destra-sinistra, e coloro che, invece, le vorranno superare nel nome di una inesauribile spinta vitale. Fiume è, da una parte, rossi e neri che marciano assieme, attraverso la solidarietà e la condanna congiunta dei Fasci di Combattimento e dell’Ordine Nuovo di Gramsci, al vigliacco cannoneggiamento del Natale di Sangue. Ma è anche, dall’altra, la faziosità buonista ed ipocrita di interi settori dell’opinione pubblica controllati dai centri di potere politico ed economico internazionali, il compiacente attendismo, di cui Mussolini pagherà il fio in quel tragico 23 Luglio del ’43. Fiume è l’errore di D’Annunzio di non accettare l’incontro con Gramsci, che avrebbe potuto portare sia la sinistra massimalista che la destra nazionalista a convergere su posizioni comuni, determinando così la nascita di un più ampio e micidiale fronte di lotta all’invadenza del capitalismo mondiale. Fiume è, pertanto, il simbolo della grandezza e della tragedia di un Occidente che, quando vuole, sa ribellarsi alle proprie soffocanti, plurisecolari logiche, salvo poi ricadervi. Fiume è il simulacro di tutte le rivoluzioni tradite, partendo dalla Comune di Parigi e dal Risorgimento, ma è anche il segnale di una mai sopita rivolta. E’ l’Urlo del Futuro, perchè ci richiama potentemente ad un’idea di “Altra Modernità” che, anche se soppiantata dalla propria adulterata versione “tecno-economica”, cova tuttora sotto le ceneri e, prima o poi, tornerà a far sentire potentemente la propria voce. Anche se le condizioni storiche sono differenti, quello odierno è un altro “momento di rottura” nella trama della Storia. La attuale fase di Globalizzazione sta mostrando tutti i propri limiti. Il percorso ideologico nato con certo Illuminismo e poi via via andatosi sviluppando con il Positivismo, il Liberal-Capitalismo, l’Evoluzionismo, il Marxismo e le sue più tarde filiazioni Liberal-Progressiste, sino all’attuale ciclo all’insegna dell’Ultraliberismo, sta ora mostrando tutti i suoi limiti, incapace di dare delle risposte ad un crisi sistemica, oramai senza uscita. Fiume può allora per noi, rappresentare il punto da cui ripartire, per riprendere un percorso all’insegna di un rinnovato senso di volontarismo, di vitalismo, di irrazionalismo, che dovrebbe stare alla base di quell’ inquieto e proficuo ricercare nuovi orizzonti ideologici, verso cui indirizzare un’azione volta ad edificare “ex novo” il presente ed il futuro.                                                        

La dittatura di Pierino

 

Certo, a vederlo là, il Renzi è personaggio che non può non suscitare simpatia. E’ quello che a scuola aveva la battuta sempre pronta, che davanti ai compagni (ed alle compagne, sic!) di classe ti metteva prontamente in mutande, tra risa e sollazzo di tutti, amplificate dall’inflessione toscana che rende ancor più pregnanti ed esilaranti le proprie uscite. Renzi è quello che, quando parla, non sai mai se scherza o fa sul serio, pronto com’è ad amollarti chissà quale strano “pacco”, sempre lì vagolante, tra i banchi della scuola, l’oratorio o il bar dello sport. Renzi sembra incarnare alla perfezione il ruolo di Pierino, il “puer aeternus” delle più salaci “boutade” all’italiana, quello che, quando e come meno te lo aspetti, ne fa di tutti i colori, a nonno, zia, signorina o amico, lasciando gli astanti senza fiato per il ridere. Ed il Nostro, nella realtà, in quanto a “pierinate”, sembra non esser secondo a nessuno. Da bravo cattolico, in un afflato di italica spiritualità, non esiterà ad intesser alleanza con i rossi aficionados del materialismo storico, lì rappresentati nella loro versione più “hard”, di toscanacci spara-bestemmie. E’ grazie a questo inedito asse rosso-bianco, a questa specie di gambero all’italiana, che il nostro Pierino-Renzi, tra bestemmie, battute e stage all’oratorio, si fa strada, sino ad arrivare nientepopodimenoche, alla carica di sindaco di uno dei gioielli d’Italia, Firenze. Ma a Pierino-Renzi, tutto questo non basta. Come nella migliore (o peggiore…) storiella della serie, Pierino cerca di fottere i nonni che tanto lo hanno aiutato. “Basta!” “Sei vecchio!” “Vattene”, dice lui, proponendosi  con fare serioso a “rottamatore”, di fronte alle adoranti plebi piddìne. E già. Lui non è più l’inquieto pargolo, di una chiassosa nidiata da oratorio, a cui, di quando in quando, bastava uno scappellotto. Ora con Lui i conti tocca farli per davvero. Ed ecco che “nonno” D’Alema, Veltroni,  Bersani, ma anche le “nonne” Bindi, Finocchiaro e compagnia bella, come per incanto, svaniscono. “Svecchiamento” della politica, dicono loro. Faccette giovani, modi “casual”, non bastano però, lasciando invece aperto più di un ragionevole dubbio, agli occhi di un attento osservatore. Pierino-Renzi, parla di “innovare”, “riformare”, “cambiare”, con il desiderio di imporre addirittura una riforma al mese, all’agenda dell’azione del suo governo. Parte con la lancia in resta, il nostro, contro la bestia della burocrazia italiota, ma non fa alcun accenno allo strapotere delle lobby finanziarie, che oggi reggono i destini del mondo intero. Parte a testa bassa con la riforma del lavoro; meno regole, meno cavilli, sì certo, dimentico del fatto che, finchè c’è il circo di Bruxelles non possiamo rilanciare un bel niente, visto che i vincoli “comunitari” ci impediscono di fare alcuna politica di bilancio o di nazionalizzare alcunché. Renzi pensa tosto alla riforma elettorale, ma di riforme del meccanismo del signoraggio bancario, della Banca Centrale Europea e delle banche in genere, proprio non ne vuole parlare. Renzi dice di voler fare scelte coraggiose, ma il coraggio di parlare di uscita dall’Euro, proprio non ce l’ha. Renzi vuole svecchiare la politica, ma di abolire quell’odioso ed antico lascito, chiamato “segreto di stato”, non ne parla minimamente. Renzi ha detto che sarebbe divenuto presidente del consiglio, unicamente con l’ “incipit” popolare, ma non ha esitato a fare le scarpe al proprio collega di partito, il presidente del consiglio-monaco Zen Letta, senza passare minimamente attraverso alcuna forma di legittimazione popolare. Ma Renzi è simpatico. Con il suo fare guascone, ci fa tornare alla mente un altro “Pierino”, però d’Oltreoceano: Bill Clinton. Forse vi sarete già dimenticati: con lui quante risate rispetto al tetro ed impacciato George Bush! Stava sempre lì a spisciarsi per le battutacce di Eltsin, rideva e faceva la corte a tutte le gnocche che gli capitavano sotto tiro, salvo poi finire nei guai per quella racchiona della Lewinski. Certo, rispetto alla Marilyn di Kennediana memoria c’è un vero e proprio abisso di differenza, ma tant’è! Anche se, pure in questo caso si trattò, in fin dei conti, di una immane goliardata in salsa yankee. Meno divertente è stata però la silenziosa “deregulation” dei mercati finanziari, con l’immisssione di miliardi di dollari di “junk bonds/titoli-spazzatura”, che ha fatto ben presto saltare i già precari equilibri delle economie mondiali, mandando in fumo risparmi, posti di lavoro e speranze di milioni e milioni di persone, inclusi non pochi cittadini americani. E poi, che dire di Dayton, del simpatico “spezzatino” jugoslavo, dei bombardamenti “umanitari”, del Kossovo strappato alla Serbia, delle frettolose accuse di stragi di civili, dell’edificazione nel cuore d’Europa di uno stato dipendente dai petrodollari sauditi? Ma Clinton è simpatico e ad uno così, gli si perdona proprio tutto! Certo, il nostro Renzi è, in fin dei conti, solo un italico Pierino che certi guai planetari non si può manco sognare di farli ma, viste le premesse, possiamo scommetterci che, chissà che non gli riesca di assestare il colpo di grazia al Bel Paese, magari svendendo il Colosseo a qualche sceicco di Abhu Dabi…Però,   un’analogia tra le vicende dei due “Pierini” la possiamo sicuramente fare. Le storiacce di Pierino si concludono sempre e solo in un modo: Pierino sta, alla fine, sempre lì, con la lampo aperta, pronto a fottersi qualcuno. Un po’ come il vecchio Bill-“cerniera” Clinton con le varie stagiste della Casa Bianca o, ahimè, come qualche nostrano Pierino, con una bella e sfortunata Italia, con le braghe già sin troppo calate…

Le Pen e dintorni

 

Da qualche giorno Roma è tappezzata di strani manifesti su cui in sovrapposizione alla foto di Marie Le Pen, (la candidata alle presidenziali francesi il cui successo ha spiazzato tutti i vari benpensanti) campeggia una scritta, il cui testo suona come un peana al trionfo di una certa “destra” con cui si vorrebbero condividere aspirazioni e successi. Il manifesto firmato dai “destropositivi” di Storace e compagnia bella ci lascia con non poche perplessità. Sì perché quella di Marie Le Pen, se “destra” può esser definita, è qualcosa di peculiarmente e radicalmente differente da quella italiana, alla quale è accomunata solamente dalla condivisione del simbolo della fiamma tricolore. Di questo se ne è ben avveduto il filosofo francese Michel Onfray, dissacrante, antifascista, ipercritico all’eccesso, ma straordinariamente prudente riguardo alla vicenda dell’ascesa del Front National, così come enunciato in un recente editoriale comparso su “Repubblica”. Con un acume stupefacente per uno che viene dalle file di certa sinistra, Onfray fa notare che quello della Le Pen non è il successo di quel becero neofascismo, a suo dire incarnato dall’anziano padre-padrone del Front, Jean Marie, bensì di un diffuso e largo malcontento che attraversa la società francese e che in questo caso, è stato incarnato dal nuovo modo di approcciarsi della candidata. Un modo che, a suo dire, ripercorrerebbe quanto a suo tempo fatto da Fini con il vecchio MSI. E qui, però, Onfray prende uno sfondone da non poco conto perché, se è vero che la Le Pen ha sicuramente adottato un linguaggio più “morbido” per i media, non ne ha però sminuito la durezza e l’intransigenza dei contenuti, anzi. Il fatto è che la Nostra ha usato la medesima metodologia di Fini per arrivare però allo scopo opposto. In questo caso il superamento del nostalgismo e del neofascismo legati a Vichy è unicamente servito al Front a slegarsi le mani, per assurgere alla dimensione di esperienza politica all’insegna di un radicale e duro populismo democratico, plebiscitario identitario ed irresolutamente anti globale. Lo testimoniano i suoi decisi NO all’Euro, al baraccone comunitario di Bruxelles, alla NATO, all’immigrazione ed anche le posizioni prese nel più recente passato dal padre Jean Marie durante l’invasione Anglo americana dell’Iraq. Quella della Le Pen è, insomma, la classica politica del pugno di ferro nel guanto di velluto, di matrice opposta a quella della destra italiana. Qui, il superamento del neofascismo da parte di Fini, ha unicamente comportato l’appiattimento su posizioni di matrice liberal, pesantemente condizionate dai diktat berlusconiani, ed in più, codinamente seguite da una larga fetta di quell’ “ambiente”, accecato dall’idea di accedere a tutti i costi alla sala dei bottoni, con tutte le conseguenze che questo ha poi portato ed oggi sotto gli occhi di tutti. Confusionarismo, approssimazione e faciloneria hanno caratterizzato gli anni della “destra” italiota al governo, portando poi diritti diritti all’attuale governo Goldman-Monti. Né oggi è dato di vedere nelle nostrane destre, vecchie o nuove che siano, alcunché di minimamente comparabile con il Front  francese. Solidarismo buonista, uno spudorato filo atlantismo, fanno qui comunella con un nostalgismo utile solo a fare starnazzare allo scandalo le solite vecchie oche dell’antifascismo, che tanto bene assolvono allo scopo di far dimenticare i reali problemi del paese. E dire che fare politica in Francia su posizioni antagoniste, non deve essere cosa certamente facile. Qui leggi repressive e liberticide (quale quella per cui, qualunque critica ritenuta troppo dura all’immigrazione può esser punita con denunce o carcere, così come accaduto all’attrice francese Brigitte Bardot, sic!) fanno il paio con un sistema elettorale che punisce le minoranze, così come nei desiderata del Mondialismo, lasciando spazi veramente angusti a qualunque espressione di pensiero non conforme. Ma la Francia è anche paese in cui, un forte senso critico è coniugato con un potente sentimento di appartenenza nazionale. La Francia ha non ha solo prodotto la Rivoluzione Francese, ma anche Napoleone, la Comune di Parigi, Proudhon, Blanqui, Sorel ed una miriade di pensatori non conformi oltre, nel passato più recente, a uomini come De Gaulle che, nel generale clima di asservimento europeo ai voleri d’oltreoceano, mostrò di avere il coraggio di dire “no” al totale asservimento della Francia agli USA. E, senza alcun dubbio, Marie Le Pen si sta avviando sulla strada giusta, riconfermando che la rivolta ai diktat mondialisti sta cominciando a prender corpo in forme, queste sì assolutamente inedite ed inaspettate, ben lasciando a sperare. Perché in Italia si possa arrivare, però, alla costruzione di un soggetto politico realmente antagonista, occorrerebbe arrivare al superamento di tribalistici sensi di appartenenza, senza però arrivare a  stupidi e nocivi rinnegamenti. Occorrerebbe, invece, quella che si potrebbe definire “coscienza critica”, ovvero la capacità di saper coniugare la coscienza dell’appartenenza ad un forte senso critico, in grado di saper sollecitare e sviluppare nuove forme di progettualità politica svincolate dagli attuali ed asfissianti schemi. Solo così si potrà addivenire alla creazione di quel “Frente amplio/Fronte ampio” in grado di contemperare ed assommare in sé il rosso, il nero e tutto l’arcobaleno dei colori dell’antagonismo, aprendo ,in tal modo, la strada alla lunga e difficile riscossa dagli asfissianti ed alienanti diktat mondialisti.

Una protesta pericolosa?

 

Brutta cosa quando la gente comincia a muoversi, al di là di sigle, partiti, parrocchie. Ed ancor peggio, quando ai rivoltosi l’occhio lo cominciano a strizzare quelle forze dell’ordine che, di solito, dovrebbero mantenersi “super partes”. Un gran brutto segnale per tutti. Per tutti i cantori di un facile ottimismo che, figlio di una lettura un po’ sopra le righe dei dati statistici, preannuncia in modo roboante miracolose riprese economiche, mentre la disoccupazione in questi ultimi tempi ha subito un aumento di più del 30%. Un brutto segnale anche per tutte quelle alte cariche dello Stato, che dicono di non voler sentire almeno sino al 2015, la voce del popolo imbufalito attraverso il voto, perché Letta fa più “trendy”. Brutto segnale anche per tutti quei riformatori da strapazzo, figli delle varie scuderie di partito, che credono di potersi far belli con l’opinione pubblica, solo perché sono più anagraficamente giovani delle precedenti classi politiche. Brutto segnale anche per i signorini di Bruxelles, che ora cominciano a vedere che le cose non vanno come avrebbero voluto. Un brutto segnale, per una brutta situazione. Oggidì partiti e partitucoli, latrano sulla nuova legge elettorale, dimentichi che certe leggine le hanno fatte proprio loro. Costoro concionano seriosi di “sindaco d’Italia”, ovverosia di un qualcosa che assomigli ad un modello presidenzialista ed efficientista per il governo e la gestione della “res publica”, dimentichi che certe tematiche sono sull’agenda dei vari governi da più di venti anni. L’Italia si è arenata sul “porcellum” e sul “mattarellum”, sulle mutande di Silvio e sul giuoco al rimpallo delle responsabilità, unico vero elemento dell’attuale coesione e forzata convivenza del ceto politico nostrano, rappresentata dal governo “Alfetta”. Nessuno ha però il coraggio di dire o fare pubblicamente qualcosa contro le cause di tutto questo e prova ne sia che, i “duri e puri” del berlusconismo, hanno l’altro giorno nuovamente votato a favore delle cosiddette “missioni umanitarie all’estero”, ovverosia per la continuazione dell’inarrestabile emorragia e sperpero del pubblico danaro, in iniziative lontane anni luce dagli interessi concreti della gente. Ed intanto, l’Italia continua qua e là a franare, travolgendo vite innocenti e lasciando agli altri le rovine e le responsabilità di anni di incuria, malaffare e totale assenza della presenza dello stato sul territorio. Questo, a non voler ricordare che noi siamo l’ultima, tra le economie più avanzate d’Europa, a non riciclare i nostri scarti ed anzi, a proseguire nella criminale pratica dell’interramento di questi stessi, alla faccia della salute delle popolazioni e questo, sempre perché c’è qualcuno che ci deve mangiare sopra. Per questo, i giovani “eletti” nelle fila di questo o quel partito non ci convincono affatto, espressione come sono di interessi “superiori”. Che poi questo o quel candidato, si facciano latori di proposte volte ad innovare parzialmente l’architettura di un sistema istituzionale oramai decrepito, può pure andar bene a livello di contingenza, ma senza dimenticare che lo spirito che anima queste istanze è uno solo: l’omologazione e la sottomissione al nuovo ordine globale ed ai diktat della finanza internazionale. E’ strano come, in mezzo a tanto concionare di riforme, cambiamenti ed ottimismi in varie salse, nessuno abbia sinora osato, che so io, mettere seriamente in discussione l’Euro, partendo con la proposta di nazionalizzare le banche centrali o rimettere in gioco la centralità degli interessi economici e politici nazionali, di fronte all’arroganza ed alla protervia della UE e delle politiche di sciacallaggio dell’FMI. Nessuno vuole a toccare certe note dolenti; credono di prenderci in giro raccontandoci la fola per cui procedendo con queste regole, le cose possano migliorare, magari grazie anche a qualche bel faccino giovane alla Renzi o alla Meloni. Nessuno osa, nessuno dice, nessuno fa. Eppure, mai come oggi, l’occasione per innestare un rilevante cambiamento di marcia, è stata così a portata di mano. E’ bene che, dopo un primo momento di euforia e confusione, tutte le realtà antagoniste, tutte le individualità non conformi, inizino a ragionare sul come e cosa fare. Sulla possibilità di creare una comune piattaforma d’azione, un Frente Amplio, che possa fungere via via da catalizzatore. Oggi qualche possibilità in questo senso, sembra essersi aperta con movimenti come il Cinque Stelle il cui tormentato percorso, lascia tuttora con non pochi dubbi. La tendenza a voler ricercare il dialogo con determinati settori della partitocrazia, dall’apparenza innovatrice, è un chiaro segnale in questo senso. Bisogna pertanto guardare a 360°, favorendo più che mai, la nascita di iniziative spontanee, veri e propri cantieri di protesta e di proposta, per far sì che il Sistema globale perda le briglie del controllo e della manipolazione delle coscienze. Democrazia partecipativa, Comunità, Sovranità. Questi sono i principi cardine, a cui si dovrà rifare qualunque tentativo volto a restaurare il primato dello “zoon politikòn/uomo politico”, sull’alienante modello occidentale, senza ricadere in errori e confusioni esiziali.

Il Keynesismo che verrà

 

Crediamo di non sbagliare se, guardando al risultato conseguito dal Front National della Marine Le Pen alle elezioni amministrative in Francia, possiamo tranquillamente affermare che questo è il primo, forte segnale di una profonda inversione di tendenza che, ben presto, toccherà l’intero Vecchio Continente e che poi andrà, via via, espandendosi in tutto il mondo. Il malcontento per le istituzioni europee o euroscetticismo, al pari del profondo disagio sociale determinato da una perdurante crisi economica, nascondono in verità una realtà ben più gravida di conseguenze di questi fenomeni. Il liberismo economico, il capitalismo, nella sua più intima aspirazione di voler demandare ai privati la gestione  ed il pieno possesso di tutti gli aspetti della realtà, hanno clamorosamente fallito. Nonostante il Front National non sia esplicitamente anti capitalista, anzi, il ritorno alla Nazione, intesa come Koinè di intenti, aspirazioni ed istanze, porta ad una  necessaria rivisitazione dei paradigmi socio economici che hanno caratterizzato l’Europa (ed il mondo intero,sic!) negli ultimi decenni. La maggior fluttuazione valutaria, assieme all’allentamento dei vincoli che regolavano gli scambi commerciali internazionali, promosse dal governo Nixon, sancirono la fine degli accordi di Bretton Woods e determinando decenni di continua instabilità economica, fecero da battistrada all’avvento del turbo capitalismo ed alla Globalizzazione degli scambi, della circolazione dei capitali, delle persone ed anche di certe malsane idee…Ora, il mito di una crescita economica senza fine, il sogno di un inarrestabile progresso, si è andato ad incagliare definitivamente, su una realtà sempre più caratterizzata da momenti di euforia delle varie economie, accompagnati da brusche crisi e ricadute, determinate dalla progressiva volubilità dei mercati finanziari. Quella del 2008 si è rivelata poi essere la madre di tutte le crisi, avendo assunto una natura strettamente sistemica, ovverosia non occasionale, ma strettamente insita a questa fase del sistema capitalistico stesso, gettando pertanto la maschera sulla natura di quest’ultimo. In Italia, oggi, si fa un gran parlare di crisi, di Pil, di spread. Ogni anno sembra quello buono ed invece nulla; la crisi è là che morde come e più di prima. Le cifre da prefisso telefonico che danno corpo ai timori generati dalla crisi, non lasciano scampo: l’Italia vive una fase di recessione sinora mai vista. Non facciamo più parte del G8. Almeno per quanto riguarda il Pil. Quando nel 2014 l’Italia sarà di turno alla presidenza dell’Unione europea, continuerà a partecipare al G8 senza più essere fra i primi otto grandi paesi industrializzati. Vi rimarrà solo per una consolidata convenzione, legata alle precedenti “performances”, ma sicuramente non per gli attuali risultati. Superato dalla Cina nel 2000 e dal Brasile nel 2010, quest’anno il nostro paese  subisce un ulteriore sorpasso da parte della Russia, calando così al nono posto per Pil, superato di 50 miliardi di dollari alla fine del 2013. A dar retta ad alcuni recenti dati del Fondo monetario, dal 1980 la Cina è cresciuta di 29 volte, l’India di 9, gli Stati Uniti di 5,8. Il tutto mentre l’Italia, in buona compagnia di altri paesi europei come Germania, Francia e Gran Bretagna, negli ultimi 40 anni, avrebbe vissuto una crescita economica, moltiplicata solamente per quattro. Sempre a sentire la stessa fonte, fra non oltre cinque anni l’Italia sarebbe fuori anche dai primi dieci posti , superata da Canada e India e relegata all’undicesimo posto, per il quale oggi competono Spagna e Corea. Ad onor del vero, però, certi dati statistici andrebbero letti ed interpretati con molta attenzione (specialmente se si tratta di dati FMI, sic!). Il fatto che determinati paesi, (un tempo considerati “sottosviluppati” o comunque affetti da gravi difficoltà strutturali) in un tempo relativamente breve, stiano ottenendo delle “performances” economiche ad oggi impensabili in Europa, non significa né comporta il raggiungimento di quegli standard di benessere medio, inteso come aspettative di vita, reddito pro capite, consumi, etc., riscontrabili tuttora in paesi come Europa Occidentale, USA, Canada, Giappone e qualcun altro. A dimostrazione di quanto qui detto, il dato di fatto che, con tutta la crisi economica, questi paesi sono tuttora oggetto di una massiccia immigrazione proveniente proprio da quelle cosiddette ”emergenti” realtà. Non solo. La Globalizzazione avviluppa tutti i soggetti geoeconomici del pianeta (sia a livello di singole nazioni, che di veri e propri blocchi sovranazionali) in una vera e propria tela di interconnessioni, per cui qualunque epifenomeno di natura politica o economica o finanziaria che dir si voglia, finisce con il produrre effetti su tutte le realtà circostanti, in virtù di un vero e proprio effetto “domino”. Gli effetti dell’attuale crisi, pertanto, si stanno cominciando a far sentire anche in questi paesi. Il calo del potere d’acquisto in Occidente, implica una diminuzione del fatturato delle esportazioni di questi paesi. La necessità di stimolare i propri consumi interni, sia in virtù di una legge economica di reciprocità con le altre realtà economiche mondiali, sia per sopperire agli effetti della crisi che colpisce i consumi dei paesi occidentali, portano giuocoforza ad un aumento del costo del lavoro e ad un rallentamento dei livelli di crescita. Il tutto, senza voler contare che certi “trend” di crescita sono per lo più gonfiati dalla speculazione finanziaria internazionale, mirante ad ottenere risultati strabilianti in breve tempo, attraverso il disinvolto utilizzo del credito pubblico e privato o  di strumenti finanziari “sporchi” (junk bonds, mutui “subprime, etc.), che determinano una crescita drogata, solo al fine del conseguimento di un risultato statistico, senza però alcun rilevante incremento infrastrutturale. Al primo cenno di crisi, la speculazione abbandona al proprio destino queste realtà, che finiscono con il ritrovarsi con gli stessi, irresoluti, problemi di sempre. Il caso del Brasile e delle sue recenti rivolte sociali, è emblematico di quanto qui affermato. Per quanto riguarda il contesto europeo ed italiano, invece, la cronicizzazione della crisi è dovuta sicuramente ai fatti di cui abbiamo parlato, a cui vanno aggiunti alcuni peculiari elementi, di non trascurabile entità. La delocalizzazione, anzitutto, ha stravolto i già precari equilibri dell’economia nostrana, consentendo di trasferire interi comparti produttivi italiani, in realtà quali Polonia, Serbia, Thailandia, etc., il cui costo di lavoro, a tutt’oggi, risulta essere più basso del nostro, generando una crisi occupazionale senza precedenti. L’abolizione dei dazi, che ha permesso l’invasione dei nostri mercati da parte di merci e manufatti prodotti a basso costo in quei paesi il cui costo del lavoro, è più basso del nostro (Cina, etc.). La mancanza di quelle barriere protettive erette a difesa delle varie economie nazionali e che una volta non permettevano l’ingresso, o addirittura l’acquisto indiscriminato di intere aziende, da parte di soggetti esteri. La finanziarizzazione delle economie, attraverso l’abolizione di tutte quelle norme che, come la “Legge Steagall” (che proibiva la fusione tra banche d’affari e banche di risparmio, sic!) o quelle che proibivano le “trust” tra banche ed assicurazioni o tra mega istituti bancari, regolavano o, quanto meno, arginavano in parte lo strapotere delle banche. L’immigrazione, ovverosia la progressiva sostituzione e frantumazione delle classi lavoratrici di un paese, a favore di elementi allogeni, disponibili a lavorare a costi molto più bassi dei locali. L’incartamento delle dinamiche sociali e produttive in una forma di satrapia burocratica (da alcuni mentecatti spacciata quale “socialismo”), che crea delle vere e proprie zone franche, improduttive, al cui bacino elettorale attinge un potere politico oramai arroccato sulle proprie posizioni, anche se, con estrema malizia ed astuzia, finge di volersi auto rinnovare. Di fronte a questo scenario, l’elezione di Marine Le Pen in Francia, rappresenta un primo ed importante segnale di rottura con la precedente tradizione di “moderatismo” europeista, espressa dai finti binomi destra-sinistra o conservatori-progressisti. Riportando l’attenzione sulla Koinè/Comunità come viva espressione del carattere e delle aspirazioni di un popolo, si finisce giuocoforza con il rimettere in discussione un’idea di economia (e pertanto del capitalismo!) che sinora sembrava andare per la maggiore. Allora, prepotente ritorna quella domanda che, come un silenzioso tarlo, sembra corrodere le coscienze di tutti, ma a cui nessuno vuole e osa rispondere: quale modello economico, per il travagliato 21° secolo? Vuoi vedere che ci tocca rivalutare il vecchio Marx, sebbene su di lui se ne siano dette di cotte e di crude? Un fatto è certo: una Francia lepenista potrebbe far tornare quanto meno indietro di molti anni, l’orologio delle scelte economiche del Vecchio Continente, proprio in nome di quella strettissima interrelazione tra le situazioni, che caratterizza l’attuale contesto globale e che, pertanto, rende molto più intrinsecamente fragili, scelte ed equilibri. A tal proposito, c’è un fantasma che si aggira tra i responsabili delle politiche economiche del Vecchio Continente ed è quello di J.M.Keynes. Rassicurante ma anche denso di incognite. Incognite rappresentate dai risultati poco confortanti che decenni di keynesismo, applicati in chiave burocratica, hanno portato un po’ ovunque. Smisurata crescita del debito pubblico, stagnazione, stagflazione, inflazione e poi, infine, la folle corsa a liberarsi della sempre più ingombrante presenza di un settore pubblico, oramai divenuto la fonte primaria di un debito infinito. E allora tutti giù a privatizzare, svendere, come ossessi. La parola “stato” o “pubblico” sembrava equivalere ad una bestemmia. E poi, privatizzare corrispondeva a sanare. E poi la delusione, grande. La scoperta che un capitalismo decadente per andar avanti ha bisogno del debito, alimentato e sostenuto da rendite puramente finanziarie. E giù, quindi, a crear titoli dal nulla. Quel nulla che tutto si riprenderà, spazzando via speranze, aspettative, guadagni, in un crescendo di crisi da cui, tutt’ora, non si vede via d’uscita. Sì, questa è la storia in breve delle vicende legate al keynesismo ed alle sue distorte applicazioni. Resta, comunque, la considerazione che, il fallimento del liberismo, riporterà i governanti europei a considerare, quanto meno, il ritorno ad un keynesismo, seppur di maniera. Ed è a questo punto che, per tutti coloro che intendono porsi su una linea di netto antagonismo rispetto al dominante “status quo”, porsi il non più rinviabile quesito su quali possano essere le modalità e le forme per dar luogo ad un socialismo del 21° secolo. Un socialismo che possa da fungere da valido bastione e contraltare alla micidiale capacità di adattamento dell’attuale capitalismo. Ma a quale socialismo fare riferimento? A quello marxiano per caso? O forse a quello di Proudhon o, ancor meglio, a quello dei piani quinquennali? Non sarà meglio quello delle socialdemocrazie europee? O forse quello del totalitarismo fascista? O non sarà che le forme-pensiero in cui si sono espresse le grandi narrazioni ideologiche del Novecento (marxismo e fascismo, sic!) oggi potrebbero essere inattuali o, quanto meno, invalidate da non indifferenti vizi di forma, che ne renderebbero problematica un’applicazione “tout court”? Di fronte a tutte queste tematiche, il “populismo” della Marine Le Pen, sebbene possa ispirare un’istintiva simpatia, non è sufficiente. Se non accompagnato da una più incisiva azione di dibattito e chiarimento programmatico, in Francia come nel resto d’Europa, rischia di trasformarsi nell’inconsapevole veicolo di un keynesismo addomesticato alle esigenze di un capitalismo, a cui altro non rimane che tornare ad affidarsi ad iniezioni di denaro pubblico. Prova ne sia, che il programma economico della Le Pen è, per ora, impostato su un moderato liberalismo. L’uscita dall’Euro o dalla stessa Comunità Europea, potrebbero non rivelarsi assolutamente sufficienti, senza una chiara idea su dove e cosa andare a toccare.  Nazionalizzare le attività economiche strategiche, industriali e finanziarie, banche centrali in primis, estromettendo i privati dal processo di emissione del denaro, agevolando, invece, tutte le forme di azionariato diffuso, di piccola impresa o di struttura economica cooperativistica. Rimettere in discussione ed annullare gli accordi frutto del WTO. Tornare alla piena sovranità economica (possibilità di fare bilancio, svalutare la propria valuta nazionale, etc.). Di fronte alla saturazione del processo di industrializzazione o di creazione di infrastrutture, puntare al rinnovo ed all’ottimizzazione di queste. Fare un uso (questo sì!) “keynesiano” del denaro pubblico, creando milioni posti di lavoro nel settore dell’ambiente,  il cui livello di degrado (specialmente in Italia!) dovrà essere oggetto di un immane lavoro di messa in sicurezza, ristrutturazione e rivalorizzazione, che potrebbe coinvolgere una forza lavoro quantificabile in milioni e milioni di braccia. In conclusione, fare dell’Europa una Comunità di Stati Indipendenti (e non l’espressione di un circo equestre legato al carrozzone degli USA) estesa alla Russia e contrapposta all’arrogante espansionismo mercantilista degli atlantici, all’insegna di una nuova etica comunitaria. Questi obiettivi di massima, sono imprescindibili per chi, oggidì, voglia svolgere un’azione di intelligente contrasto all’avvento della dittatura globale. E queste prossime elezioni europee potrebbero (il condizionale è d’obbligo!), rappresentare l’occasione giusta per far affiorare a livello macropolitico, nuove e più radicali istanze. L’importante è, però, non confondere i gattopardi in cerca di nuove legittimazioni politiche, con i  sinceri antagonisti. Un po’ come coloro che scambiano papponi, spacciatori e criminali comuni ucraini sovvenzionati dagli USA,( unicamente ed esclusivamente in funzione anti-russa) per dei sinceri ed onesti idealisti.

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