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La tematica della globalizzazione del capitale

 

Molti si interrogano oggidì sull’opportunità dell’adozione della Moneta Unica Europea (Euro), ma ancora di più sono coloro che, inizialmente incantati dall’ossessiva pubblicità data al “lieto evento”, oggi si trovano a dover fare i conti con quanto mai inaspettati ed improvvidi aumenti dei prezzi di tutti i generi di consumo. Qualcuno vi dirà che sono quei birbaccioni dei commercianti che hanno approfittato dei vari entusiasmi per aumentare a piacimento i vari prezzi. Qualcun altro, più seriamente, vi parlerà di una moneta al servizio di una euroburocrazia, insensibile alle differenti esigenze dei popoli europei. Arriverà, infine, chi vi dirà che l’Euro è il risultato della nefanda azione del Mondialismo; nessuno di costoro, però, sarà in grado di darvi una spiegazione esauriente, in grado di andar oltre ad analisi che, all’insegna di un frettoloso massimalismo ideologico, vi lasceranno con gli stessi interrogativi con cui siete partiti. L’unica risposta possibile, può venire dalla conoscenza delle varie vicissitudini che hanno accompagnato il sistema monetario (strettamente interrelato alle economie dei vari paesi) negli ultimi tre secoli. C’è da dire, anzitutto, che praticamente sino al 19° secolo la circolazione di valuta era indifferentemente espressa in oro, argento o rame. Le ultime due monete erano prevalenti nell’uso quotidiano, mentre l’oro era adoperato per le grandi transazioni commerciali.

Molto spesso le monete potevano essere coniate in rame con una leggera filigrana d’oro che veniva aumentata o diminuita a seconda delle necessità finanziarie che la situazione imponeva, come si usava fare nell’antica Roma. Il Medioevo e l’Età Moderna vedranno, invece, la predominanza dell’argento, metallo più duttile e malleabile rispetto al troppo leggero oro, o al troppo pesante rame.

Le cose cambieranno sensibilmente nel 18° secolo, quando nel 1717 sir Isac Newton, allora sovrintendente alla zecca britannica, fisserà un prezzo dell’argento troppo basso rispetto a quello dell’oro, provocandone la sparizione dal mercato britannico.

In quel momento, grazie alla nascente Rivoluzione industriale, la Gran Bretagna stava avviandosi a diventare la nazione guida nel campo della finanza e del commercio mondiali. Da quel momento i paesi che desideravano avere scambi con la Gran Bretagna, videro nella valuta aurea un’alternativa alla moneta d’argento. Da tali autonomi provvedimenti prenderà l’avvio un sistema internazionale di cambio fissi correlati con l’oro. Ma perché un simile processo possa arrivare a compimento, bisognerà aspettare il 1870. Prima d’allora il mondo sarà, dal punto di vista della circolazione monetaria, suddiviso in tre aree: quella ad esclusiva circolazione aurea, rappresentata unicamente dal Regno Unito, quella in cui era in vigore un regime di circolazione argenteo, come gli Stati Tedeschi, l’Impero Austro-Ungarico, la Russia, la Scandinavia e l’Estremo Oriente ed infine gli Stati a regime “bimetallico”, quelli che avevano cioè adottato la contemporanea circolazione di valuta d’oro e d’argento, di cui la Francia sicuramente costituiva il più importante esempio. Secondo talune scuole economiche, il mantenere in vita il sistema di circolazione bimetallico comportava dei notevoli svantaggi. Il principale consisteva nella capacità stabilizzatoria di questo sistema solo se le quantità di oro e di argento in circolazione non fossero state molto rilevanti; in caso contrario fluttuazioni troppo ampie avrebbero potuto annullare le riserve del metallo in ribasso, e non potendone più esportare, il regime bimetallico di un qualsivoglia paese, avrebbe perduto la base del sistema dei cambi. Un fatto questo che avrebbe reso il tutto estremamente vulnerabile ad attacchi speculativi o ai drastici sconvolgimenti determinati dai massicci arrivi di oro e di argento dalle Americhe e dall’Australia, che contrassegnarono molte fasi della vita economica del Vecchio mondo a partire dal 16° sino agli anni cinquanta del 19° secolo. Non ostante tutti questi fatti, il sistema bimetallico restò in vigore sino ad oltre il 1870, passando attraverso alterne vicende. Con il progressivo intensificarsi degli scambi commerciali internazionali, conseguente alla riduzione delle tariffe doganali, assieme alla minor incidenza dei costi di trasporto, farà sì che in molti paesi si intensificherà la circolazione di monete estere d’argento. Le nazioni maggiormente coinvolte in questo fenomeno, resesi conto dell’interdipendenza tra le loro valute (e di conseguenza tra le loro economie) cercarono di porre le basi per un andamento più ordinato dei flussi valutari, tramite accordi che determinarono la nascita delle prime unioni monetarie. Il 1865 vede la nascita dell'Uni’ne Monetaria Latina, composta da Belgio, Francia, Italia, Svizzera e Grecia che stabilì un comune valore di convertbilità delle monete d’argento. Gli eventi della guerra franco-prussiana del 1870 costringeranno Francia, Russia, Itali ed Impero Austro-Ungarico, a sospendere la convertibilità delle proprie valute.

All’indomani di questo conflitto, la Germania forte dei risarcimenti di guerra francese, pari a 5 miliardi di marchi, ne approfitterà per accumulare oro e vendere argento sui mercati internazionali, inaugurando di fatto il passaggio al regime aureo di tutte le economie del mondo di allora. In tal modo Berlino, capitale della prima potenza industriale del continente europeo, contenderà a Londra la palma di capitale finanziaria del mondo. La rapida conversione al regime aureo provocò una improvvisa ed imprevista caduta di prezzi. Ma il regime aureo non era solo il futto di una convenzione economica, ma anche e principalmente di una scelta ideologica che aveva avuto, più di un secolo prima nel pensatore illuminista David Hume, il proprio alfiere. In “Teoria del flusso dell’oro e dei prezzi”, si santifica la funzione dell’oro, visto come equilibratore delle relazioni tra paesi esportatori ed importatori.

Grazie a tale teoria nel paese importatore di un determinato bene, l’uscita di valuta aurea a fronte dei pagamenti, provocava una diminuzione dei prezzi, nel paese esportatore l’ingresso di valuta aurea i prezzi li alzava. Il riequilibrio della situazione si verificava allorquando il paese esportatore cominciava ad importare i beni meno costosi dei propri ex acquirenti, e questi ultimi si trasformavano in esportatori. Una teoria semplice, ma che andrà a cozzare con la realtà dell’elevata circolazione di capitali accompagnata dai tassi d’interesse e dai costi dell’intermediazione finanziaria, elementi questi che già caratterizzavano la realtà del 19° secolo. Fatto sta che sino a che il sistema aureo funzionò a pieno regime (praticamente sino alla Prima Guerra Mondiale), la principale priorità dei governi sarà quella di mantenere costanti i tassi di cambio con l’oro. Una stabilità che verrà perseguita molto spesso sulla pelle dei lavoratori dipendenti e dei ceti medi (allora senza alcuna tutela politica), grazie a manovre deflattive che avranno nell’inasprimento fiscale, nei tagli alle spese pubbliche e nell’abbassamento dei salari (sic!) i principali perni. Il secondo strumento a difesa del sistema aureo sarà la solidarietà tra banche centrali. Più volte, difatti, nel corso del 19° secolo, le varie banche centrali si aiuteranno reciprocamente per evitare sconquassi sulle proprie piazze finanziarie. Il caso più eclatante sarà fornito dall’aiuto offerto nel 1890 dalla Banca di Francia e Banca di Stato Russa alla banca d’Inghilterra, all’indomani dell’insolvenza della Baring Brothers, che aveva concesso un credito rivelatosi poi inesigibile, al governo argentino. Un sistema dunque che, anche se aveva come perno centrale la Banca d’Inghilterra, garantiva un suo, sia pur precario equilibrio all’Europa ed al mondo. Un equilibrio che non tarderà a saltare, con lo scoppio del Primo conflitto mondiale, determinato dalla volontà britannica di scalzare il Reich Tedesco dalla scomoda posizione di principale concorrente politico-economico in Europa e nel mondo. Ed è qui che entreranno subdolamente in giuoco gli Stati Uniti, nel ruolo di ispiratori occulti del conflitto. D’altronde per la potenza nord americana si trattava di cogliere al balzo l’occasione di divenire il principale finanziatore delle spese belliche anglo-francesi. Il conflitto lascerà, difatti, le economie europee disastrate: debiti ed inflazione la faranno da padrone in tutto il vecchio continente. Per poter sostenere l’immane sforzo bellico, le nazioni europee saranno costrette ad emettere divisa a “corso forzoso”, ovvero non garantita da riserve, cosa la quale causerà grandi variazioni nei tassi di cambio. Il riallineamento al sistema aureo avverrà gradualmente nel corso degli anni Venti.

Nel ’23 e nel ’24 Austria e Germania riallineranno le proprie valute ai precedenti parametri, nel ’26 e nel ’27 sarà la volta di Francia ed Italia. Queste ultime due, però, fissarono i propri cambi a livello di mercato, senza contrastare troppo l’inflazione, come si faceva nel resto d’Europa, proprio per tutelare le classi deboli. E qui va spesa una parola in difesa dell’operato economico e finanziario del Fascismo che, in quegli anni e nei successivi, marcati da una forte instabilità monetaria, riuscì a dare una sicurezza altrove impensabile. La spaventosa crisi recessiva del ’29, non prevista dalle scuole economiche di orientamento “classico”, mise in ginocchio le economie di giganti finanziari come gli USA ed il Regno Unito, lasciando invece intatta la struttura economica italiana. Fatto sta che, verso la fine degli anni ’30, la maggior parte dei paesi dovettero abbandonare la convertibilità aurea ed adottare il controllo statale sui tassi di cambio; un provvedimento, questo, già in vigore da molto tempo in Italia ed in Germania. Lo stesso Roosvelt, dovrà recepire nei propri programmi economici la dottrina keynesiana, incentrata sull’intervento pubblico nell’economia.

All’indomani del Secondo Conflitto Mondiale che sancirà la definitiva vittoria della potenza USA, il problema della stabilizzazione dei cambi, in funzione stavolta della nuova situazione venutasi a creare, si riproporrà in tutta la sua magnitudo.

Gli accordi di Bretton Woods, sottoscritti nel 1944 al Mount Washington Hotel, nella omologa località del New Hampshire, rispondono a questa logica. Ma Bretton Woods stesso è un’ episodio, programmato con ampio anticipo da due eventi assai significativi: la Carta Atlantica del 1941 e l’accordo di Mutuo Soccorso del 1942, sono gli accordi con cui gli inglesi si impegnarono a reinstaurare la convertibilità dei conti monetari ed il principio di non discriminazione commerciale. In cambio gli USA avrebbero fornito assistenza finanziaria a condizioni favorevoli ed avrebbero rispettato le priorità britanniche della piena occupazione. 

Protagonisti di questi accordi furono l’inglese John Maynard Keynes e l’americano Harry Dexter White, economista del Tesoro americano. La versione finale di questi accordi costituirà la base per i successivi accordi di Bretton Woods e per la nascita del Fondo Monetario Internazionale. Il problema centrale di tutti questi accordi è quello di conciliare la solvibilità delle nazioni indebitate dalla guerra, con un armonioso sviluppo economico in grado di garantire la ripresa degli scambi commerciali, vera manna per l’industria americana, che scalpitava per espandersi. I piani di Keynes e di White, differiscono per quanto riguarda gli obblighi delle nazioni creditrici, nel grado di flessibilità dei tassi di cambio e nella mobilità dei capitali. Il piano di Keynes è più attento all’armonizzazione della piena occupazione con la bilancia dei pagamenti, tramite la variazione dei tassi di cambio, il tutto a detrimento del libero scambio. Il piano White prevede, invece un sistema senz controlli, con cambi fissi; il tutto regolato da un’istituzione internazionale.

Alla fine si avrà un sistema che differirà dal vecchio regime aureo sotto tre aspetti:  tassi di cambio aggiustabili solo in determinate situazioni di squilibrio, tramite la creazione di tassi di cambio a “parità mobile”. La creazione del Fondo Monetario Internazionale, allo scopo di sorvegliare le politiche economiche delle varie nazioni, e di sostenerne finanziariamente la bilancia dei pagamenti. Furono, inoltre, istituiti severi controlli per arginare le fughe ed i movimenti capitali. Ma ciò per cui preme maggiormente ricordare gli accordi di Bretton Woods, è l’Articolo 20°, che prevede che le nazioni definissero il valore di parità delle proprie divise in termini aurei o di una valuta convertibile in oro, che guarda un po’ sarà il dollaro che, in tal modo diverrà automaticamente il punto di riferimento di tutte le transazioni commerciali e finanziarie del mondo,concedendo in tal modo agli USA ed alle sue istituzioni finanziarie, un potere di condizionamento economico-finanziario sino ad allora impensabile.

Questo e solo questo, è il punto per cui valga la pena di menzionare questi accordi, visto che il sistema dei cambi a parità mobile, al pari del controllo sui capitali, dovranno essere abbandonati a partire degli anni ’60, proprio a causa di un impetuoso sviluppo economico che non poteva più sopportare condizionamenti di alcun tipo. Se il 1958 vedrà il ritorno alla convertibilità, il 1973 vedrà, con l’Accordo di Washington, l’abolizione dei cambi a parità mobile, sancendo, in tal modo la fluttuazione dei cambi, mandando al diavolo quella tanto agognata stabilità, che sino ad allora aveva dominato le politiche finanziarie di tutti i paesi del mondo. Il problema dell’instabilità, con tutti i suoi annessi e connessi, continuerà però a farla da padrone, in barba a tutte le più ottimistiche (ed avventate ) previsioni o teorie.

In Europa la creazione di sistemi che potessero compensare l’instabilità economico-finanziaria, a partire dagli anni ’70, con il  Serpente Monetario (all’interno del quale era permesso un limite di oscillazione massimo del 2,5% per ogni valuta), passando attraverso il Sistema Monetario Europeo del ‘79, sino agli accordi di Maastricht nel ‘91, evidenzierà il problema dell’instabilità valutaria, dovuta alle differenti esigenze economico-finanziarie dei vari paesi del Vecchio Continente. Con il ritorno ad un sistema di cambi fissi, realizzato con l’accordo di Maastricht del 1991, si spianerà la strada all’attuale valuta europea. Ma qui viene il bello. La Moneta Unica viene inaugurata da un rincaro di prezzi e da una ventata inflazionistica. Qualcuno dirà che le varie Banche Centrali hanno voluto in tal modo, dare uno stimolo ai consumi ed alla produttività di fronte alla persistente recessione che, come un macigno pesa su tutte le nazioni industrializzate, ma non è così. Che esigenze anti- recessive abbiano fatto la loro parte è sicuramente vero, ma a riproporsi è il solito problema: quello del difficile equilibrio tra i cambi ed i contesti economici di ogni nazione. Con questa considerazione, finisce la nostra breve e sommaria storia monetaria. Una storia quale chiunque di noi può trovare su un qualsivoglia testo di economia e che necessita, però, di una serie di considerazioni atte a farci tirare una conclusione sensata.

Primo. Dalle vicende sin qui narrate, traspare in modo evidente come il problema della Globalizzazione non possa essere ridotto agli ultimi cinquanta anni di storia, tanto più se il fenomeno viene analizzato attraverso il suo aspetto principalmente finanziario. Le interazioni tra i cambi, hanno sempre portato delle conseguenze sulle singole economie. Cercare di eludere tali problemi, affidandosi a soluzioni improntate a facili massimalismi ideologici, è quanto di più dannoso e stupido si possa fare. L’esempio del tracollo finanziario dell’ex Unione Sovietica, dimostratasi un’autentica tigre di carta, è sotto gli occhi di tutti. Movimenti politici come Il Fascismo, o lo stesso Nazismo, dovettero fare i conti con certi fenomeni, adottando delle misure ispirate a criteri di “realpolitik” economica e finanziaria. Si tratta, quindi, di capire sino a quale punto è possibile interagire, da parte delle varie comunità statuali, con le leggi dell’economia, senza andare a scardinare quei delicati equilibri, in mancanza dei quali vengono meno quei presupposti in grado di garantire uno sviluppo economico ordinato, aprendo così la strada alla miseria ed all’instabilità. A riconferma di quanto affermato circa le lontane origini del problema della Globalizzazione finanziaria, sta il chiaro perseguimento di un disegno di supremazia della finanza britannica sull’Europa e sul mondo sin dal 18°secolo. Una supremazia che passerà in seguito agli USA che, prima con i prestiti all’Europa per la Grande Guerra prima, con gli accordi-cappio di Bretton Woods poi, faranno del dollaro il principale punto di riferimento delle transazioni economico-finanziarie internazionali, condizionando, in tal modo, l’economia del mondo intero. Le cause primarie di questi eventi non possono solamente essere imputate alla nascita della Banca d’Inghilterra ed alla presunta sostituzione dell’oro “sic et simpliciter” con il circolante cartaceo, come taluni oggi affermano molto semplicisticamente. Questo fu solo un aspetto di un più complesso fenomeno, visto che l’oro continuò a fungere da punto di riferimento e bene rifugio per molto tempo ancora. Piuttosto ciò a cui si è assistito è stata un’inesorabile corsa delle varie nazioni all’adattamento ai sempre più rapidi mutamenti delle esigenze del mercato. Mutamenti che, richiedendo un’apertura delle proprie frontiere ad una sempre più massiccia circolazione dei capitali, hanno giuocoforza finito col favorire chi teneva i fili del giuoco, e nessun’altro. Una società per azioni, i cui dividendi vanno unicamente nelle tasche dell’azionista di maggioranza lasciando gli altri con poco o nulla: questa è la situazione degli odierni mercati finanziari. A conforto di questa tesi, il fatto che il regime bimetallico, preesistente alla nascita delle varie Banche d’Inghilterra, sia stato tanto dileggiato ed avversato dalle scuole economiche “politically correct”. Questo perché tale impostazione, dalla plurisecolare longevità, ha sempre garantito e tutelato il potere d’acquisto dei ceti più poveri, mettendoli al riparo da manovre speculative esterne, grazie ad un criterio di circolazione valutaria che potremmo definire “differenziata”, cioè in grado di soddisfare le più disparate esigenze, grazie al diverso valore dei metalli delle valute circolanti. A riconferma di tutto ciò, abbiamo quanto accaduto nella Roma tardo-imperiale, in seguito all’adozione della valuta aurea al posto del sesterzio d’argento da parte del tanto pio e “cristiano” imperatore romano Costantino. Un generale impoverimento delle classi medio-basse romane, accompagnato da un ulteriore arricchimento di quei ceti “elevati” (tra i quali, nobili, notabili e, dulcis in fundo, il clero cattolico). E qui rientra in giuoco, prepotente, l’esigenza di  tutelare le esigenze dei popoli dall’invadenza dell’economia. Abbiamo stabilito che la conoscenza della complessità dei meccanismi dell’economia è fondamentale, per non ricadere negli errori di certo massimalismo ideologico; ma altresì fondamentale è oggi comprendere l’interrelazione tra esigenze economiche macro-comunitarie e micro-comunitarie, al pari di quelle tra micro e macro-economia. Regime bimetallico, libera monetazione, accordi valutari e quant’altro, possono funzionare solo a patto che a monte vi sia la precisa volontà di operare in direzione dei reali interessi di una comunità, ridistribuendo utili e benessere a chi, come un qualsivoglia azionista, è parte integrante di un progetto comune. Rigidi controlli, protezionismo, barriere doganali, tutto all’insegna delle porte in faccia, dovrebbero invece invece rappresentare normali misure, nei confronti di tutti coloro che, come nel caso dei potentati economici “atlantici”, per libertà definiscono il brutale abbattimento di qualunque barriera culturale, economica o sociale, si frapponga ai loro interessi.

Alle radici del capitalismo/l’economia

 

Capitalismo, mercantilismo, liberismo. Termini che frequentemente ricorrono nelle nostre dissertazioni ed a cui, troppo spesso, si conferisce il medesimo significato. Una confusione terminologica questa, che contribuisce col confondere non poco le idee, a chi cerca di avere una veduta il più chiara ed aperta possibile, del vertiginoso intreccio di eventi economici e politici, alla base dell’attuale situazione. Mercantilismo. Da che mondo è mondo, il commercio ha sempre rappresentato una forma di interscambio economico (ed anche spesso culturale) tra i popoli; una attività questa, intrapresa per sopperire alle necessità materiali alla base della vita di una comunità, ed in grado, sovente, di apportare delle considerevoli migliorie al tenore di vita di queste ultime. Di Mercantilismo come fenomeno peculiare della storia economica, si può parlare a proposito di quel periodo che va dalla seconda metà del secolo 15° alla metà del secolo 17°. Un’arco di tempo che parte dalla straordinaria fioritura economica delle città-stato italiane alla nascita degli Stati-nazione europei, caratterizzato dall’impetuoso affermarsi sulla scena dei ceti mercantili delle varie nazioni, a detrimento di quelli terrieri. Un fenomeno in gran parte determinato dall’aumento di scambi commerciali con l’Oriente e dalle nuove scoperte geografiche. Da quel momento in poi, gli Stati divennero tutori e protettori dei ceti mercantili; è di questo periodo la nascita delle “Compagnie” mercantili (Compagnia delle Indie britannica e Compagnia delle Indie orientali olandese, solo per citarne qualcuna), vero e proprio strumento di imperialismo economico dei ceti di cui erano l’espressione. Il mercantilismo porterà come conseguenza, al rinforzarsi di quelle situazioni di monopolio commerciale e di protezionismo dei vari prodotti, che porterà più di uno storico a chiedersi se fossero gli emergenti stati nazionali a usare i ceti mercantili per acquisire una maggiore potenza economica o viceversa. Fatto sta che il fiume di argento (ed in minor parte oro) importato dalle miniere del Nuovo Mondo in Europa, provocò una vera e propria ondata inflattiva, che dalla Spagna si estese all’intera Europa, durante tutto il 16° ed il 17°secolo, facendo sì che, per esempio, in Andalusia i prezzi si quintuplicassero. Un fenomeno questo, che fece ben presto sentire le sue ripercussioni in tutta Europa, a partire dall’ Inghilterra, i cui prezzi si triplicarono. Le grandi quantità di metallo pregiato che arrivavano in Spagna servivano a quest'ultima a finanziare le politiche militari dei propri sovrani ed a sorreggere le grandi quantità di importazioni che ne sorreggeva l’economia. Lo stesso metallo, uscito dalla Spagna si riversava nel resto d’Europa, arrivando così a rappresentare tra l’85 ed il 97% del tesoro importato in Europa.

Un tesoro che veniva impiegato per sostenere le importazioni spagnole e le frenetiche campagne militari che caratterizzavano a quel tempo il vecchio continente. L’accumulo di oro ed argento  per sostenere le spese militari alla base delle aggressive politiche mercantiliste dei vari regni europei, dunque. Un fenomeno, questo, che ebbe però un altro risultato di non trascurabile rilevanza: un notevole aumento degli scambi commerciali, e quindi, dei profitti dei ceti mercantili d’Europa. Questo, può essere definito uno tra i primi esempi di politica monetarista dell’età moderna, tale da lasciarsi appresso una scia di polemiche a non finire. Protezionismo doganale, una politica attenta alla bilancia dei pagamenti, la protezione delle nascenti industrie. Un’impostazione che, se inizialmente vista in difesa degli interessi mercantilisti, accordava una certa tutela anche ai ceti più deboli, in quanto parte di quegli Stati nazionali che erano oggetto di tante protezionistiche attenzioni, in quanto trampolino di lancio delle varie politiche mercantili. Non solo. La struttura per lo più artigianale delle industrie ed un forte ordinamento corporativo delle varie categorie professionali, offrivano una maggior protezione a queste ultime.

Sarà l’avvento della scuola fisiocratica francese, a dare una sterzata decisiva in direzione del liberismo economico. Figlia del pensiero dei vari Voltaire, Diderot, Rousseau, questa scuola si avvalse di personaggi quali Quesnay, Turgot, du Pont ed altri, in veste di consulenti, o più spesso, di ministri delle finanze presso l’ ”ancien regime”. Idea cardine di costoro era quella che il diritto naturale governasse qualunque comportamento morale e sociale, economia inclusa. “Laissez faire, lassez passer”. Ovvero l’economia deve regolarsi secondo le proprie leggi, senza che gli interventi del legislatore ne turbino l’andamento, se non in casi limitati. Libertà di vendere e comperare, abolizioni di vincoli protezionistici, monopoli e corporazioni mercantili. Una libertà di commercio a cui andava affiancata una classe terriera collocata ai vertici dello stato, in quanto l’agricoltura era dai fisiocratici vista come attività di primaria importanza rispetto al commercio. La scuola fisiocratica spiana, in tal modo, la strada al liberismo economico ed al concetto che la proprietà terriera (sia di taglio ridotto, come nel caso di un agricoltore, che di taglio esteso, come nel caso del possidente terriero)  in quanto bene immobile, produca un “valore aggiunto” che, in quanto tale, deve essere oggetto di una giusta tassazione. Molti storici si chiedono tuttora se la minuziosa applicazione delle idee dei fisocratici, avrebbe salvato o meno la Francia dalla Rivoluzione che andava preparandosi. Una domanda oziosa questa, poiché a preparare la Rivoluzione francese furono proprio quei pensatori illuministi e fisiocratici, che nella dorata cornice di Versailles trovarono quell’humus che, di certe idee avrebbe favorito l’avvento.

Il riformismo illuminato della scuola fisiocratica, incentrato sul ruolo cardine dei possidenti terrieri, dovette ben presto lasciare il posto ad una società caratterizzata dal protagonismo del ceto emergente dalla Rivoluzione industriale: i capitani d’industria. Le tematiche attinenti a questa nuova società, caratterizzata da uno spietato sfruttamento delle risorse umane, saranno trattate da molti studiosi.

Alcuni nomi per tutti: Adam Smith, Jean Baptiste Say, Thomas Robert Malthus, David Ricardo. Adam Smith sarà un contemporaneo delle scuole fisiocratiche ed assisterà alla nascita del primo nucleo della società industriale in Gran Bretagna. Fondamentale in questo autore la considerazione sulla centralità dell’interesse personale nella motivazione economica. Secondo costui, il perseguimento privato è la fonte del massimo bene pubblico. In questo modo veniva capovolta una morale che, sino ad allora, non aveva mai voluto apertamente codificare l’egoismo individuale come perno della vita di una comunità. Se in Smith riecheggiano motivi fisiocratici, con vari accenni alla centralità del ruolo dell’agricoltura, in Say, Ricardo e Malthus si volta pagina.

Il Say, in particolare, autore della legge economica che porta il suo nome, si fa latore di un’idea semplice, ma, per l’epoca, innovativa:

: la produzione di merci genera una domanda aggregata effettiva, in grado di acquistare l’offerta totale di queste ultime. Grazie a tale legge, si pensò che nel sistema economico non poteva verificarsi alcuna sovrapproduzione, né tanto meno una carenza di domanda, poiché bastava produrre. A queste considerazioni si aggiungerà il pensiero di Ricardo e di Malthus che da differenti punti di vista arriveranno a giustificare (ed approvare!) scientificamente la miseria e l’ingiustizia sociali; il primo identificando nella crescita asimmetrica delle popolazioni, la causa di un generale ed incorreggibile aumento della miseria delle masse. Il secondo, tramite la Legge Bronzea sui salari (una tavola che definiva le proporzioni tra costi del lavoro e profitti), arrivando alla conclusione dell’inevitabile miseria di chi vive sotto il capitalismo, ed anzi arrivò a condannare qualunque azione volta a migliorare tale stato di cose. Se queste confutazioni ebbero in Europa una risonanza ben presto offuscata dall’esplodere del pensiero economico socialista dei vari Saint Simon, Marx e Proudhon, accanto a quello dei tedeschi Adam Muller e Georg Friderich List, vi fu un posto in cui il pensiero “classico” britannico trovò un’adesione praticamente incondizionata: i nascenti USA. Qui, spazi immensi, l’assenza di strutture precostituite ed un’etica calvinista depurata da qualsiasi residuo statualista, offrirono alle idee classiciste un eccezionale terreno di sviluppo.E qui viene il bello. La nascente potenza nord-americana fu marginalmente toccata dal dibattito accesosi uin Europa tra coloro che avversavano o difendevano il modello “classicista”, incentrandosi piuttosto su temi quali i dazi doganali, i monopoli e via discorrendo.

Argomenti molto concreti questi, in cui gli USA mostreranno un opportunismo ed una ambiguità comportamentale a tutto campo.

Accesi fautori del liberismo e del principio del “lassez faire”, non esiteranno a sviluppare una feroce politica protezionistica, il cui principale manifesto programmatico fu rappresentato dal “Report on manifactures” di Alexander Hamilton. Questa impostazione sarà in netto contrasto con gli Stati agricoli del Sud, più interessati ad uno scambio di merci a buon mercato con l’Europa, contrariamente agli Stati del Nord più industrialmente (e finanziariamente) sviluppati e quindi in rotta con l’Europa. Con la guerra civile, qualsiasi resistenza ai dazi fu travolta. La politica protezionistica fu tenacemente perseguita sino ad arrivare allo Smooth-Hawley Tariff Act del 1930, che fissava il livello dei dazi tra il 40 ed il 50 per cento del valore delle merci importate (sic!). Ma a riconferma della spregiudicatezza USA in economia, sta un caso ancor più clamoroso: l’adozione della dottrina keynesiana. John Maynard Keynes (1883-1946), inglese, è il propugnatore della tesi secondo cui l’economia moderna non può trovare il proprio equilibrio nella piena occupazione, né la domanda può esser sufficiente a soddisfare l’offerta. I governi debbono prendere provvedimenti per ovviare a tale carenza, anche a costo di affrontare spese non coperte da pubbliche entrate. Una dottrina questa, che per un’America religiosamente attaccata al verbo economico liberal-classicista, dovette avere il sapore di un’eresia. Ma due grandi eventi fecero rapidamente cambiare idea a Roosvelt ed all’establishment economico USA: la Grande Depressione scatenatasi dalla fine degli anni ’20 ed il secondo conflitto mondiale.

La sicumera liberista che aveva contraddistinto l’azione economica dei vari governi americani, si dovette infrangere con il crollo della borsa del 1929. Già, perché sino ad allora le violente fluttuazioni del mercato non erano considerate né previste, poiché secondo il dogma di Say, l’equilibrio dell’economia si adattava ad un regime di piena occupazione. Deflazione dei prezzi, disoccupazione, nuove povertà, crearono in Roosvelt e soci la coscienza che qualcosa di nuovo andava fatto, oltre i soliti vecchi schemi. Non senza forti resistenze, in America le dottrine keynesiane cominciarono a prender piede, influenzando il “New Deal” roosveltiano. L’esplosione del secondo conflitto mondiale, portò i keynesiani ad occupare posti chiave nel governo USA. Il Victory Program, con un programma statale di produzione bellica, accanto ad un sapiente controllo di prezzi e salari, sortirono un effetto strepitoso: dal 1939 al 1944 il PIL aumentò da 320 a 569 milioni di dollari. La spesa pro capite passò da 220 a 255 miliardi. La disoccupazione passò dal 17,2 per cento del 1939, all’1,2 del 1944. Gli acquisti di beni e servizi da parte del governo federale passarono da 22,8 miliardi nel 1939 a 296, 7 miliardi nel 1944. L’aliquota di tassazione dal 24 % del 1929, al 94% del 1944! Questo clamoroso aumento del tenore di vita americano (contrastante con quanto, nel contempo, accadeva in Europa) ebbe l’effetto di stimolare una crescita impetuosa che si protrasse sino alla fine degli anni ’60.

Ma c’è di più. Le dottrine economiche incentrate sull’intervento sul bilancio dello Stato non sono esclusiva di Keynes. Il pensiero “sociale” avrà i propri prodromi nel 19° secolo, influenzando la Germania bismarckiana e l’Inghilterra vittoriana. Ma la concreta applicazione dell’interventismo economico statale a supporto dell’attività privata, sarà realizzato “in primis” dal Fascismo in Italia e, posteriormente, dal nazional-socialismo in Germania. La politica delle opere pubbliche ispirerà il “New Deal” USA, scontentando i locali magnati della finanza che, solo nella guerra troveranno una degna soddisfazione alle proprie aspirazioni. Keynes sarà colui che tradurrà per il mondo anglosassone, quelle legittime aspirazioni che allora cominciavano a far breccia nelle coscienze di mezza Europa.

Lo stesso keynesismo, però, presenta delle limitazioni: esso può esser valido in quelle realtà, connotate da una forte crescita iniziale.

Il pompare denaro pubblico sic et simpliciter innesta il pericoloso fenomeno dell’inflazione, tanto caro alle realtà terzomondiste, e, sino a poco tempo fa, anche all’intero contesto occidentale ed europeo. Le singole soluzioni economiche sono dunque mezzi che vanno adattati alle circostanze ed ai popoli che trattano. E non viceversa. Lo spregiudicato economicismo anglo-americano ha fatto propri metodologie anche lodevoli. Senza però smentire per un secondo, la reale natura dei propri fini, come la Storia ci mostra tuttora, senza veli.

Altra economia

Finanza e futuro

 

​E’ proprio il caso di dirlo ,il tribunale dell’Aja che indaga sui crimini nella ex Yugoslavia,ed i suoi solerti inquisitori al soldo degli Anglo Americani,hanno stranamente omesso di aggiungere alla lista degli accusati delle più svariate ,e mai totalmente provate nefandezze accadute in quella regione, il nome di uno che, in quanto a nefandezze dovrebbe saperla lunga,visto che si porta ,quanto meno, le responsabilità morali per quelle avvenute non solo nella ex Yugoslavia,ma ,purtroppo anche in molti altri posti nel mondo;indovinate un p’ò di chi stiamo parlando?Ma naturalmente di lui ,il finanziere filantropo ,corrispondente al nome di George Soros,che con la sua ultima “boutade” ,mi ha ispirato questo articolo.La “boutade” in questione ha avuto come teatro,un summit del World Economic Forum,svoltosi qualche giorno fa a Salisburgo, durante il quale il nostro,pieno di zelante ardore per la causa Europea ,ha illustrato un piano per la ricostruzione dei Balcani,elaborato in collaborazione con il Center for European Policy Studies,uno strano centro di studi geo-strategici,apparso ad hoc per fornire di concreta progettualità gli slanci ideali del nostro finanziere buono.La lieta novella si impernierebbe su quattro pilastri:primo,la U.E.dovrebbe prendere il controllo delle dogane dei Paesi Balcanici,aprendole al “libero scambio”(dando così il colpo di grazia finale a delle economie disastrate,che non potendo opporre alcuna resistenza in termini di concorrenza all’invasione delle industrie e della finanza occidentali,finirebbero col divenire economie di mera sussistenza,cioè totalmente dipendenti da queste ultime).Secondo,l’U.E. dovrebbe compensare le perdite dei paesi interessati a questa operazione,con i soldi dei propri contribuenti ,andando così ad aggiungere un altro mattone all’edificazione di quello splendido progetto di miseria generalizzata ,conosciuto col nome di Ostello Europa.Terzo,(e qui la “sola” si rivela in tutta la sua “magnitudo”),la U.E. dovrebbe effettuare questa compensazione su economie sane,non toccate dalla guerra,così “chi rompe paga ed i cocci sono suoi”,Serbia docet;ma attenzione ce n’è per tutti ,anche per i “buoni”,cioè i Paesi non toccati dalla guerra:per diventare colonie Anglo Americane,dovranno dare alla U.E. garanzie di democraticità,e quindi giurare di non dissentire mai e poi mai su ciò che riceveranno, pena la cacciata nel girone dei cattivacci ,in buona compagnia dei vari Milosevic, Saddam ed altri ancora.Quarto,ciliegina sulla torta,l’introduzione nei Balcani dell’Euro,a sigillare la perennità della sola organizzata ai danni dei popoli Balcanici(e non solo).A sentire il nostro eroe,questa proposta piena di allettamenti, porterebbe l’opinione pubblica Serba a schierarsi in modo definitivo contro Milosevic,determinando così l’agognata democratizzazione di quel paese.Ora è però necessaria una considerazionedi fondo ;quest’uomo non è alla sua prima uscita ,molti paesi del mondo hanno dovuto sperimentare gli effetti delle sue iniziative umanitarie consistenti nella spregiudicata gestione di Fondi di Investimento, accompagnata da una azione speculativa incentrata soprattutto sulla stabilità valutaria dei Paesi su cui si concentra la manovra speculativa del momento,arrivando a determinare effetti che possono andare da una svalutazione senza eccessivi contraccolpi ,così come succeso in Italia all’inizio degli anni ‘90 ,sino a vere e proprie catastrofi economiche ,così come accaduto per l’Indonesia ed altri Paesi del Sud Est asiatico qualche anno fa ;in quell’occasione il preier malaysiano Malatyr ebbe a ridire contro l’azione nefasta di Soros, senza però riuscire a smuovere l’opinione pubblica internazionale,ritrovandosi in compenso d’improvviso il proprio paese in preda a rivolte e turbolenze politiche,sempre però meno gravi di quelle che colpirono l’Indonesia,che non ostante le dimissioni di Suharto , vive tuttora in uno stato di guerra civile latente.E qui arriviamo ad un altro aspetto focale dell’azione di Soros:la rete di Open Societies,cioè di fondazioni che gli fanno capo e che hanno la funzione di quinta colonna nel paese in cui agiscono,svolgendo così il ruolo di preparare il terreno a qualsiasi azione del nostro magnate;una rete capillare che ha potuto permettere a costui di cavarsela sempre impunemente non solo nel Sud Est asiatico ma anche ,nell’Europa dell’Est ,in America Latina ed anche nel proprio Paese ,gli USA dove non ostante lo scivolone di qualche anno fa preso dal suo Quantum Fund,che ha ridotto sul lastrico milioni di risparmiatori americani e non solo,non ci sono state conseguenze di nessun tipo per costui.A questo punto però sorge in noi una domanda:é possibile che un uomo da solo possa arrivare a destabilizzare la vita politica di altri paesi senza dovere subire alcuna giusta conseguenza per le proprie azioni?Cosa e chi copre le malefatte di costui?Sicuramente qualcosa di molto potente ,visto che per molto meno Bill Gates,il giovane creatore della Microsoft ,si trova a dover affrontare la temibile Anti Trust Americana,in un processo dagli esiti incerti.I Paesi non allineati agli USA ,dovrebbero promuovere un’azione giudiziaria sia nelle rispettive sedi nazionali che in sede internazionale,che abbia come oggetto:1)una richiesta di intervento da parte dell’Antitrust Americana per verificare le effettive dimensioni di eventuali accordi di cartello che il nostro possa avere in territorio U.S.A.2)un’accurata inchiesta per verificare la reale attività di tutte le Open Societies nelle nazioni in cui esse sono presenti3)la sospensione cautelativa delle attività sia finanziarie che associative di Soros,finchè non venga verificata la reale natura di queste ultime4)l’iscrizione del nome di Soros nel registro degli indagati di un’indagine internazionale con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’usura ed all’estorsione,truffa aggravata ,strage,tutti reati connessi all’azione svolta da costui tramite le sue filiazioni nei vari paesi del mondo di cui abbiamo già parlato.Per arrivare a questo è necessaria che sia presente la volontà politica di tutte quelle Nazioni,che ,ufficialmente fuori dall’orbita degli U.S.A.,prendano il coraggio civile ed umano di creare un fronte di lotta comune contro la super potenza atlantica;eh già,perchè se qualcuno non l’avesse capito,la Globalizzazione a fronte di tanti svantaggi,possiede un solo lato positivo:quello di porre prima o poi tutte le realtà antagoniste di fronte all’inderogabile necessità di unirsi in una lotta senza quartiere,mettendo da parte tutte le divisioni,di qualsiasi tipo e natura ,visto che ,in nome di questa battaglia,si giocheranno le sorti del mondo intero.Una battaglia di questo genere ,però,non deve essere giocata in nome del massimalismo ideologico ,nè tantomeno di una violenza insensata fine a se stessa,bensì in nome di una azione politica accompagnata da iniziative che possano avere una risonanza nella grancassa mediatica,contemporaneamente alla proposizione di un nuovo modello culturale che sappia porre lo Stato come polo di attrazione di quei valori etici assoluti,inscindibile patrimonio di base dell’ Individuo,di contro ad una concezione che fa dell’Economia il momento centrale della vita di quest’ultimo.

Le nuove tendenze dell’economia

 

​New Economy. Un termine questo, che entrato frettolosamente in voga nel comune lessico dei notiziari e dei relativi commenti attinenti la materia economica, sembra oggi aver assunto una valenza tautologica, onnicomprensiva; una parola magica dai mille significati, o, tutt’al più, un’ elegante forma di snobismo linguistico d’importazione, da schiaffare lì nel bel mezzo di un dibattito per far bella figura. La Borsa? New Economy, naturalmente! La Globalizzazione dei mercati? New Economy, naturalmente! Le privatizzazioni? New Economy, come al solito. Potremmo continuare così con altri mille esempi, aumentando la confusione ed i luoghi comuni, tanto cari alle schiere di mal accorti ed improvvisati commentatori di fenomeni socio-economici, che sull’ignoranza altrui ci campano. Il termine New Economy, indica uno specifico fenomeno che contraddistingue una nuova fase dell’evoluzione del capitalismo. Una fase questa, magistralmente descritta dall’economista americano Jeremy Rifkin in “L’era dell’accesso”, un best seller la cui lettura è facilmente affrontabile, anche da parte di chi, di economia ne mastica poco o nulla. Nel suo libro, Rifkin pone sostanzialmente l’accento sull’epocale cambiamento in corso nelle strutture dell’economia capitalista che, da una fase industriale, caratterizzata da un rapporto produttore-consumatore, passa ad una fase post industriale, tutta incentrata stavolta sul rapporto fornitore-utente. Ma per capire la vera natura di questo mutamento, dobbiamo incentrare la nostra attenzione su quella perfetta interazione tra economia e tecnologia, che ha contrassegnato la vertiginosa espansione del modello occidentale degli ultimi trecento anni. Un’interazione questa, la cui vitalità viene puntualmente riconfermata dalla recente rivoluzione che la tecnologia informatica ha apportato nel nostro modo di vivere e sinanche di relazionarci con il prossimo. Una rivoluzione che porta il nome di Internet. Inizialmente creata dal Pentagono per esigenze militari, con il nome di Arpanet, inaugurò la prima connessione on line nel 1969. Nel 1988 aveva già più di 60.000 utenti connessi. Sulla scia di questa iniziativa se ne svilupparono altre similari, tra cui quella della National Science Foundation (NSFnet), che, nel 1990, con la chiusura di Arpanet, diverrà il principale veicolo di connessione tra computer, l’attuale Internet. Un veicolo attraverso cui, ben presto, cominceranno a passare scambi e transazioni commerciali in numero sempre maggiore, creando quella che si può definire, non senza eufemismi “economia connessa”. Caratteristica principale di tale modello, è la totale perdita di senso di radicamento geografico data proprio dalla particolare condizione di “non spazio” o spazio virtuale (ciberspazio) in cui le parti economiche si trovano ad agire. In tale condizione, la tradizionale struttura di mercato vista come una serie di transazioni discrete tra venditore e compratore, separate le une dalle altre, viene a decadere, sostituita da una fitta rete di relazioni interdipendenti che legano a molteplici livelli gli acquirenti ai fornitori in un continuo interscambio. Un concetto questo, diametralmente opposto a quello della struttura del capitalismo industriale e mercantile, che trovava nel radicamento territoriale un perno fondamentale. Le cause di tutto questo non sono però attribuibili alla tecnologia che, semmai, di una certa situazione si è fatta solamente interprete e veicolo fedele.

Le cause del radicale mutamento in corso, vanno invece ricercate nella situazione economica che, a partire dalla metà degli anni ’60, si presenta nelle nazioni più benestanti del mondo occidentale.

Sono due gli aspetti che caratterizzano il nuovo stato di cose: da una parte la saturazione dei beni di consumo, dall’altra i costi sempre più alti della manodopera nei settori dell’industria e dei servizi. Tali costi determinati dalla rincorsa al rialzo tra salari (grazie allo strapotere raggiunto dalle organizzazioni sindacali) e prezzi al consumo genereranno, tra l’altro, il fenomeno dell’inflazione a due cifre, precedentemente limitato a casi eccezionali. La crisi petrolifera del ’73, con la conseguente ondata inflattiva, evidenzierà questa dinamica in tutto l’occidente industrializzato, con la differenza che, i paesi dell’Europa occidentale saranno più disponibili a metter mano a questa spirale con l’intervento pubblico, mentre i paesi di lingua anglosassone (USA e Gran Bretagna), con una forte tradizione liberista saranno molto più restii. L’arrivo di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher alla presidenza di USA e Gran Bretagna, porteranno in auge il più spinto liberismo economico, incarnato dalle teorie monetariste di Milton Friedman.

Perno di tali teorie è l’aumento del costo del denaro, una vera manna per banche e finanziarie, ed una vera rovina per industrie ed imprese che (specialmente negli USA ed in Gran Bretagna), all’inizio degli anni ’80 chiuderanno i battenti, all’insegna della più poderosa crisi recessiva del dopoguerra. In tutto questo rivolgimento, la New Economy comincerà ad esercitare in modo incisivo il proprio ruolo, assorbendo nel settore del Terziario quella manodopera che prima andava all’industria ed apportando un profondo cambiamento a tutto un sistema economico.

Un cambiamento che si esprimerà anzitutto nel modo di concepire l’organizzazione della produzione e lo stesso concetto di proprietà.

Da organizzazioni produttive rigidamente gerarchizzate e dotate di molteplici funzioni organizzative si passa a strutture per così dire “leggere”, ovvero demandate alla sola funzione per cui sono create. Questo tramite varie modalità contrattuali: si va dall’affittare a terzi le funzioni di vendita e promozione sul mercato (franchising), o con il demandare direttamente ad altri tali funzioni (outsourcing), o prendendo in affitto, magari dopo aver venduto a terzi (leaseback). Un esempio per tutti: la famosa Nike, di cui tutti apprezzano le calzature sportive, non è un’azienda produttrice, come verrebbe da pensare a chiunque, bensì un sofisticato marchio di design e distribuzione. Produzione, marketing e pubblicità sono appaltati ai cosiddetti “partner produttivi”, che producono a costo zero, grazie all’indiscriminato sfruttamento della mano d’opera nel Sud Est asiatico, nel caso della produzione industriale. Un tipico esempio di franchising è costituito dalla rete Mac Donald, che affida l’attività di vendita del proprio prodotto a terzi, in base ad un rigido contratto a cui il singolo gestore dovrà scrupolosamente attenersi, pena la otale perdita dell’attività. Norrell ed EDS sono aziende che gestiscono contabilità, funzioni di segreteria ed attività di commercio elettronico per conto di aziende come IBM, Bell, MCI, Hachette ed altre ancora. Non solo. Ad esser prestato è anzitutto il denaro, tramite le carte di credito, che vanno oramai sostituendo e virtualizzando il contante. Il credito al consumo diverrà una pratica corrente negli USA, a partire dagli anni ’80 del 19° secolo, praticata dai grandi magazzini di New York e Filadelfia. Nel 1949 Alfred Bloomingdale introdurrà la carta Diners Club. Grazie a questi meccanismi, il risparmio privato va progressivamente scomparendo, visto che i consumatori spendono più di quanto guadagnano. Secondo la Consumer Federation of America, una famiglia media USA con un reddito disponibile inferiore ai 20.000 dollari annua, è gravata da un indebitamento di 10.000 dollari!

Un’ impostazione questa, che fa sì che la proprietà privata vada progressivamente scomparendo, sostituita da una rete di relazioni di lungo termine fornitore-utente; una rete che ha nel cosiddetto Lifetime Value (valore del tempo vitale) il proprio perno centrale.

Questo parametro viene impiegato per determinare la spesa media che ciascun potenziale cliente effettuerà nel corso della propria vita, rispetto ad un determinato prodotto. Per esempio, secondo Mark Grainer, direttore del TARP (Tecnological Assistance Research Program), il cliente fidelizzato di un supermercato vale almeno 3.800 dollari l’anno. A questi risultati si arriva grazie al supporto di tecnologie informatiche ora ribattezzate “R technologies” o “tecnologie relazionali”. La continuità delle relazioni fornitore-utente, porta alla mercificazione delle esperienze di vita di quest’ultimo,

trasformandone l’esistenza in un gigantesco e continuo business.

Turismo, spettacolo, cultura, tutto diviene parte di quella colossale attività al centro della quale non sarà più il produrre e consumare un determinato prodotto, ma il fornire (naturalmente a pagamento!) ed il fruire e\o il vivere una determinata esperienza culturale. E subito torna in mente l’esempio di Thomas Cook, l’inventore inglese di fine Ottocento delle prime agenzie di turismo, addirittura da Mark Twain decantato in una lettera. Un’attività quella del Turismo, che oggi coinvolge nel mondo milioni di lavoratori, trasferendo però i propri formidabili introiti alle entità economiche dei paesi del primo mondo e lasciando le briciole ai paesi in via di sviluppo, all’insegna di quel fenomeno chiamato “leakage”, che depaupera le risorse economiche di questi paesi in una media del 55% (sic!). La tivvù via cavo rappresenta il tipico esempio della mercificazione di un determinato segmento di esperienza culturale, offerta a getto continuo, in cambio di un canone periodico. Ma ciò su cui si sta scatenando una battaglia economico-finanziaria senza pari, è la torta del controllo globale delle comunicazioni di qualunque tipo. Un affare che è determinato dal passaggio da un’economia al ciberspazio, e quindi ad una rete integrata globale di comunicazioni.

In questo caso, ad essere in giuoco è la possibilità di condizionare la vita degli individui su tutto il pianeta, orientandone le scelte e condizionandone le opinioni, proprio grazie a quella maggiore o minore disponibilità di informazioni, su cui le aziende giuocheranno le proprie carte. Oggi un ristretto ed esclusivo club di multinazionali, si sta combattendo senza esclusioni di colpi per accaparrarsi il controllo delle comunicazioni. Disney, Time Warner, Bertelsmann, Viacom, Sony, News Corporation, General Electric ed altri, hanno preso il posto di Ford, Standard Oil, etc., mostrando così la supremazia definitivamente raggiunta dalla fornitura di servizi sulla produzione vera e propria.

Tale competizione è stata resa possibile da un’apertura dei vari mercati nazionali, prima protetti da rigide norme protezionistiche.

Nel 1997 grazie alla nefasta azione della World Trade Organization, sessanta paesi hanno sottoscritto un accordo (tanto caldeggiato, tra l’altro dal nostro valente ex Ministro degli Esteri Ruggiero!) con cui ponevano fine al monopolio pubblico delle comunicazioni, permettendo così la realizzazione di joint venture, fusioni, cordate, tra i vari colossi delle comunicazioni. Disney con Capital City, paramount e Viacom, AT&T e British Telecom, sono solo alcuni degli esempi di un mercato che, ben presto, assorbite le altre aziende, sarà ristretto ad un esiguo numero di protagonisti che, oltre a controllare le infrastrutture di comunicazione, cercheranno di ottenere il monopolio dei portali d’accesso ad Internet, attraverso i quali passano le comunicazioni di milioni di utenti, nei prossimi anni destinati a crescere. Un potere senza precedenti, dunque. Un potere in grado di autodistruggere l’uomo, mercificandone le esperienze culturali ed inaridendone così la naturale creatività e perpetuazione di valori, alla base dello stesso concetto di civiltà.

A far da sottofondo a queste prospettive, la situazione ingeneratasi con il pensiero post-moderno. Esponente di spicco di tale pensiero è lo scienziato tedesco Werner Heisemberg, che per primo ha introdotto nel dibattito scientifico l’idea di indeterminatezza. L’osservazione imparziale e distaccata dei fenomeni naturali, tanto cara a Bacone ed in seguito ai pensatori illuministi, è figlia di una concezione anacronistica della scienza. Nel compiere un’osservazione, lo scienziato pone se stesso in un rapporto diretto con l’oggetto della propria ricerca, distorcendo per forza il risultato.

Lo stesso discorso vale per il metodo scientifico newtoniano, fondato sull’autonomia dell’osservatore, che in quanto tale, è coinvolto dall’oggetto della propria osservazione. Un’impostazione di pensiero, questa supportata dalle nuove scoperte della fisica riguardo alla struttura dell’atomo, frutto della sinergia di diverse particelle. Questa osservazione, farà dire a certi scienziati che la materia è solamente una “modalità” di manifestazione dell’energia.

Il vecchio universo cartesiano viene espropriato da una concezione improntata sul caso e l’indeterminatezza, ma anche sull’interdipendenza e la diversità della natura. Questa idea si andrà a travasare anche sul concetto statico ed individuale di proprietà, sostituito da un’idea provvisoria e momentanea di quest’ultima, che in pratica, ne nega l’essenza. Un mondo vissuto dunque all’insegna dell’ “adesso”, del nanosecondo, in cui non solo le proprietà materiali, ma anche quelle spirituali, quali tradizioni, radici, valori, significati, divengono secondari e relativi, sostituiti da contingenze e “scenari”. Un mondo la cui essenza è determinata da noi, attraverso il modo in cui concepiamo di viverlo. Un mondo in cui a dire l’ultima parola non sono più gli Stati, spogliati di qualsiasi prerogativa, bensì i potentati multinazionali,  veri padroni dell’accesso alle reti dell’economia e della cultura e per ciò ora protesi al dominio totale sull’uomo. Un’analisi giusta, ma che pecca nelle cause primarie che il Rifkin identifica nel mutamento del concetto di proprietà, passato dall’idea di proprietà condivisa, anteriore al 17° secolo, (e propria delle istituzioni medioevali quali Impero e Chiesa) alla proprietà non condivisa di stampo individualista, da quella momento in auge in Occidente. Un grave errore quello di identificare l’effetto (il concetto di proprietà), con la causa, ovvero il graduale spostamento degli equilibri di potere dalla “politica” si et si, all’economia, assurta nel frattempo ad indiscutibile postulato in grado di interpretare qualunque fenomeno dell’esistenza umana.

Il tutto, dimenticando quanto esclusiva ed importante fosse la proprietà privata, anche nei secoli più bui dell’Evo Medio (il particolarismo feudale vi dice qualcosa?). Peggiore la soluzione che il Nostro propone. Associazioni “no profit” ed ecologisti vari sono per lui il degno contraltare all’avanzante alienazione nel nome di una battaglia a supporto della cultura contrapposta all’economia. Il tutto all’insegna di un rinnovato senso “ludico” dell’esistenza, a render più gioiosa, allegra e “casual”, un’esistenza soffocata ed incanalata dall’ossessiva presenza delle multinazionali. Ammirevole ma non basta. Questo perché il pensiero di Rifkin parte inficiato da un vizio sintomatico dell’unione tra la mentalità anglosassone ed il progressismo: il settorialismo. Anche se a prima vista non sembra, l’interessante analisi ad ampio spettro da costui operata, dall’economia alla filosofia, va a parare a conclusioni settoriali. L’identificare in segmenti di pensiero o di opinione pubblica, la soluzione agli attuali problemi, il tutto all’insegna di un confronto tra una generica “cultura” e l’economia, non risolve un bel nulla, anzi.

Con soluzioni parziali, guidate da generiche dichiarazioni di intento, si finisce inevitabilmente in quell’immenso contenitore delle banalità, a questo sistema tanto care. In nome dell’amore, dell’uguaglianza, della fantasia, del giuoco e di un mondo verde e pulito, tante belle speranze si sono accese, per poi finire come addobbo decorativo al grande albero di natale consumista. Solo una nuova sintesi di pensiero, corroborata da un profondo spirito umanistico, sarà in grado di offrire una risposta a tutto campo, tale da contrastare passo dopo passo la Globalizzazione, ricollocando l’uomo in un giusto rapporto con l’economia e la tecnologia. Il tutto al di là di quei pericolosi luoghi comuni, caratteristici di una società che del superficiale ha fatto un ideale di vita.

Nuove prospettive con Obama?

C’è da dire che la cerimonia per l’insediamento del neonominato presidente Obama ha avuto del grandioso. La gente accorsa in quantità esorbitante, le sfilate, i concerti e poi il toccante discorso del neoeletto hanno sicuramente toccato le corde di quell’ “America profonda”, imbevuta di attendismo messianico, volontarismo, patriottismo in salsa multirazziale. Certo Obama è uomo giovane e telegenico, dotato di quella dose di carisma in grado di portare al cuore di un elettorato insoddisfatto ed intimorito, un messaggio di speranza basato sulla possibilità di realizzare un’ “altra America”. Certo,  Obama è tornato ad evocare l’intervento pubblico nell’economia, l’assistenza sociale, l’attenzione alle tematiche ambientaliste, il dialogo a tutto campo, tutti argomenti che sembrava che la retorica reaganiana avesse relegato nelle soffitte della storia. Tutti argomenti sicuramente suggestivi, ma sui quali pesano come macigni alcune considerazioni. Abbiamo già affrontato in un precedente articolo quelle che hanno sinora rappresentato le negative peculiarità della politica estera delle varie amministrazioni democratiche del passato, buoniste a parole, ma nei fatti molto più destabilizzanti di quelle repubblicane. La novità odierna, sta nel particolare scenario geoeconomico venutosi a determinare in questi ultimi anni, e che nella recente crisi economico-finanziaria globale ha trovato il proprio coronamento.

In virtù del processo di globalizzazione di cui gli USA sono sempre stati paladini ed alfieri, si è iniziato con il delocalizzare le attività produttive in direzione di realtà come la Cina o il Sud est asiatico, ove la manodopera costa molto meno. Non solo. Per stimolare i consumi interni, si è incentivatala circolazione sui mercati di quei prodotti finanziari “strutturati”, tra cui in primis

i fondi subprime, veri e propri titoli spazzatura in grado di far accedere all’acquisto di un immobile anche chi non ne aveva le possibilità. Era chiaro che tutto questo giochetto non poteva durare e che la crisi sarebbe prima o poi esplosa con veemenza, mettendo a seria prova non solo la tenuta di banche e similari istituzioni finanziarie, ma anche la stessa economia reale, produttiva. A monte di tutta questa situazione sta il paradosso che, al di là delle belle parole e dei proclami di onnipotenza, per incentivare il proprio consumo interno, e quindi il proprio circuito economico nazionale, gli USA  debbono sempre più far ricorso alle esportazioni di paesi come Germania, Cina e Giappone ed al massiccio acquisto da parte di questi ultimi, dei titoli del proprio debito pubblico. In tal modo, gli USA rifinanziano il proprio debito interno con le importazioni, entrando in una pericolosa spirale di dipendenza. Questo, perchè la crisi inizialmente relegata al comparto finanziario di un paese, sempre più abituato a vivere al di sopra delle proprie possibilità, è andata estendendosi al mondo intero colpendo non solo i mercati finanziari

dei vari paesi, ma anche e specialmente le economie reali, provocando una profonda recessione, estesa a macchia d’olio. Paesi come Germania, Giappone e Cina, per superare tale fase dovranno quindi incentivare i propri (relativamente!) scarsi consumi interni, dirottando le proprie risorse economiche in tale direzione, piuttosto che verso le esportazioni o ancor più attrraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico USA. La Germania in particolare non potrà finanziare il debito USA, poiché già intenta a finanziare il deficit di paesi comunitari come Spagna, Grecia, Portogallo (e Gran Bretagna). La Cina, se vorrà uscire dalla propria fase recessiva, deve promuovere i propri consumi interni attraverso un gigantesco ricorso alle proprie risorse pubbliche, tagliando agli USA una grossa fetta di finanziamenti. Paesi come il Giappone, debbono provvedere a risanare una situazione le cui radici risalgono alla vertiginosa crescita degli anni passati, la mentre altri come la Russia invece non finanziano massicciamente il debitio USA per motivi politici. Uno dei più evidenti paradossi della globalizzazione sta nel fatto che, molte nazioni, oltre a dover incentivare i propri consumi interni, debbono sostenere per forza le proprie industrie spingendone giuocoforza le esportazioni. Per molte industrie europee gli USA rappresentano il più vasto e recettivo mercato a disposizione sullo scenario mondiale. Ecco allora che, per crescere, molte industrie europee si troveranno nuovamente a sostenere e finanziare la crescita interna USA.

E’scandaloso che per tirarsi su, la maggior parte delle economie debba finanziare proprio coloro che, dell’attuale dissesto sono la causa prima. Obama ha evocato il dispendioso ricorso alle risorse pubbliche per rilanciare l’economia, quasi fosse dimentico dei perversi meccanismi di interdipendenza innestati dalla globalizzazione economica che finiscono sempre con il presentare il conto, come abbiamo or ora dimostrato. Non crediamo che gli eventuali provvedimenti volti a ricondurre il mercato ad un ambito piùregolamentato non possa cambiarne granchè l’essenza, vista anche la dipendenza degli USA dalle decisioni dei grandi cartelli finanziari.

Rimane un fatto: al di là delle chiacchiere, dei proclami o degli slogan edulcorati, gli Stati Uniti, come già fatto notare da Toni Negri e da altri, rappresentano la sintesi vivente di quella costruzione statuale perfetta, frutto delle aspirazioni del Machiavelli. La sintesi dei tre poteri del principe, del popolo e delle elites sono qui rappresentate da uno stato forte, incarnato dal Principe-Presidente quale sommo punto di convergenza delle aspirazioni mercantilistiche che ne animano il nucleo costitutivo in un anodino contesto multirazziale e multireligioso. Certo il nuovo Imperatore USA è personaggio accattivante, dotato di charme e di indubbio carisma ma, con tutto il rispetto dovuto, riteniamo che il modello che egli, sicuramente in buona fede, rappresenta, non ci appartenga né abbia nulla a che fare con la nostra idea del mondo.

L’attuale, grave crisi economica, che rende insonni le notti di molti governi europei e non, sta imponendo una riflessione collettiva sugli evidenti limiti e difetti di un modello, quello economico liberal-liberista, che sino ad oggi si riteneva inattaccabile, perché fondato sul diktat paradigmatico di uno sviluppo senza fine, in fase di perenne e vertiginosa ascesa, incurante di altro scopo che non sia quello di un illimitato profitto individuale, vera e propria “fons perennis” d’ogni umana felicità. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi. Una serie di scossoni, a partire dagli anni ’90, hanno seminato sconcerto ed incertezza anche tra i più ottimisti tra gli analisti economici. Ma procediamo per ordine.

La questione del signoraggio bancario

Problemi nuovi, si dirà, determinati da altrettante nuove situazioni ma tutti, invece, tragicamente legati ad un antico ma sempre attualissimo problema: quello legato al signoraggio bancario, ovverosia per dirla in breve, al costo occulto dell’emissione del denaro che noi ogni giorno teniamo in tasca. Il premio Nobel Paul R. Krugman definisce il signoraggio come “flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è un altro. E’ cosa risaputa che vi sono paesi in via di sviluppo o con difficoltà economiche i quali, per ovviare alle proprie situazioni, hanno fatto ricorso allo strumento del signoraggio per aumentare le proprie scarse risorse finanziarie tramite l’immissione sul mercato di denaro circolante in gran quantità. Questo molto spesso ha finito per generare iperinflazione, peggiorando assai le varie situazioni in esame e finendo con l’assoggettare i vari paesi ai diktat della finanza internazionale. Ma è altresì vero che vi sono stati paesi che, attraverso l’emissione monetaria e l’utilizzo delle risorse del signoraggio hanno dato luogo a tutta una serie di opere pubbliche, atte a creare nuovi posti di lavoro ed a risollevare, di conseguenza, economie disastrate. E’ la ricetta keynesiana applicata nella Germania degli anni ’30 o nell’ Italia di quello stesso periodo o negli USA della Grande Depressione di Roosvelt. Il vero problema sta semmai nello squilibrio che si è venuto a creare con il tempo, tra la massa di denaro circolante e le riserve auree delle varie banche nazionali.

Le premesse recenti

A partire dagli anni ’90 del secolo passato, una serie di innovazioni tecnologiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’elettronica all’ingegneria genetica, andranno accompagnandosi al crollo dell’ordine bipolare USA URSS e quindi all’intransigente adozione delle dottrine del più spinto liberismo economico, quali per esempio, quelle di Rudiger Dornbusch  e dei suoi “Chicago Boys”. Quanto detto, si accompagna ad un sostanziale aumento dei profitti delle varie grandi imprese che, sempre più svincolate da ostacoli di tipo giuridico e politico, grazie alla cosiddetta “deregulation” possono costituirsi in veri e propri blocchi oligopolistici, creando sempre più difficoltà alla crescita delle medie imprese e creando, quindi, maggior disparità sociale. Non solo. La graduale perdita di incisività e rappresentanza dei sindacati americani, permette da parte delle grandi concentrazioni economiche, il sempre più frequente utilizzo dei propri elevati profitti in investimenti di tipo speculativo-finanziario, avulsi quindi da qualsiasi  reimmissione nei circuiti dell’economia reale, di per sé stessa produttiva. Uno di questi strumenti principe, saranno i cosiddetti “fondi-pensione” che faranno sì che le pensioni dei dipendenti delle imprese saranno sempre più legate ai capricci dei mercati finanziari. Un altro sciagurato criterio sarà il reinvestimento in stipendi e benefit per i manager. Al contempo, la graduale e pericolosa perdita di potere d’acquisto dei ceti medio-bassi, determina la pratica dell’indebitamento di questi ultimi attraverso l’immissione sul mercato di strumenti finanziari per incentivare il consumo, quali mutui immobiliari, etc., tutti legati a junk bonds/titoli spazzatura, swap ed altri ancora, che saranno alla base dell’esplosione della bolla speculativa del 2007. Gli anni ’90 sono anche gli anni del WTO, dell’Uruguay Round di Montevideo, gli anni della spinta decisiva in direzione di una marcata liberalizzazione dell’intera economia mondiale, sia attraverso l’apertura dei mercati nazionali dei paesi partecipanti, sia attraverso la concessione della possibilità di fare finanza anche a soggetti come le banche nel loro insieme che, sino ad allora, potevano farlo solo attraverso strutture qualificate, quali le banche d’investimento o attraverso mediatori finanziari con uno statuto ad hoc. Tutto questo permetterà una ancor più spinta finanziarizzazione dell’economia, non accompagnata da un contrappeso di garanzia e stabilità quale quello rappresentato dall’economia reale. Le crisi asiatica ed argentina di fine anni ’90 e la precedente recessione di metà anni ’90, incentrata più su Eurolandia, costituiranno i prodromi della grande crisi sistemica del 2007. Altro aspetto dell’intera questione è rappresentato dal lungo, lunghissimo stato di recessione e perdita di competitività delle economie dell’area euro occidentale, la cui causa va attribuita principalmente al costante allineamento di queste ai diktat del FMI ed alla sciagurata idea dell’adozione di una comune politica monetaria, attraverso l’introduzione dell’Euro. Quest’ultimo provvedimento ha definitivamente frenato l’economia di Eurolandia, avendo praticamente operato una virtuale omologazione delle economie europee, tutte oramai bloccate e legate ad un unico indirizzo di economia monetaria, con gli effetti sotto gli occhi di tutti.

Le riserve bancarie

Per lungo tempo le banche hanno dovuto sempre emettere denaro circolante sulla base di riserve (per lo più auree) poste a garanzia della solvibilità della banca nazionale emittenda. Con l’andare del tempo, a partire dal 19° secolo, con l’intensificarsi degli scambi commerciali su scala globale, di fronte all’altalenarsi delle valute, si doveva trovare un comune punto di riferimento per le varie valute. L’oro finì con l’assumere tale ruolo, ma tra le due guerre, in un periodo caratterizzato da una forte turbolenza dei mercati, causata dal crescente disaccordo tra i grandi competitori internazionali (in primis Germania, Inghilterra e Francia) tale ruolo fu surclassato dalla fluttuazione dei cambi. Sarà solamente con gli accordi di Bretton Woods del 1944, che il dollaro USA assumerà quella funzione di valuta-guida in condivisione con l’elemento aureo, a cui sarà legato da un rapporto di formale dipendenza sino al 1971, anno in cui il presidente americano Nixon decide l’uscita da quegli accordi, oramai superati dalla sempre più altalenante fluttuazione dei mercati. Abolendo però il ruolo formale ricoperto sino ad allora dalle riserve auree, si andava formalizzando un pericoloso precedente, ovvero quello della produzione di circolante ex nihilo, dal nulla, senza alcuna garanzia e la cui tenuta era quindi oramai lasciata totalmente nelle mani dei grandi operatori finanziari privati, banche in primis, che finivano in tal modo per ricoprire un ruolo sempre più esorbitante e condizionante nella gestione e nell’andamento delle singole economie nazionali. E qui arriviamo al nocciolo di un problema la cui entità e complessità non si possono limitare o semplicemente datare al 1971.

L’intromissione dei gruppi finanziari

Il problema dell’intromissione di gruppi di pressione finanziarie nella gestione e nell’emissione di denaro delle singole banche nazionali è connaturato alla nascita stessa dell’istituzione bancaria. Quando nasce nel 1671, la banca d’Inghilterra è sostenuta dai cospicui prestiti di finanzieri privati. Attualmente, la stessa Bankitalia è ufficialmente partecipata dai privati per il 94,33%, mentre in Francia o in Svizzera esse sono società di capitali pubbliche. Questo almeno dal punto di vista ufficiale. Dal punto di vista ufficioso, poiché a controllare e gestire i grandi flussi monetari in funzione di mediazione sono sempre le banche, ecco là che il trucco è scoperto: la massa di valuta circolante anche laddove è ufficialmente emessa da banche nazionali a capitale interamente pubblico, è concretamente controllata e gestita da gruppi di interesse privati. Poiché costoro detengono ed orientano i flussi di circolante, ponendosi a garanzia delle emissioni delle varie banche centrali (che garanzie non ne hanno più, avendo illo tempore abolito l’oro o qualunque altra forma di riserva…) rappresentando il canale privilegiato per la collocazione sul mercato delle varie tipologie di titoli del debito pubblico,  finiscono comunque con il lucrare su queste accaparrandosi in pratica i proventi del signoraggio. Qualcuno dirà che di quanto detto non esiste una dimostrazione pratica, che sono tutte “bufale”, ma stranamente ogni qualvolta l’uso del signoraggio da parte di paesi economicamente inguaiati ha generato iperinflazione, a guadagnarci sono sempre state le grandi concentrazioni bancarie, speculando sugli interessi determinati da una vertiginosa emissione di circolante. Stesso discorso quando, per evitare un troppo disinvolto ricorso al signoraggio, si sono costituite banche nazionali slegate dai vari governi e sin troppo legate ai soliti noti. In pratica, il denaro che abbiamo in tasca non ci appartiene, esso ci viene letteralmente prestato, con un tasso di interesse occulto (la cui entità ammonterebbe approssimativamente ad un 200%, sic!) versato direttamente nelle tasche delle banche private, che in tal modo si arricchiscono e speculano sull’emissione della massa del circolante. Il processo è andato chiaramente ingigantendosi all’indomani della sciagurata introduzione della moneta unica europea (EURO), che ha definitivamente tolto alle banche nazionali europee qualsiasi reale potere di controllo, demandando ad un ristretto gruppo di burocrati legati a doppio filo ai grandi centri della speculazione finanziaria, la gestione e l’indirizzo dell’intero meccanismo. Ora è chiaro che, essendo la valuta europea divenuta un titolo che funzione come una camera di compensazione per cui, ogni volta che si verifica una perdita o una spesa all’interno dell’Eurozona a pagare devono essere tutti i “soci”, si può immaginare a quale astronomico livello siano cresciuti gli interessi da emissione o signoraggio, che stanno in gran parte alla base dell’attuale fase recessiva dell’economia europea. Il debito pubblico, parola con cui oggidì si cullano i nostri analisti politici, altri non è che un micidiale mix tra spesa pubblica ( determinata da quelle uscite in gran parte necessarie alla normale vita di una comunità nazionale, quali quelle determinate dalla previdenza sociale, dalla sanità, dall’istruzione, dalla sicurezza, etc.), massicciamente supportata, però, da interessi da devolvere a quelle banche private che sostengono e coordinano l’emissione del circolante.

 

       Tra Ezra Pound ed Auriti: l’altra economia

VERSO UNA NUOVA CRISI?

 

Il nuovo anno appena cominciato, si è inaugurato con un tonfo delle borse a livello mondiale. A partire dal gigante cinese, sembra che un irrefrenabile contagio recessivo, abbia spinto al ribasso i titoli azionari urbi et orbi. Tutti gli analisti ufficiali sono concordi nell’attribuire questa crisi al recente ribasso dei prezzi del petrolio che ha , oramai, raggiunto quasi il proprio minimo storico, per vari motivi. Anzitutto, la crisi recessiva che da molti anni attanaglia con variabile intensità l’Europa ed il resto del mondo, ha portato ad una sensibile riduzione dei consumi di petrolio, in particolare nel Vecchio Continente, generando pertanto, un esubero produttivo, a cui non corrisponde un proporzionale consumo. Secondo poi, l’entrata in scena di nuovi “competitors” energetici dell’Arabia Saudita e dei Paesi del Golfo, come gli Stati Uniti (che hanno praticamente raggiunto l’autosufficienza energetica) o la Federazione Russa, ha contribuito non poco a questo nuovo scenario. Non solo. La nuova ventata di crisi è, dai più, attribuita ad una presunta bolla speculativa immobiliare e finanziaria, che riguarderebbe proprio il gigante cinese e che rischierebbe a breve di provocare una disastrosa deflagrazione sui mercati mondiali. A questo già inquietante scenario, nel contesto europeo, l’Italia vive un pesante clima di dubbio ed incertezza, generato dal problema delle cosiddette “sofferenze bancarie” e dal conseguente rischio di insolvibilità di queste ultime verso investitori, risparmiatori e correntisti d’ogni genere e tipo. Il caso di banca Etruria è, a tal fine, esemplificativo di una situazione che meriterebbe un’analisi che dovrebbe andare ben oltre tecnicismi e virtuosismi macro economici che, ben poco contribuiscono alla comprensione del problema. A tal fine bisognerebbe fare un piccolo passo indietro, rammentando che, negli Stati Uniti sta per esplodere nuovamente una crisi determinata dall’annoso problema delle obbligazioni spazzatura e che potrebbe rappresentare una delle prime battute di una nuova, micidiale crisi del credito. Infatti, sempre negli USA, il fondo di investimento di Third Avenue, che gestiva 788 milioni di dollari, ha annunciato il proprio scioglimento, dopo essere stato travolto da un’ondata di perdite e di richieste di riscatto da parte degli investitori. Oltre a questo caso, recentemente l’ “hedge fund” Stone Lion Capital Partners, che gestisce 400 milioni di dollari, ha bloccato tutti i riscatti. Questi casi non rappresentano un’eccezione, ma sono il risultato dell’insolvenza di tutta quella pletora  di società del settore petrolifero ed energetico di dubbia credibilità a cui, negli ultimi anni, sono stati erogati crediti con estrema facilità. Gli Usa hanno, difatti, vissuto e vivono a tutt’oggi, un periodo di denaro facile e a costo bassissimo che, anche grazie ad una costitutiva mancanza di regole in tal senso,  ha consentito nuovamente l’espansione delle obbligazioni spazzatura (i cosiddetti Junk bonds) e di tutti quei fondi di investimento, che raccoglievano capitali dai risparmiatori alla ricerca di tassi di interesse più alti, di quelli erogati da obbligazioni o da titoli del debito pubblico. Ora questo settore, cresciuto contemporaneamente alla bolla dello “shale oil” e “shale gas” americano, sta esplodendo. Gli analisti ufficiali attribuiscono al crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, la crisi che sta travolgendo tutte quelle società che sopravvivono, grazie alla possibilità di rifinanziarsi con la speculazione sui mercati. Si parla di cifre da capogiro: per il solo settore petrolifero americano si stima che i crediti in sofferenza superino i 200 miliardi di dollari. Una crisi questa che, chiaramente, non poteva lasciare indenne il settore bancario: Wells Fargo, la maggiore banca statunitense per capitalizzazione, ha annunciato perdite per i prestiti concessi al settore petrolifero. A conferma di quanto detto, le autorità di sorveglianza americane hanno stimato che i crediti bancari del settore energetico in sofferenza, abbiano oramai superato i 34 miliardi di dollari, risultando quintuplicati rispetto all’anno passato. Sulla pericolosa china della crisi, vi sono anche colossi dell’industria mineraria, che oltre a quello di impresa, giuocano in prima persona anche il ruolo di maggiori ossia speculatori (trader), sul mercato delle materie prime. Anglo-American, per esempio, ha annunciato una ristrutturazione che prevede il taglio di 85mila dipendenti; la Glencore, che è il principale trader a livello mondiale, sta disperatamente cercando di ridurre un indebitamento che supera i 20 miliardi. Questi dati ci iriportano ad uno scenario simile a quello da cui prese avvio l’attuale fase di crisi, proprio all’inizio del 2007, con il fallimento di due “hedge fund” che facevano capo alla banca di investimento Bear & Stearrns e che continuò fino all’autunno del 2008, con il fallimento della Lehman Brothers. Allora era la crisi del mercato immobiliare americano, oggi la crisi del settore energetico e minerario. Allora nelle obbligazioni che contenevano i mutui ipotecari, oggi nei titoli con cui sono stati finanziate le società petrolifere, stanno emergendo perdite reali che, come allora, non si limitano ai settori in crisi, ma vanno contagiando anche i titoli di società di altri settori. Ad essere maggiormente coinvolti sono, in questo caso, i titoli obbligazionari a maggiore rischio, con un forte rialzo dei rendimenti, che determina le premesse per una serie di fallimenti. Ad oggi, sempre negli Usa, ad essere coinvolti sono anche i titoli con cui si rifinanziano i colossi della grande distribuzione, come nel caso della catena Macy’s, uno dei big americani del settore. I media “embedded” sussurrano che, al pari di quanto avvenne nel 2007, questa situazione di difficoltà non debba necessariamente comportare, nell’immediato, una crisi di più ampie proporzioni. Taluni addirittura vedono nella crisi del gigante cinese,  un episodio unicamente connaturato ad un “naturale” e “benefico” processo di passaggio da una struttura socio economica prevalentemente rurale, ad una a prevalente vocazione industriale. In verità, la crisi del debito ha iniziato a produrre i suoi primi effetti in paesi come il nostro dove, a fronte della operazione di salvataggio di quattro banche di piccola dimensione, avvenuta in conformità delle nuove belle regole europee del “bail in”, per cui i detentori di obbligazioni subordinate (ed alla fine tutto il corpus dei risparmiatori, sic!) vengono chiamati a pagare le perdite di queste banche, abbiamo un settore, quello bancario, gravato da 200 miliardi euro di sofferenze che, secondo i dettami dei Poteri Forti, dovrebbero essere ripianati da quelle banche centrali che, saldamente partecipate dalle banche private (che maneggiano i soldi dei cittadini!), sono altrettanto saldamente e generosamente, finanziate con il denaro pubblico ( ovverosia con i soldi delle tasse dei cittadini, sic!). Da tutto questo bel quadretto, possiamo trarre alcune considerazioni finali. Primo. Questa nuova crisi è tutt’altro che passeggera. A detta del russo Kondratiev, fautore di una teoria sui cicli delle crisi economiche, quella presente, chiamata “secondaria”, altro non sarebbe che la continuazione  della precedente fase depressiva. Se, nel 2008 ci si era illusi che si fosse toccato il punto più basso della cosiddetta “onda K”, ora c’è chi sostiene che, non prima del 2020, questa fase si esaurisca. Il fatto è che, tutti gli indicatori di Kondratiev oggidì sono manifesti: bassa inflazione, interessi sul debito in calo, materie prime al minimo, surplus di liquidità. A detta di taluni, a voler andare ad analizzare i cicli precedenti, l'esistenza di queste condizioni dovrebbe costituire un evidente segnale di ripresa. Ma oggi ci si presentano tre ulteriori variabili, che modificano in negativo l’intero quadro: la globalizzazione, l' instabilità del quadro politico internazionale e la cosiddetta curva del ciclo breve. Secondo. Molte società dei Paesi emergenti negli ultimi si sono pesantemente indebitate sui mercati occidentali e, il fatto che, la Cina in primis, come abbiamo già precedentemente accennato, stia per essere travolta da una bolla immobiliare non dissimile da quella americana del 2008, ci pone davanti alla realtà del declino, se non addirittura del fallimento, delle cosiddette “realtà emergenti”, ovverosia quei paesi (come Cina, Brasile, India, Sud Africa, Malesia, Corea del Sud, Emirati Arabi, etc.) che, negli anni passati, sono stati oggetto di una impetuosa crescita economica, almeno in termini di PIL. Terzo. Abbiamo già detto che, a pagare, sono solamente i cittadini contribuenti e risparmiatori, perchè il rifinanziare le banche con altro denaro pubblico o privato che sia, costituisce una semplice panacea che non può saldare, se non momentaneamente, i vari buchi di bilancio, ma non il problema di fondo. Quarto, a corollario di quanto sin qui detto. Inutile nascondersi dietro una foglia di fico. Il liberal-capitalismo ha fallito. Cercare di dimostrare il contrario e proseguire con un certo andazzo, oltre ad costituire una antistorica perdita di tempo, costituisce un esercizio autolesionista e suicida. Il mondo sta rischiando di andare incontro ad una catastrofe ambientale, solo perché i grandi raggruppamenti finanziari debbono poter lucrare sullo sfruttamento di materie prime come gli idrocarburi, snobbando l’ampio ventaglio offerto dalla risaputa esistenza di tecnologie alternative. Milioni di persone, in Europa e nel resto del mondo, vedono quotidianamente ridursi i margini del proprio tenore di vita. Lo squilibrio tra la impetuosa crescita di nuove realtà geoeconomiche, di contro alla stasi ed alla decrescita occidentali, in virtù della legge dei vasi comunicanti connaturata alla globalizzazione dei mercati, sta portando quel medesimo contagio recessivo a contesti sino ad oggi considerati “in crescita”. L’attuale ciclo economico, caratterizzato da un’economia dei servizi, anziché porre l’accento sulla produzione di beni reali in affiancamento e supporto alla prima, ha condotto ad un’autolesionistica virtualizzazione dell’economia, ora imperniata sulla finanziarizzazione, ovverosia sull’emissione di titoli vari, privi di alcuna garanzia reale a supporto del proprio valore di emissione. Questo fenomeno, marcia appaiato con l’annosa questione, che abbiamo poc’anzi esaminato, legata alla produzione della valuta, la cui proprietà, ufficialmente detenuta dalle banche centrali è, in realtà, nelle mani di banche ed istituzioni finanziarie private che, delle varie banche nazionali costituiscono l’ “assett” maggioritario. Pertanto, prima si prende coscienza di quanto sin qui detto, meglio sarà per tutti. Pensare che le manovre di Draghi o del duo Renzi-Padoan Schioppa possano, in qualche modo, costituire un’alternativa a questo quadro, è folle ed illusorio. Il meccanismo innestato dal liberismo globale, tende ad un progressivo accentuarsi di sempre più brevi momenti di euforia dei mercati, a cui fanno da contraltare sempre più lunghe e violente fasi di crisi recessiva. E’ pertanto auspicabile un ritorno, in tempi brevi, ad un’economia caratterizzata da una forte partecipazione e controllo da parte del settore pubblico. Un keynesismo “etico” e non un’involuzione burocratica, supportato da una totale rivisitazione degli attuali equilibri (sarebbe meglio dire squilibri, sic!) geoeconomici, tramite una generale riappropriazione da parte degli Stati, delle proprie competenze politico-economiche, (tornando, per esempio, ad effettuare politiche di bilancio, o, alla sovranità monetaria, ovverosia alla esclusiva titolarità pubblica nell’emissione di quella valuta, i cui costi (signoraggio) andrebbero reinvestiti nel settore pubblico, sic!) oggi castrate da accordi-cappio internazionali (Wto, Maastricht, Lisbona, Tpp, Tisa e Ttip, etc.), in primis facendo della Comunità Europea, un Comunità di Stati Indipendenti, riprendendo in mano quella sovranità politica ed economica, senza la quale non vi possono essere, né vi saranno mai, crescita, sviluppo o benessere generali, che dir si voglia.

BANCA ETRURIA: UN VERGOGNOSO FALLIMENTO

 

Natale. Tempo di feste, abbuffate e, ahimè, tante, troppe, ciance. Come quelle del governo sulla ripresa economica o, ancor peggio, sul salvataggio dei risparmiatori coinvolti dal recente crack di Banca Etruria e di altri consimili istituti di credito. Ciance, promesse, annunci trionfalistici che, in verità, nascondono la realtà di una malcelata connivenza e di generalizzata impotenza del potere politico nostrano, dinnanzi ai desiderata dei Poteri Forti dell’economia. Vedere turme di nostri concittadini costretti all’estrema ratio di una protesta oramai sterile, dopo esser stati depredati dei propri risparmi, vedere altrettante turme di nostri poveri concittadini sbattuti in mezzo ad una strada da un infame decreto di sblocco degli sfratti, vedere turme di nostri poveri concittadini, impoveriti da una crisi senza uscita, massacrati da un fiscalismo odioso e rapace, assillati da una precarietà istituzionalizzata e, pertanto, sempre più lontani dall’arrivare al fatidico traguardo del fine mese, beh, tutto questo fa male, colpisce diretto al cuore. Colpisce specialmente se, durante certe trasmissioni televisive, ti tocca ascoltare le oscene lamentazioni dei titolari di cooperative per l’assistenza agli stranieri, che campano di generosi sussidi pubblici, invece negati ai nostri connazionali, questi sì discriminati e ridotti in miseria. Il problema sta in una società tutta, oramai, impostata a misura di usura. Usura è un denaro emesso da banche private ed il cui costo di emissione vien fatto pagare ai cittadini. Usura è un circuito economico oramai imperniato quasi esclusivamente sulla pura speculazione e non sulla produzione di beni reali o servizi. Usura è il liberal-liberismo, ovverosia, a chiacchiere permettere a ciascuno di far quel che vuole, in verità, permettere alle grandi concentrazioni economico finanziarie di poter farla da padrone sugli altri, senza più alcun freno o limite, anche se solamente di carattere formale, di sorta. Usura è anche, scendendo nel dettaglio, l’infame pratica del costante aumento dei prezzi al consumo. Oggidì, il voler cercare in qualche modo di vivere, è soggetto a tutta una serie di costi eccessivi che, sempre più, assumono la valenza di una vera e propria forma di usura, praticata sulle spalle dei cittadini consumatori. E dunque, non ci si deve meravigliare del caso di Banca Etruria, né credere alle ipocrite concioni dei vari salvatori della Patria o di chi, invece, dai comodi scranni di finte opposizioni urla allo scandalo. Finchè non si metterà mano all’infernale meccanismo usurocratico che strangola, isterilisce e depaupera senza pietà, intere comunità nazionali, nulla si potrà fare. Ed ancor più se, alla base della vita di uno Stato non vi sarà l’etica, intesa come esclusiva titolarità da parte di questo, di una prassi educativa di massa, nulla si potrà fare, se non lamentarci e leccarci le ferite. Certo, denunciare e segnalare lo schifo, si può e si deve, ma non può bastare. Proposte politiche dure e coraggiose, debbono farsi spazio in un’opinione pubblica, cloroformizzata da decenni di inveterato e stupido buonismo. Basta con liberismi e privatizzazioni d’accatto. Basta con i ricatti ed i veti di un’Europa parodistica. Basta con  meccanismi finanziari, dalla natura spiccatamente usuraia. Forse sembrerà scontato ma, casa, lavoro, salute e benessere sono diritti e non optionals graziosamente concessi dalla carogna capitalista ed usuraia. La nostra battaglia non sia solo per modificare certi meccanismi o per conferire una parvenza etica ad un andazzo di per sé viziato da un difetto d’origine. La nostra battaglia sia, una volta per tutte, per il diritto alla vita, intesa come qualità, potenza, libera estrinsecazione di infinite possibilità creative che, invece, il modello oggidì imposto dalla carogna apolide, capitalista ed usuraia, vorrebbe definitivamente schiacciare, nel nome di un mondo dominato dal grigiore e dall’omologazione.

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